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Commentary

La Siria e l’accordo sulle armi chimiche: chi vince e chi perde

25 settembre 2013

In queste settimane di colpi di scena e dichiarazioni contraddittorie il mondo ha seguito le vicende siriane con un’attenzione mai avuta prima in questi due lunghi anni di conflitto civile. L’attacco americano, che sembrava ormai imminente, si è improvvisamente trasformato in un inedito accordo a tre – regime siriano, Stati Uniti e Russia con la supervisione delle Nazioni Unite – riguardante la distruzione dell’arsenale chimico di Bashar al-Assad entro la metà del 2014. L’accordo, surreale visto che riguarda un risvolto minore, seppur importante, di una tragedia già costata oltre 110 mila morti e milioni di rifugiati, è giunto certamente inaspettato ai più, e secondo molti si tratterebbe del frutto di un’abile manovra diplomatica messa in atto in extremis dalla presidenza russa. 

Ma chi è che vince e chi è che perde esattamente tra i maggiori protagonisti regionali e internazionali della tragedia siriana? 

Di sicuro ci ha perso la credibilità di Obama, che in pochi giorni è prima arrivato sul punto di lanciare il suo paese in un’altra avventura militare oltremare avversata perfino dal Pentagono oltre che dalla maggioranza degli americani, e che poi si è fatto salvare in corner dallo “zio Vlad” (come ironizzano i giornali americani in questi giorni). Quest’ultimo dalle pagine del New York Times ha saputo costruirsi un’inedita immagine di leader bilanciato e ragionevole, facendo quasi dimenticare all’Occidente la Cecenia, la Georgia, gli omicidi dei giornalisti e le leggi omofobe. 

Quello che più ha colpito dell’amministrazione americana è il velo di confusione che ha avvolto ogni decisione presa nelle ultime settimane. C’è innanzi tutto il casus belli, la questione delle armi chimiche, importante certo, ma che impallidisce in confronto ai numeri tragici del conflitto in Siria per il quale l’America e l’Occidente hanno finora fatto ben poco. Poi la decisione di attaccare, improvvisa e sorprendente, che è stata da subito seguita da dichiarazioni che sottolineavano come non ci fosse alcuna intenzione di cambiare gli equilibri sul campo del conflitto e tantomeno abbattere il regime di Assad. Quindi solo l’intenzione di “far valere la parola data” più di un anno fa: “punire” il regime che aveva superato la fatale linea rossa. Un gesto simbolico, attuato senza calcoli precisi sulle conseguenze, che molti hanno, non senza ragione, giudicato quasi scellerato. 

Insomma: “Ammazzatevi pure, basta che non usiate armi chimiche”; un messaggio piuttosto confuso per un’America divisa tra il cinismo prodotto dalle due tragiche esperienze da “esportatrice di democrazia” in Iraq e Afghanistan, e il bisogno di vedersi ancora paladina di un certo tipo di valori in giro per il mondo. 

Apparentemente ha vinto Assad. Ma la sua è una vittoria momentanea e assai costosa. Momentanea perché il conflitto sul campo non è finito, anzi: la serie di vittorie d’inizio estate che sembrava portare la vittoria del regime siriano sempre più vicina si è arrestata. I ribelli hanno ricominciato a vincere su molti fronti e, per quanto sia stata smentita con forza, la dichiarazione di pochi giorni fa del vice primo ministro siriano, Quadri Jamil, è quanto mai veritiera: né i ribelli né il regime a questo punto sembrano in grado di prevalere. Ma l’accordo raggiunto per la distruzione delle armi chimiche è anche assai costoso per il regime di Assad.

L’arsenale, costruito con pazienza in decenni, è infatti tutto ciò che rende ancora il regime e il suo esercito una minaccia di una qualche importanza per Israele, le cui forze armate sono di gran lunga le più forti della regione. Il venire meno del peso strategico delle armi chimiche risulterà determinante nel ribilanciare ulteriormente l’equilibrio delle forze a favore di Tel Aviv; se anche dovesse vincere la guerra civile, Assad sa che probabilmente con questo accordo ha indirettamente rinunciato per sempre a essere un nemico reale per Israele (e forse, di conseguenza, anche per il Golan). 

Hanno perso la Turchia e gli Stati del Golfo. La prima si era addirittura offerta di supportare l’attacco americano con le proprie Forze armate, e aveva visto l’intervento statunitense come una possibile svolta verso la risoluzione di un conflitto che negli ultimi due anni ha creato crescenti problemi ad Ankara. Alla pari della Turchia, le monarchie petrolifere del Golfo contavano molto sull’intervento americano per determinare la definitiva caduta di Assad, pedina fondamentale del “fronte sciita”. La rinuncia da parte di Obama (per ora) dello strumento militare ha ulteriormente raffreddato le relazioni tra il Golfo e Washington, già gravemente deteriorate dalle divisioni sulla Primavera araba. Le monarchie sanno che in questi giorni quando gli americani dicono “Siria”, due volte su tre intendono “Iran”, il loro grande nemico storico. A fermare i missili americani è stato infatti anche il bisogno di non alzare la tensione con Tehran in un momento che pare propizio come non mai per una svolta diplomatica nelle relazioni Iran-Stati Uniti e sul programma nucleare iraniano. Rouhani, che con un attacco americano contro Assad si sarebbe certamente trovato, suo malgrado, a dover ritirare fuori la maschera dell’antiamericanismo estremo che sembrava accantonata insieme ad Ahmadinejad, è sicuramente tra i vincitori. Il presidente iraniano si è poi affrettato a fare a sua volta dei passi conciliatori verso Washington, sottolineando come il suo paese può non rivestire necessariamente solo un ruolo di strenuo difensore del regime, ma può giocare anche la parte del mediatore in eventuali trattative di pace; l’Iran ha infatti speso molto per sostenere Assad compromettendo ulteriormente la propria fragile economia e rendendo così il regime siriano sempre più inviso all’opinione pubblica iraniana. 

Non è ovviamente necessario ricordare come tra i perdenti ci sia ancora una volta l’Europa, divisa tra il neutralismo tedesco e italiano, e l’interventismo britannico (stoppato dal parlamento) e soprattutto francese. Parigi, da anni alla ricerca di una nuova politica di potenza nel Mediterraneo che l’ha portata prima in Libia e poi in Mali con risultati controversi, è apparsa totalmente al traino delle grandi potenze, incapace di condizionarne qualunque decisione e limitandosi ad appoggiare a posteriori le numerose giravolte della posizione americana. 

C’è, alla fine, da determinare se il popolo siriano, il protagonista più importante di questa tragedia, sia catalogabile tra i perdenti o i vincenti di questo accordo. Da una parte certamente il venire meno dell’opzione militare americana rischia di determinare il prolungarsi dello stallo sul terreno, in un conflitto che, stando così le cose, sembra senza fine. È vero anche, però, che l’attenzione del mondo è stata svegliata dai tamburi di guerra statunitensi dopo due anni di semi-letargo. La pressione dell’opinione pubblica internazionale in questo momento è alta sia sull’opposizione che sul regime di Assad. Per sapere se essa sarà sufficiente dovremo attendere la Conferenza di Ginevra la cui apertura sembra concretamente approssimarsi. Questa è probabilmente la miglior occasione che in questi due anni le parti in conflitto hanno avuto per giungere a un compromesso politico: l’unica soluzione realistica per questa lunga tragedia. 

Eugenio Dacrema, ISPI Research Assistant

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Siria USA Obama Assad Russia Putin armi chimiche crisi siriana Guerra terrorismo Amisom Iran Rohuani Israele Medio Oriente conferenza di Ginevra politica di sicurezza e difesa
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