È ovviamente troppo presto per tracciare un bilancio. Il viaggio di Mike Pompeo in Medio Oriente e Africa non ha sortito gli effetti immediati che il segretario di Stato auspicava. Nessuno dei paesi arabi dove si è recato – Bahrein, Sudan e Oman – ha seguito l’esempio degli Emirati Arabi Uniti (EAU) e accettato di aprire un processo negoziale che porti al riconoscimento d’Israele. Anzi, il Bahrein ha esplicitamente riaffermato il principio secondo il quale qualsiasi progresso nei rapporti con lo stato ebraico rimane subordinato alla creazione di uno stato palestinese. Ha ribadito cioè la validità di quell’equazione che Benjamin Netanyahu e l’amministrazione Trump oggi rigettano e cercano di rovesciare, presentando invece una risoluzione su scala regionale delle tensioni tra Israele e i paesi arabi come propedeutica a quella del conflitto israelo-palestinese.
L’effetto domino, insomma, non è scattato. Ancora troppo fragile, e legato alle contingenze politico-elettorali (su tutte quelle statunitensi), l’accordo siglato tra Israele e EAU, i cui termini – a partire dalla rinuncia israeliana alle annessioni in Cisgiordania – appaiono per il momento tracciate nella sabbia. E prematura, ovviamente, un’immediata adesione di un mondo arabo attraversato a sua volta da tensioni e le cui leadership non possono sacrificare da un giorno all’altro un elemento fondamentale della loro legittimità quale continua a essere l’ostilità a Israele.
Come era prematura la celebrazione dell’accordo tra Israele e EAU così lo è però affermare il fallimento del viaggio di Pompeo. Il disegno strategico rimane chiaro: avviare un riallineamento complessivo del sistema di alleanze regionali lubrificato dagli aiuti e dalla tecnologia militare statunitense e con una chiara funzione anti-iraniana. Chiari sono però anche gli ostacoli che si frappongono, dalla contropartita pesante che alcuni degli attori coinvolti, a partire dall’Arabia Saudita, possono pagare di fronte alle loro opinioni pubbliche alla credibilità effettiva degli impegni assunti da Israele alla reale capacità degli Usa di svolgere un ruolo di mediatore di fronte alla possibilità di un cambio di amministrazione a Washington.
Ma non solo in questi termini va valutato il viaggio di Pompeo. Come sempre (e come troppo spesso si dimentica) l’elemento strategico e di politica estera va legato a quello interno e tutto politico. Emblematica, da questo punto di vista, è stata la decisione del segretario di Stato di intervenire alla convention virtuale del Partito Repubblicano con un messaggio registrato a Gerusalemme. Decisione altamente irrituale e sotto la soglia della correttezza istituzionale, quella di Pompeo, che viola la consolidata tradizione di separare i due momenti: la politica estera e le dinamiche politico-elettorali interne. Ma decisione che si spiega sia con la campagna in corso per le presidenziali sia con le chiare ambizioni politiche del segretario di Stato. A prescindere dai suoi risultati effettivi, il viaggio è servito all’amministrazione (e quindi al presidente Donald Trump) per riaffermare sia il suo sostegno incondizionato a Netanyahu e alla destra israeliana sia la volontà di riattivare un sistema tradizionale di alleanze in Medio Oriente, finalizzato – si afferma – al contenimento della minaccia iraniana. Una posizione, questa, che si spera possa aiutare Trump alle urne non, come talora si crede, presso un elettorato ebraico di cui da un lato si sopravvaluta il peso (gli ebrei americani sono appena il 2% degli elettori complessivi) e dall’altro si sottovaluta lo schieramento sempre più netto a sostegno dei democratici. Nel 2016 gli ebrei americani votarono 70 a 25 per Clinton; anche in Florida, dove in teoria il voto degli ebrei-statunitensi pesa di più, essendo il 3,6% della popolazione complessiva e, vista la loro età media più alta rispetto al resto del paese, dovrebbe andare maggiormente ai repubblicani, ma Clinton vinse con uno scarto di 40 punti: 68 a 28.
La partita elettorale vera si gioca invece con quell’elettorato evangelico che è stato fondamentale nella vittoria elettorale di Trump del 2016 e dalla cui piena mobilitazione dipendono le sue possibilità di rimanere alla Casa Bianca. Ed è qui che le dinamiche elettorali del 2020 s’intrecciano con le ambizioni politiche di Pompeo. Molto dipenderà ovviamente dall’esito del voto, che un’eventuale sconfitta di Trump aprirà uno scontro profondo tra i repubblicani laddove una sua vittoria rappresenterà invece una piena validazione del trumpismo. Pompeo sta evidentemente usando la politica estera, e il dossier Medio Oriente in particolare, per rafforzare il suo profilo di erede di Trump e di candidato di una destra evangelica che lo sostiene entusiasticamente. Candidato che non ha mai fatto mistero di abbracciare quelle letture di un certo evangelicalismo americano secondo le quali il progetto di Grande Israele realizza le profezie bibliche e giustifica quindi la relazione speciale tra Tel Aviv e Washington. E che nello spiegare l’appoggio statunitense a Israele ricorre addirittura a riferimenti millenaristici e a quella escatologia del “rapimento” e della fine dei tempi tanto cara alle frange più radicali del fondamentalismo evangelico statunitense.