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Commentary

La Thailandia dopo le proteste: verso la democratizzazione?

Francesco Valacchi
22 Dicembre 2020

L’orizzonte economico dell’area ASEAN appare oggi positivo, con realtà in fervente movimento anche al di là dell’accordo Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Dal punto di vista prettamente politico, invece, l’area sembra da tempo procedere verso una compressione dei diritti umani e delle libertà democratiche. Quattro dei dieci paesi appartenenti all’organizzazione regionale sono monarchie: Brunei, Cambogia, Malesia e Thailandia, e molte situazioni attuali testimoniano il regresso delle democrazie liberali: la presidenza di Rodrigo Duterte nelle Filippine, per esempio, così come le occasioni (sinora) fallite di una democratizzazione birmana nonché la repressione della libertà di stampa e di informazione in Cambogia fanno il quadro di questa deriva.

La Thailandia ha affrontato a partire dal 2000 una serie di instabilità politiche sfociate in movimenti di protesta. Gli episodi più famosi (oltre agli odierni) sono quelli iniziati intorno alla fine dell’ottobre del 2013 contro l’allora Prima ministra, Yingluck Shinawatra. In quella circostanza, che portò a creare la finestra di opportunità per la realizzazione di un colpo di stato militare nel 2014, i fautori dei disordini si richiamavano essenzialmente alle realtà di classi medie liberali di sinistra e democratiche in conflitto col governo di allora, accusato di corruzione e, più in generale, contrarie all’influenza politica dei membri della famiglia di Thaksin Shinawatra. L’opposizione ai governi liberali legati a questa figura si concretizzò nel 2014 con una rilevante crisi politica che portò alla delegittimazione della Prima ministra Yingluck Shinawatra e alla sua successiva deposizione, grazie a una sentenza della Corte Costituzionale. Yingluck Shinawatra era infatti accusata di corruzione e malversazione. I sostenitori del governo si opposero agli eventi e iniziarono una serie manifestazioni di piazza in appoggio, questa volta, al governo. Il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza del paese (o almeno il modo in cui venne fatto percepire) diede il pretesto all’esercito, guidato da Prayut Chan-o-cha, per scatenare il colpo di stato contro le istituzioni democratiche. Da allora il paese è essenzialmente stato governato con un regime autocratico che ha visto il punto di vista dell’élite militare allinearsi con quello della monarchia. Le libertà sono ulteriormente state svilite con l’avvento al potere dell’attuale sovrano: il re Vajiralongkorn. Allo stato attuale la Thailandia si trova al 68° posto nella classifica stilata da The Economist all’inizio del 2020, al confine fra democrazie imperfette e regimi ibridi.

Le proteste di quest’anno, soffocate con la forza dalla giunta militare e non ancora terminate, sono frutto di un’opposizione più accanita contro l’attuale forma di governo. I promotori della protesta sono stati i lavoratori rurali, urbani e i giovani: uno strato fortemente penalizzato dal governo militare attuale, ben accetto dalla monarchia. Gli attori chiedono una riforma radicale della monarchia (da formalizzare con una nuova carta costituzionale), un effettivo ripristino delle libertà personali e la nomina di un nuovo Parlamento tramite elezioni. Possono essere viste come una possibilità di inversione di tendenza per le compromesse condizioni della democrazia nell’area e come un significativo segnale contro l’ingombrante ombra di Pechino che sembra allungarsi nell’area sfruttando l’alleanza coi regimi autoritari per una penetrazione più invasiva. L’amicizia della Cina di Xi Jinping con il regime di Bangkok è stata ribadita quest’estate dal Segretario del Partito Comunista Cinese che ha definito la Thailandia un vicino molto stretto con cui la Cina condivide una linea di parentela. I principali obiettivi cinesi in Thailandia sono il mantenimento di un’alleanza strategica dai lineamenti militari, la presenza di iniziative legate alla Belt and Road initiative sul territorio di Bangkok e, senza dubbio, il consolidamento della propria presenza nella logica del progetto Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) (come sottolineato dalla retorica scelta dal PCC). La strategia cinese sembra quindi confermare la volontà di una alleanza molto stretta specialmente al fine di sostituirsi agli Stati Uniti, la cui influenza nell’area è in calo e il governo autocratico alla guida del paese è certamente un alleato preferibile ad alternative democratiche. La persistenza delle proteste però potrebbe portare ad un’estensione della crisi che la monarchia potrà valutare di risolvere con la forza o con un cambio di tendenza che riporti ad un processo di democratizzazione (del quale farsi garante). La seconda opzione è la più complessa e la casa reale dovrebbe certamente compiere un grosso cambiamento di rotta per attuarla ma potrebbe valer la pena effettuare uno sforzo di pressione, da parte anche della diplomazia europea, dal momento che il sovrano sembra essere legato all’Europa, dove ha trascorso finora molto tempo.

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thailandia Asia
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AUTORI

Francesco Valacchi
Università di Pisa

Image credits: Giulia Sciorati 

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