“Ambiguo” è l’aggettivo maggiormente utilizzato nell’ultimo anno per definire l’atteggiamento della Turchia nei confronti dello Stato Islamico (IS) dopo la proclamazione del Califfato tra Siria e Iraq in prossimità del suo confine meridionale. La riluttanza di Ankara a impegnarsi in prima linea nella lotta a IS condotta dalla coalizione internazionale a guida statunitense – anche dopo la liberazione dei 49 ostaggi turchi nelle mani delle forze jihadiste – ha infatti suscitato nei paesi occidentali numerose critiche e perplessità sul ruolo e gli interessi regionali dell’alleato turco e sui suoi rapporti con IS. Con i suoi 900 chilometri di confine inevitabilmente poroso con la Siria, in questi anni la Turchia ha rappresentato la principale via di transito di foreign fighters diretti a ingrossare le fila dei combattenti in Siria e Iraq e allo stesso tempo è servita da base logistica e di rifornimento e reclutamento per i diversi gruppi impegnati sul fronte siriano, IS incluso.
Diversamente da Washington, la priorità turca in Siria è innanzitutto la caduta del regime di Bashar al-Assad e su questo ha modellato scelte e strategia. Ankara ha condizionato, finora con scarsi risultati, la propria partecipazione al fronte anti-IS a un intervento internazionale contro Damasco e alla costituzione di una no-fly zone nel nord della Siria. Altro obiettivo è di evitare la formazione di un’autonomia de jure delle regioni curde siriane che potrebbe rappresentare il primo passo verso uno stato indipendente. La costituzione di una fascia di stati curdi indipendenti tra Siria e Iraq proprio a ridosso del suo territorio è uno scenario che, dall’invasione anglo-americana dell’Iraq nel 2003, la Turchia ha cercato di scongiurare. Tuttavia, tale scenario potrebbe farsi più concreto alla luce dei risultati che le forze curde, grazie anche al sostegno statunitense, hanno ottenuto nel fronteggiare e riguadagnare terreno nei confronti di IS, da Kobane a Tal Abyad.
Negli ultimi mesi proprio il fronte siriano è diventato terreno di una rinnovata convergenza con l’Arabia Saudita, dove il cambio al vertice della monarchia saudita dopo la morte di re Abdallah sembrerebbe avere inaugurato una più accentuata linea interventista nella regione – dalla Siria allo Yemen – seppure con i dovuti distinguo. Turchia e Arabia Saudita hanno deciso di rafforzare il sostegno alla galassia dei gruppi jihadisti, compreso Jabhat al-Nusra affiliato di al-Qaida, in chiave anti-Assad e, soprattutto da una prospettiva saudita, anti-Teheran, che rimane il principale alleato di Damasco nella regione. Se la strategia turco-saudita, sostenuta anche dal Qatar, sembra avere prodotto innegabili risultati sul campo, non ha mancato però di alimentare le critiche di Washington, dove è forte il timore per le conseguenze di un riarmo indiscriminato dei gruppi estremisti.
A livello geopolitico il riavvicinamento all’Arabia Saudita – nonostante permangano sostanziali divergenze sull’Egitto di al-Sisi e sul sostegno turco ai Fratelli musulmani – rappresenta un primo passo verso l’uscita dall’isolamento regionale in cui negli ultimi anni la Turchia si è trovata confinata a causa del suo coinvolgimento nel conflitto siriano, del progressivo deterioramento del contesto mediorientale e di scelte di politica estera che non si sono rivelate vincenti. Tutto ciò ha messo in crisi non solo la politica di “zero problemi con i vicini”, ma anche le ambizioni della Turchia di affermarsi come potenza e polo d’attrazione regionale. Sono ormai lontani i tempi in cui il paese, con il suo soft power, si proponeva come mediatore nelle crisi regionali e veniva indicato come “modello” ed esempio di riferimento per i paesi arabi in transizione dopo la caduta dei vecchi regimi sulla scia delle cosiddette “primavere”. Ankara oggi non ha ambasciatori in Egitto, Israele, Libia, Siria e Yemen, e sui rapporti con l’Iran pesa l’ombra del conflitto siriano in cui i due paesi si trovano su posizioni contrapposte. Tuttavia, nonostante le divisioni sul fronte siriano e l’allineamento all’approccio regionale saudita anche nella crisi yemenita, la Turchia non ha interesse a una rottura nelle relazioni con il vicino iraniano. Non solo perché rappresenta il suo primo partner commerciale in Medio Oriente (l’ottavo a livello mondiale) e la seconda fonte di approvvigionamento energetico dopo la Russia, ma anche per le potenzialità di crescita e le significative opportunità economiche che il paese presenterebbe nell’ipotesi in cui l’accordo sul nucleare, e la conseguente fine del regime di sanzioni internazionali, dovesse concretizzarsi.
Ma la via d’uscita dall’isolamento regionale sembrerebbe oggi passare anche da Israele. I recenti colloqui tra vertici israeliani e turchi lascerebbero intravedere l’apertura di uno spiraglio per la ripresa di relazioni diplomatiche dopo anni di stallo in seguito all’incidente della Mavi Marmara. Nell’attuale contesto mediorientale, una distensione con l’ex alleato israeliano, con cui i rapporti economici, nonostante tutto, hanno continuato a svilupparsi, apparirebbe come una mossa obbligata per Ankara.
Dopo le elezioni politiche del 7 giugno, in cui il Partito giustizia e sviluppo (Akp) ha perso la maggioranza assoluta dopo tredici anni di governo, nuovi scenari potrebbero profilarsi per la Turchia in Medio Oriente. Non è infatti da escludere un cambio di direzione nella politica mediorientale di Ankara, fortemente criticata dalle forze politiche con cui l’Akp sta negoziando per formare una coalizione di governo. Se non è ancora chiaro quale esecutivo guiderà il paese, il primo significativo cambiamento in politica estera potrebbe interessare proprio la strategia in Siria.