Nessuno se l’aspettava: sino a qualche settimana fa l’Algeria era la stabile eccezione in un Nord Africa in subbuglio. Traumatizzato dagli anni della guerra civile seguiti alla prima, vera primavera algerina dell’ottobre 1988, il paese non era stato scosso dal vento delle rivolte/rivoluzioni arabe del 2011 e da allora sembrava vaccinato contro qualsiasi altra esplosione di indignazione collettiva di massa.
E invece il risveglio c’è stato e, comunque vada a finire, si può affermare che in questi giorni tutta l’Algeria stia vivendo un momento storico: dopo tre decenni di violenza e terrore prima, e di diffidenza, disincanto, timori e apatia, poi, centinaia di migliaia di persone sono di nuovo scese a manifestare per le strade delle principali città, vincendo la paura e opponendosi con una sola voce al quinto mandato del presidente uscente.
Il capo dello Stato, Abdelaziz Bouteflika, paralizzato da un ictus nel 2013, è da allora assente dalla vita politica e pubblica e pressoché incapace di assolvere le funzioni inerenti la carica che ricopre. Ma la macchina del sistema algerino ha continuato a funzionare in sua vece e per conto dei numerosi gruppi di interesse che a essa sono collegati, consegnandogli la vittoria delle presidenziali del 2014 (dopo una campagna elettorale condotta per procura e grazie a brogli e frodi elettorali endemiche) e poi, negli anni a seguire, mostrandolo in poche, fugaci apparizioni pubbliche e affidando dalla sua residenza-casa di cura a selezionati portavoce messaggi e allocuzioni rivolti alla nazione o agli organi istituzionali, senza che i 42 milioni di algerini lo abbiano mai più sentito parlare.
L’annuncio della sua ricandidatura alle elezioni presidenziali previste per il 18 aprile 2019 è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e quel popolo, che fino ad allora aveva sopportato una situazione già di per sé assurda, non ha più avute remore a manifestare con un profondo senso nazionalista la propria indignazione per ciò che viene vissuto come una ridicolizzazione sia a livello interno che sul piano internazionale della gloriosa Algeria.
In un crescendo di partecipazione, dopo due settimane di mobilitazione culminate nei cortei di venerdì 1° marzo in cui centinaia di migliaia di persone hanno sfilato in tutto il paese, ieri, termine ultimo per consegnare le candidature presso il Consiglio costituzionale, Bouteflika ha fatto infine pervenire (per interposta persona) la propria, e ha cercato di calmare la situazione promettendo in un comunicato (letto dall’annunciatrice del telegiornale) che, se verrà rieletto, vi saranno riforme ed elezioni presidenziali anticipate, alle quali non si candiderà più. Una riproposizione tale e quale di quanto già promesso dal 2012, il cui risultato è stato poi un cambiamento solo di facciata.
La sorpresa di fronte alle manifestazioni iniziate venerdì 22 febbraio e continuate nei giorni successivi coinvolgendo studenti universitari e liceali – ma anche diverse categorie professionali (avvocati, insegnanti e, fatto eccezionale, giornalisti della radio-televisione pubblica), storici protagonisti della guerra di liberazione e poi esponenti dei principali partiti non di governo – è stata tale sia per gli osservatori esterni che per il regime stesso. Quest’ultimo, incredibilmente, in questi anni di continue polemiche circa il presidente-assente e di dibattito sul dopo-Bouteflika non ha ancora maturato un piano B.
La risposta di così tante persone a un appello partito e diffusosi – sembra – esclusivamente tramite i social network contro l’ennesima umiliazione ha sconvolto in realtà anche gli stessi partiti della cosiddetta opposizione, i candidati che si proponevano come “il nuovo”, i partiti islamisti che qui partecipano alle elezioni (e per quindici anni anche al governo) dal 1995, così come i sindacati – tutti ormai discreditati non solo da anni di sostanziale connivenza col sistema ma anche di gestione autoritaria al loro interno. E tutti hanno dovuto adattarsi a partecipare ai lunghi serpentoni snodatisi tra Algeri, Orano, Annaba, Costantina (per citare solo le principali località) da semplici cittadini evitando attentamente di dirigere un movimento spontaneo, animato da giovani (la metà della popolazione) e per ora senza alcun leader. Un altro fatto eccezionale sino a oggi è il carattere civico e allegro degli assembramenti dovuto a una profonda auto-regolamentazione interna che fa sì che siano evitati momenti di tensione (al grido di silmiya, silmiya, “pacificamente”) e dirottati i percorsi di fronte ai cordoni di poliziotti, che a loro volta, corteggiati dai manifestanti (“il popolo, la polizia, siamo fratelli”), hanno ricevuto evidentemente ordini di non sparare e di non reagire se non con qualche lacrimogeno.
La paura di tornare al caos e alla violenza del “Decennio nero” (gli anni Novanta) originato allora proprio dall’apertura al pluripartitismo e alla democrazia sfociata prima nella crescita di consensi al partito radicale islamista Fronte islamico di salvezza, poi nel colpo di stato militare (1992) e quindi nella guerra civile è stata per ora vinta, ma potrebbe ripresentarsi qualora le manifestazioni si trasformassero in moti insurrezionali. La piazza sembra ben intenzionata a non cedere alle provocazioni (per il momento assenti) e a continuare pacificamente la protesta; il potere potrebbe sopportare e lasciar sfogare i manifestanti con un atteggiamento paternalista e accogliente rispetto alle richieste di democrazia come quello contenuto nella missiva consegnata ieri alle televisioni. Un messaggio che ricorda troppo da vicino il “metodo Boutef” utilizzato per superare le sparute contestazioni del 2011-2012 quando le consultazioni per riscrivere la costituzione – annunciate, poi più volte rimandate e infine boicottate dalla maggior parte delle organizzazioni – avevano consegnato un nuovo testo fondamentale nel 2016, senza passare dal promesso referendum.
Da oggi, e solo fino al 18 aprile 2019, i giochi sono ancora aperti. Il recupero della dignità di un popolo in un paese con grandi risorse e potenzialità che vanno oltre le riserve di idrocarburi è tutto nelle mani di una nuova società civile che da queste mobilitazioni può risorgere, ma che ha poco, pochissimo tempo per decidere quale tipo di cambiamento rivendicare (e di conseguenza quale genere di azioni intraprendere): formale (e con un po’ di impegno il sistema potrebbe relativamente presto partorire un nuovo nome che preservi lo status quo degli interessi dei tanti stakeholders a esso ancorati), radicale (con un rinnovamento totale del sistema istituzionale ed economico, che non si è visto peraltro in un nessun paese protagonista delle Primavere arabe) o genuinamente riformatore (con il ritiro della candidatura di Bouteflika, l’annullamento delle elezioni e l’indizione di un’Assemblea costituente). Nelle prossime settimane, dunque, gli algerini potrebbero ancora sorprenderci.