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Commentary

La spartizione della Siria non è sinonimo di pacificazione

Andrea Glioti
24 luglio 2017

L’ultimo cessate il fuoco mediato da Usa e Russia – il quinto di una serie a dir poco fallimentare dal 2011 – è l’ennesimo tassello nella spartizione della Siria tra potenze regionali e internazionali, e difficilmente potrà presentarsi come una tappa credibile nella risoluzione del conflitto.

Innanzitutto i termini dell’attuale tregua mancano di trasparenza: l’annuncio di domenica 9 luglio riguardava le tre province meridionali di Quneitra, Daraa e Sweida, ma, a pochi giorni dall’entrata in vigore, le forze leali a Damasco hanno avviato un’offensiva contro i ribelli nel nord-est della provincia di Sweida, e in questo momento avanzano indisturbati nella Badia desertica della Siria orientale. La relativa quiete del fronte meridionale sta pertanto permettendo ai sostenitori del regime di Assad (e ai russi) di guadagnare terreno in quella corsa per la riconquista di Deir-Ezzo(provincia ricca di risorse energetiche controllata dal sedicente Stato islamico, IS) a cui partecipa senza troppa convinzione anche Washington.

Più che un passo verso la pacificazione su scala nazionale, la tregua in vigore appare dettata da interessi di respiro regionale, con una chiara priorità per la sicurezza di Israele, il principale stato confinante interessato alle sorti delle province meridionali e al contenimento dell’influenza iraniana nei pressi delle alture occupate del Golan. Tel Aviv ha infatti esplicitato più volte che il presupposto di un suo appoggio alle cosiddette “zone di de-escalation” è il ruolo di garante che la Russia è chiamata a ricoprire per mantenere a debita distanza le milizie filo-iraniane operative in Siria. Non è da escludere che il prezzo da pagare per l’esclusione di Teheran dalla “zona” meridionale sia proprio il via libera nelle regioni orientali.

Nel quadro di queste aree di influenza delineate da Russia, Iran e Turchia nei colloqui in corso ad Astana permangono inoltre una serie di nodi irrisolti. Uno di questi riguarda le sorti della regione nord-occidentale che verrà affidata in gestione alla Turchia, e corrisponde all’incirca alla provincia di Idlib e al nord di quella di Aleppo. Le intenzioni turche di annettere a tale zona l’enclave curda di Afrin con il consenso russo – contro cui si sono già levate le voci della leadership militare curdo-siriana – aprirebbero un nuovo fronte nella guerra di Siria, complicando notevolmente la posizione di Washington, che continua a puntare soprattutto sui curdi per ampliare la propria sfera d’influenza nel nord-est siriano. L’incognita curda è solo una delle questioni non affrontate nell’attuale piano di spartizione della Siria, come dimostra l’assenza dei delegati del Rojava ai negoziati di pace di Ginevra e ai colloqui di Astana, a dispetto dell’estensione dei territori attualmente controllati.

Di portata ancora maggiore rispetto alla causa curda, ma a essa correlata, è poi l’assenza totale di una dimensione politica nei tentativi di risoluzione del conflitto. A oggi, i rappresentanti del regime e quelli delle opposizioni non si sono mai parlati direttamente, rimanendo dipendenti dalla mediazione Onu. Nessuna delle tematiche politiche alla radice dell’insurrezione popolare e del successivo conflitto è stata affrontata seriamente in sede diplomatica.

Le “zone di de-escalation” rimangono un prodotto dell’approccio militarista, incentrato unicamente sull’“anti-terrorismo”, adottato unanimemente dalle cancellerie internazionali – e inteso esclusivamente come lotta a gruppi paramilitari di orientamento jihadista sunnita – e non si può aspettarsi che contengano una soluzione a contenziosi politici ben più complessi. Questi comprendono il processo di decentralizzazione connesso all’implementazione del Decreto legislativo 107 - approvato da Damasco nel 2011 - e la sua interazione con la proposta federalista dei curdi e le rivendicazioni delle opposizioni; il destino di chi si è macchiato di crimini di guerra (compresi, naturalmente, i vertici del regime di Assad); le riforme necessarie alla democratizzazione delle istituzioni e i relativi meccanismi di monitoraggio internazionale; la sorte di decine di migliaia di prigionieri politici. Invece, sull’onda della “lotta al terrorismo” si continua a seminare distruzione e si tracciano i nuovi confini destinati a contenere i rispettivi interessi strategici, ma non si riconciliano di certo i siriani in guerra.

 

Andrea Glioti, giornalista freelance e editor di SyriaUntold

 

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Medio Oriente Siria guerra civile tregua negoziati
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Andrea Glioti
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