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Focus

La testa dell’idra: il nuovo leader dell’ISIS

Francesco Marone
01 novembre 2019

Nella notte tra sabato 26 e domenica 27 ottobre Abu Bakr al-Baghdadi, il leader del cosiddetto Stato Islamico (IS), è morto nel corso di un’operazione eseguita dalle forze speciali statunitensi nel nord-ovest della Siria. A poche ore di distanza è stato ucciso anche il portavoce del gruppo armato, Abu Hassan al-Muhajir.

L’organizzazione ha atteso sino al 31 ottobre per annunciare, con una laconica registrazione audio, la morte di questi due figure di spicco e la loro sostituzione. Il nuovo “califfo” è Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi, ma al di là di questo nome di battaglia e di pochi cenni alle sue presunte esperienze in combattimento e competenze religiose menzionati nell’audio non sappiamo nulla del nuovo leader dell’IS.

Chi era Abu Bakr al-Baghdadi e come è morto? La decapitazione di un’organizzazione terroristica rappresenta una tattica efficace? Quali effetti potrà avere la successione al vertice per l’IS?

 

Come è morto al-Baghdadi?

Domenica 27 ottobre, dopo alcune anticipazioni sui media, il Presidente USA Donald Trump ha tenuto una conferenza stampa alla Casa Bianca per annunciare ufficialmente la morte di Abu Bakr al-Baghdadi, il leader del cosiddetto Stato Islamico (IS), nel corso di un’operazione eseguita alcune ore prima dalle forze speciali statunitensi in Siria. Tre giorni più tardi il Dipartimento di Difesa USA ha diffuso ulteriori dettagli della missione, compresi alcuni brevi video del raid.

Dopo un’attività di sorveglianza di «un paio di settimane», i militari americani hanno attaccato un edificio nei pressi del villaggio di Barisha, nel governatorato di Idlib. Secondo la ricostruzione presentata dal Presidente Trump, durante il raid Baghdadi si sarebbe riparato in un tunnel sotterraneo senza via di uscita portando con sé tre figli (più tardi il Pentagono ha precisato che erano due) e lì si sarebbe fatto esplodere attivando un giubbotto esplosivo.

Le forze americane, che non hanno subito perdite nell’operazione, hanno poi distrutto il compound per evitare che potesse diventare una sorta di santuario per i sostenitori del sedicente “califfato”, non prima di aver raccolto «materiale e informazioni altamente sensibili». Il corpo di Baghdadi è stato sepolto in mare, come già avvenuto per Osama bin Laden nel 2011.

A rendere ancora più saliente la giornata del 27 ottobre è stato il fatto che un’altra delle figure principali dell’IS, il portavoce ufficiale, noto con il nome di battaglia di Abu Hassan al-Muhajir, è stato ucciso alcune ore dopo in Siria con un’altra esecuzione mirata. Con la scomparsa anche di Muhajir nella medesima giornata, l’organizzazione ha perso di fatto l’ultimo dei suoi volti pubblici.

 

Il luogo del raid: perché l’area di Idlib è importante?

Il fatto che l’operazione contro al-Baghdadi abbia avuto luogo nel governatorato di Idlib merita attenzione. La maggior parte degli esperti ipotizzava infatti che il leader dell’organizzazione jihadista si nascondesse ancora in Iraq o quantomeno al confine tra Siria e Iraq. Il villaggio di Barisha si trova, invece, nell’angolo nord-occidentale della Siria, a pochi chilometri di distanza dal confine turco.

Oltretutto, il governatorato di Idlib è controllato da una coalizione di milizie ribelli, tra le quali spicca Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un gruppo armato di origine qaidista, acerrimo rivale dell’IS. Può quindi apparire sorprendente che il leader del cosiddetto Stato Islamico, su cui pendeva anche una taglia di 25 milioni di dollari, abbia deciso di nascondersi proprio tra gli avversari di ispirazione qaidista. D’altra parte, si può anche argomentare che, dopo il crollo del “califfato” nel marzo del 2019, nell’intera regione fossero ormai rimasti ben pochi rifugi sicuri; oltretutto, come ha rimarcato il Pentagono, in altre aree della Siria la pressione per l’individuazione di Baghdadi sarebbe stata ancora più intensa.

Alcuni esperti hanno congetturato che la presenza di Baghdadi nella zona potesse essere persino dovuta all’intento di promuovere di persona possibili iniziative di riconciliazione con i rivali di origine qaidista.

Di recente un discusso resoconto del New York Times ha tratteggiato in maniera dettagliata uno scenario ancora più sorprendente: la presenza di Baghdadi, già da luglio 2019, sarebbe connessa a un rapporto di collaborazione segreto con esponenti di rilievo di Hurras ad-Din, gruppo armato attivo nell’area, affiliato di fatto ad al-Qaida: questi dirigenti di Hurras ad-Din avrebbero acconsentito a offrire alcuni servizi a beneficio dell’IS, come il trasferimento di combattenti fuori dalla regione, in cambio di denaro.  

Il governatorato di Idlib è peraltro un’area della Siria in cui le forze di Washington non avevano operato negli ultimi anni. Da una più ampia ottica geopolitica, vale la pena di notare che nel suo discorso del 27 ottobre Trump ha esplicitamente negato che l’operazione fosse connessa alla recente offensiva militare turca nel nord-est e ai suoi effetti nella regione. Il Presidente USA ha ringraziato per la collaborazione Russia, Turchia, Iraq, Siria e anche i curdi siriani, pur sottolineando che il raid di Barisha è stato pianificato e portato a termine soltanto dalle forze statunitensi. Al contrario, agli alleati europei Trump ha dedicato solo poche parole nelle risposte ai giornalisti, per criticarli nuovamente per la loro inerzia rispetto al problema del rimpatrio dei foreign fighters.

Dopo il raid sono state avanzate diversi presunti dettagli, più o meno suggestivi, sulle modalità attraverso le quali le forze statunitensi sono riuscite a individuare il leader fuggiasco. Secondo la stampa, il capo dell’IS sarebbe stato tradito da un componente del suo ristretto entourage.

 

Chi era al-Baghdadi?

L’iracheno Abu Bakr al-Baghdadi (vero nome: Ibrahim Awad Ibrahim al-Badri), 48 anni, era il terrorista più ricercato del mondo. Nonostante la gigantesca caccia all’uomo, in tutti questi anni era riuscito a far perdere le proprie tracce, pur mantenendo il controllo dell’organizzazione jihadista - sin dal 2010, quanto si chiamava ancora Stato Islamico dell’Iraq (ISI).

In generale, come si è già osservato, le organizzazioni terroristiche come l’IS operano in condizioni di clandestinità per preservare la loro sicurezza, ma devono essere contemporaneamente visibili per mantenere le relazioni con l’ambiente sociale e raggiungere i propri obiettivi politici. Al vertice del gruppo clandestino, questo dilemma tra segretezza e visibilità si manifesta poi con la massima intensità. Di fronte a questo trade-off, non pochi leader terroristici, come Osama bin Laden (ucciso nel 2011), preferiscono correre dei rischi.

Al contrario, Baghdadi ha optato per una strategia diversa, preferendo la segretezza (e la sicurezza) alla pubblicità. Con poche eccezioni, non ha giocato in prima persona un ruolo chiave nella vasta, continua e sofisticata campagna di comunicazione e propaganda del gruppo.

Inoltre, anche se Baghdadi ha coltivato un’autorità carismatica, l’IS sotto la sua guida è diventato una vasta organizzazione di impostazione burocratica, senza avere l’esigenza di costruire un vero e proprio culto della personalità intorno alla sua leadership.

Ciononostante, negli ultimi mesi, l’auto-proclamato “califfo” aveva deciso di apparire con più frequenza nella propaganda dell’organizzazione, anche a costo di assumersi presumibilmente maggiori rischi: ad aprile 2019 il gruppo armato aveva diffuso un video in cui compariva come protagonista – quasi 5 anni dopo quello pubblicato per celebrare la proclamazione del “califfato” a Mosul –, seguito da una registrazione audio a settembre. Rimane da verificare se questa maggior esposizione mediatica abbia effettivamente messo a repentaglio la sua incolumità.

 

Quali effetti avrà la morte di al-Baghdadi?

La morte del “califfo” costituisce indubbiamente un colpo assai duro per l’IS. Nondimeno, con ogni probabilità non ne segna il declino né tantomeno la fine. D’altronde, anche le altre due presidenze che si sono succedute negli Stati Uniti dopo l’11 settembre hanno avuto modo di celebrare un’esecuzione mirata di prima grandezza (Abu Musab Zarqawi ai tempi di Bush nel 2006 e, soprattutto, Osama bin Laden nel 2011 con Obama), senza che questa portasse alla disgregazione della relativa organizzazione terroristica.

In generale, l’efficacia della decapitazione di leader delle organizzazioni terroristiche è ancora oggetto di dibattito tra studiosi ed esperti. Da un punto di vista squisitamente operativo (al di là delle questioni giuridiche e morali, pur rilevanti), questa tattica implica sia vantaggi sia svantaggi.

Tra i vantaggi, si può notare che la semplice minaccia, purché credibile, di eliminare la leadership terroristica può esercitare una capacità di deterrenza, volta a dissuadere l’organizzazione e i singoli leader dal proseguire le proprie attività violente, e, in ogni caso, costringe i leader a investire tempo e risorse preziosi per nascondersi, invece che per seguire le attività del gruppo, compresa la pianificazione di attacchi.

Naturalmente, se la decapitazione va a segno (nella forma di uccisione o di cattura del capo), l’organizzazione rischia di disgregarsi o quantomeno di indebolirsi. In relazione alla traiettoria del cosiddetto Stato Islamico, si può affermare che il gruppo armato non abbia subito una ferita mortale: una storia relativamente lunga e una struttura consolidata e di impostazione burocratica, non fondata principalmente sul carisma del suo leader lo rendono infatti piuttosto resistente. Nondimeno, l’evento ha conseguenze negative sul piano operativo e, forse ancor più, sul piano simbolico, aggravando ulteriormente le difficoltà che il gruppo armato, non privo di divisioni interne, era già costretto ad affrontare, dopo il recente collasso del “califfato”. Il 2019 si conferma un anno molto duro per l’organizzazione.

Sotto il profilo dei vantaggi, non sono da sottovalutare le conseguenze all’interno della parte che ha portato a termine la decapitazione. L’eliminazione di Baghdadi rappresenta chiaramente un successo notevole per l’Amministrazione americana, tanto più in un periodo delicato della presidenza Trump, sia in politica interna sia in politica estera: rispetto al secondo fronte, basti pensare all’improvvisa decisione, criticata anche da esponenti dello stesso Partito Repubblicano, di ritirare le forze armate statunitensi dal nord della Siria e di accettare l’offensiva militare turca.   

Dall’altra parte, l’esecuzione mirata può condurre anche a svantaggi per la parte che l’ha eseguita (e per le parti che l’hanno sostenuta). Nel breve e medio periodo, vi può essere il rischio di ritorsioni violente: non si può affatto escludere che la stessa eliminazione di Baghdadi scateni tentativi di rappresaglia, anche in Occidente.

Inoltre, la morte del leader può essere raffigurata dai suoi sostenitori come una eroica e lodevole azione di “martirio” e utilizzata in chiave propagandistica per promuovere ulteriormente la causa: il fatto che Baghdadi, a differenza di Bin Laden nel 2011, abbia sacrificato la propria vita e quella di due figli può essere facilmente inserito in questo tipo di narrativa. Non a caso nel suo discorso Trump ha insistito, con un linguaggio abbastanza colorito per l’occasione, nel dipingere il leader dell’IS come un «codardo»; i militari americani hanno inoltre subito distrutto l’edificio in cui l’emiro è deceduto.

Da parte sua, l’IS ha atteso quattro giorni prima di diffondere dichiarazioni ufficiali in merito alla presunta morte del suo “califfo”. D’altronde, in passato, anche quando operava con altri nomi, il gruppo armato non si era affrettato a commentare ufficialmente la perdita dei propri leader – pur con eccezioni, come quella dell’influente portavoce Abu Muhammad al-Adnani, la cui esecuzione mirata il 30 agosto 2016 era stata riconosciuta dal gruppo nel corso della stessa giornata.

 

Come è stata gestita la successione dallo Stato Islamico?

Chiaramente gli effetti di una decapitazione dipendono in maniera non secondaria dalle modalità della successione al vertice e dalle caratteristiche del successore.

Per l’IS dopo la scomparsa di Baghdadi la questione era aperta. Almeno da quando ha proclamato il “califfato” nel 2014, l’organizzazione non ha pubblicamente riconosciuto un “numero 2” nella propria gerarchia. Pochi mesi fa erano circolate voci, talora palesemente false, in merito della nomina di un successore dell’emiro, in particolare nella persona dell’iracheno Abdullah Qardash. Anche ammettendo che questa designazione avesse avuto già luogo, rimane il fatto che il gruppo armato non l’aveva mai annunciata in maniera ufficiale. In ogni caso, con Baghdadi ancora in vita, sarebbe stata una scelta potenzialmente controproducente perché avrebbe danneggiato lo status e la credibilità dello stesso Baghdadi, avrebbe aumentato i rischi per la sicurezza del successore designato e avrebbe probabilmente avuto un impatto non positivo sul morale dei militanti e dei sostenitori dell’organizzazione. D’altra parte, come è stato notato, negli ultimi anni le informazioni disponibili sulla leadership del gruppo armato sono state minime.

 

Un nuovo “califfo”: quali scenari per il gruppo armato?

Giovedì 31 ottobre, in una registrazione audio di 8 minuti, piuttosto scarna nei contenuti, il nuovo portavoce ufficiale dell’organizzazione, chiamato Abu Hamza al-Qurashi, ha annunciato ufficialmente la morte del “califfo” e del precedente portavoce e la nomina, decisa dal consiglio della shura rispettando la (presunta) volontà di Baghdadi, del nuovo “califfo”, chiamato Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi.

Entrambi non sono nomi di leader già noti agli esperti, ma semplici nomi di battaglia a cui attualmente non è possibile attribuire un volto e una storia, forse persino coniati appositamente in occasione della loro stessa nomina. La registrazione audio non aggiunge particolari salienti, se non il cenno al fatto che il nuovo “califfo” Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi avrebbe sia esperienze in combattimento sia, in continuità con Baghdadi, competenze religiose.

In prima battuta colpisce che un annuncio così rilevante nella storia dell’organizzazione, che può costituire peraltro un’ottima opportunità per cercare di rinsaldare le motivazioni di militanti e simpatizzanti, appaia così debole e incerto. L’impiego di una scarna registrazione audio, al posto di un video, priva della voce del nuovo leader, così come la vaghezza delle figure presentate, a cominciare naturalmente dal nuovo “califfo”, limitano l’incisività e l’efficacia del messaggio, specie in questa fase difficile per il gruppo. Oltretutto, le parole, relativamente generiche, spese per incitare i seguaci e intimidire i nemici, compresi gli europei, non costituiscono novità di particolare rilievo.

Ciononostante, come si è detto, in questa fase limiti e reticenze sono comprensibili, tanto più per un’ampia organizzazione di impostazione burocratica che non si fonda principalmente sul carisma del leader. Come si è detto, vi sono casi in cui la segretezza può essere preferita alla visibilità. D’altronde, è utile ricordare che lo stesso Baghdadi rimase a lungo nell’oscurità dopo l’ascesa al vertice del gruppo armato (allora denominato ISI) nel 2010 e fece la sua prima apparizione pubblica soltanto quattro anni dopo, con il celebre video nella Grande moschea di Mosul del 4 luglio 2014, pochi giorni dopo la proclamazione ufficiale del “califfato”.  

Il nome di battaglia del nuovo “califfo” Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi offre comunque qualche prima indicazione di interesse. Il riferimento più evidente è al lignaggio hascemita della tribù araba dei Quraish, cui apparteneva il Profeta Muhammad. Secondo una tradizione diffusa nell’Islam, i califfi (ovvero i successori del Profeta) dovrebbero appartenere a tale tribù. Lo stesso Baghdadi vantava di discendere dal Profeta. Si tratta quindi di un’importante (presunta) credenziale religiosa che il nuovo leader ha voluto evidenziare inserendola, proprio come il nuovo portavoce Abu Hamza al-Qurashi, direttamente nel proprio nome di battaglia. Sotto questo profilo, il progetto del “califfato” può quindi proseguire. Nel soprannome mancano invece riferimenti geografici, a differenza di Abu Bakr Baghdadi (che segnala la provenienza da Baghdad, appunto, oltre a evocare il primo dei califfi, Abu Bakr, dal 632 al 634).  

In conclusione, la morte di Baghdadi e la successione al vertice dell’organizzazione di un nuovo “califfo”, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurashi, sono indubbiamente notizie assai rilevanti, ma i loro effetti concreti sono ancora difficili da prevedere e potrebbero non essere necessariamente disastrosi per le sorti del cosiddetto Stato Islamico.

 

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terrorismo Abu Bakr Al-Baghdadi
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AUTORI

Francesco Marone
ISPI Research Fellow

Questo Focus è stato pubblicato anche grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. 

Le opinioni espresse dagli autori sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dell'ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.


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