A dieci anni dalla guerra, l’Iraq resta un Paese instabile dilaniato dalle violenze settarie e dal terrorismo jihadista. La caduta della dittatura ha fatto riemergere le rivalità etnico-religiose tra le comunità di sciiti e sunniti e la situazione politica rimane lontana da quanto auspicato dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Abbiamo intervistato l'ambasciatore Maurizio Melani, già ambasciatore italiano a Baghdad, per chiedere una sua opinione sugli elementi di maggior rilievo per la politica interna e internazionale del paese.
Quali sono le motivazioni profonde dell’escalation di violenza registrata nell’ultimo anno in Iraq?
Le cause dell'involuzione che si registra in Iraq sono di carattere interno e regionale. Le prime sono da ricollegare ai risultati elettorali del 2010 e all'incapacità delle forze politiche di gestire il necessario governo di coalizione la cui costituzione era stata propiziata sia dagli Stati Uniti sia dall'Iran. Il primo ministro al-Maliki e le forze attorno a lui, malgrado le intenzioni manifestate nella campagna elettorale, non hanno lasciato lo spazio atteso alla componente sunnita, i cui leader sono stati invece marginalizzati e in vari casi criminalizzati, e alle forze laiche e trasversali rappresentate in Iraqya. Alle milizie tribali che con il sostegno americano avevano eliminato Al Qaida dalla provincia di Anbar non è stata data l'accoglienza promessa nelle forze armate e di polizia. La repressione delle proteste inizialmente pacifiche, condotta violentemente da apparati di sicurezza sempre più identificati con il potere personale del primo ministro, ha riaperto spazi alla lotta armata e alla riappropriazione qaidista di parti del territorio ulteriormente favorita dalle vicende siriane. Sull'altro fronte Iraqya si è mostrata priva di coesione e di leadership e nessuno ha potuto evitare la sua frammentazione.
Sul piano regionale i paesi vicini hanno continuato a non favorire la stabilizzazione. Le monarchie sunnite per non consolidare un Iraq a maggioranza sciita, in buoni termini con l'Iran e in grado, una volta pacificato e ben governato, di insediare l'Arabia Saudita quale principale produttore di idrocarburi e nuovo grande attore finanziario regionale e internazionale. L'Iran perché la necessaria composizione tra la maggioranza sciita e le forze sunnite, in un contesto di duro confronto con Riyadh evidenziata dalla vicenda siriana, sarebbe stata negativa per quella continuità egemonica fino al Mediterraneo che è da sempre un obiettivo persiano. La Turchia ha preferito giocare la carta del Kurdistan, per ragioni interne e per l'evidente attrazione delle "constuencies" imprenditoriali anatoliche dell'AKP verso quell'area e la sua stabilità.
Sappiamo che senza il concorso convergente dei paesi vicini l'Iraq non potrà essere stabilizzato. La "grande intesa" ("grand bargain") con l'Iran che si va profilando dovrebbe portare nel tempo a tale risultato. Ma intanto le resistenze regionali a questo sviluppo accentuano in un più o meno breve periodo le spinte destabilizzanti.
È corretto associare la delicata situazione di sicurezza attuale a quella registrata nei momenti più critici della guerra civile? Quali sono gli elementi in comune e quali i principali fattori divergenti rispetto agli anni 2005-2008?
Nel 2005-2006 la presenza americana unificava contro di essa la lotta armata. A partire dal 2007 la nuova politica di Washington affiancava al sostegno ad al-Maliki quello alle tribù' sunnite per eliminare Al Qaida. Allora vi erano ancora forze baathiste che trovavano sponde in Siria e milizie sciite (badriste, sadriste e di altro tipo) contro le quali Maliki lancio' nel 2008 un'offensiva con il sostegno americano e la sostanziale acquiescenza iraniana (anche per le divisioni interne a Teheran sulla gestione del dossier iracheno) che portò alla loro neutralizzazione e all'affermazione dell'autorità del primo ministro. Oggi molte cose sono cambiate ma resta il dato di fondo che, malgrado il rigetto delle divisioni settarie da parte della grande maggioranza della popolazione irachena, le leadership politiche sciite non sono ancora pronte a una reale pacificazione e a una effettiva condivisione del potere, mentre gran parte di quelle sunnite, sostenute dall'estero, non hanno rinunciato alla rivincita. Inoltre, gli americani che dopo gli abissali errori dei primi anni avevano trovato il passo giusto dopo il 2007 oggi non solo non sono presenti sul campo per fare la differenza sul piano militare, al di là dei mezzi che forniscono e dei quali il governo iracheno non sembra sappia fare l'uso migliore, ma il loro peso politico è visto come notevolmente indebolito e quindi meno i grado di influenzare le cose.
Diversi analisti hanno sottolineato come le molteplici crisi della regione rischino di alterare profondamente la fisionomia delle realtà statuali emerse nel Levante e in Mesopotamia alla fine del primo conflitto mondiale. Come giudica tali posizioni in particolare in relazione alla situazione delle province a maggioranza arabo-sunnita di Siria e Iraq e in merito alla questione curda?
È soprattutto in Turchia che nella prima metà dello scorso anno si è giocato con l'idea di "undoing Sykes-Picot", quando prima della crisi interna Ankara appariva come la potenza vincente nella regione, protesa verso un neo-ottomanesimo cui non dispiaceva rifare i conti con l'assetto territoriale dato dagli anglo-francesi ai suoi vecchi possedimenti nel Levante e in Mesopotamia. Questa tendenza coincideva con quella dei curdi, altre vittime di quell'assetto, che nel multinazionalismo ottomano avevano un ruolo poi perduto con il nazionalismo repressivo e assimilatorio della Turchia kemalista e dei regimi arabi. Oggi la spinta revisionista viene soprattutto dai qaidisti e dal loro sogno di restaurazione del Califfato.
È difficile negare il carattere artificiale degli stati arabi nati dai mandati attribuiti a Gran Bretagna e Francia dopo la prima guerra mondiale. Ma un rifacimento della mappa mediorientale, come è avvenuto nei Balcani rispetto a un assetto ugualmente derivato dagli esiti della grande guerra, sarebbe verosimilmente assai più sanguinoso e lungo di quello tragico intervenuto nella ex-Jugoslavia e con conseguenze assai più gravi per gli equilibri politici ed economici del mondo. È quindi da non augurare. Ma va anche detto che una stabilità sostenibile e duratura dell'intera regione richiede che ai popoli, che come i curdi hanno più sofferto da quell'assetto, siano riconosciuti i loro diritti. Una auspicata nuova "grande intesa" dovrebbe tenere conto di questo aspetto.
Quali ritiene possano essere i principali protagonisti del sistema politico iracheno in vista delle prossime elezioni? Quali le possibilità che al-Maliki ottenga un terzo mandato?
I posizionamenti in vista delle elezioni sembrano ancora confusi. Iraqya è in dissoluzione come forza trasversale. Le forze sunnite facenti capo rispettivamente al presidente del Parlamento Usama Nujafi e al vice primo ministro Saleh Mutlak, sempre con un piede dentro e uno fuori dal governo, stanno convergendo. Occorrerà vedere cosa emergerà tra le tribù sunnite dell'Anbar qualora si riuscisse a eliminare di nuovo i qaidisti, cosa oggi più difficile. Se Maliki vi riuscisse in collaborazione con loro ne uscirebbe ovviamente rafforzato. In caso contrario occorrerà vedere cosa accadrà' tra le altre forze sciite e anche quale sarà l'atteggiamento iraniano. I curdi, anch'essi con problemi interni amplificati dalla crisi del PUK di Talabani, saranno ancora l'ago della bilancia ma prevedibilmente, con una rafforzata leadership di Barzani, saranno soprattutto concentrati sul consolidamento della loro autonomia e sulla crescita economica della loro regione. Ma con il nuovo governo a Baghdad, del quale continueranno prevedibilmente a far parte in posti chiave almeno sulla carta, dovranno finalmente raggiungere gli accordi necessari sui diversi contenziosi, a partire da quello della gestione delle risorse in idrocarburi, pena lo stesso arresto del loro impetuoso sviluppo. I turchi, che di questo sviluppo sono parte e sono interessati all'agibilità di quelle risorse, lo sanno bene e si stanno adoperando affinché questo avvenga. Ma i turchi non sono i soli nella regione e i loro interessi non coincidono, sotto questo aspetto, con quelli degli altri principali attori regionali.
Ecco perché la "grande intesa" é quanto mai necessaria anche se ancora molto difficile.