Recep Tayyip Erdogan ha varcato il Rubicone; gli Stati Uniti hanno puntualmente risposto. Il 14 luglio Ankara ha ricevuto il primo carico di batterie missilistiche russe di difesa anti-aerea. Il Presidente turco ha annunciato che saranno operative dall’aprile del prossimo anno. Washington aveva avvertito con chiarezza cristallina che la partecipazione turca al programma degli F-35 americani, i cacciabombardieri stealth dell’ultima generazione, è incompatibile con l’acquisto degli S-400. Il 18 luglio l’esclusione è stata formalizzata: Ankara è fuori. La NATO è finora, faticosamente, riuscita a tenersi fuori dalla controversia relegandola al piano bilaterale turco-americano. Più difficile ignorare la patata bollente quando lo spiegamento delle batterie, con l’assistenza e la presenza di tecnici russi, sarà operativo. Che è solo questione di tempo.
L’interrogativo è duplice: sulle conseguenze quanto ad appartenenza all’Alleanza; su quelle, più ampie, di collocazione politica internazionale della Turchia.
Il conflitto S-400/F-35 è relativamente semplice. Il Pentagono sostiene che l’avanzato sistema radar di cui sono dotati gli S-400 può penetrare le schermature stealth degli F-35, dando in mano a Mosca le chiavi della vulnerabilità dei velivoli che rappresentano il gioiello tecnologico della Lockheed Martin e assicurano a Stati Uniti ed alleati (anche l’Italia se ne sta dotando) la superiorità nei cieli. Per la NATO si pone il problema di gestire la presenza sul suolo turco di un sistema d’armamenti russo, sia pure difensivo, accanto a basi che ospitano o possono ospitare forze, missili e assetti militari alleati – e armi nucleari. In passato l’Alleanza ha dato prova di agilità in congiunture che vedevano alleati su orbite politicamente eccentriche (Portogallo della dittatura Salazar; brevemente, Italia con partecipazione del PCI alla maggioranza di governo). Non si è però mai trovata con un cavallo di Troia militare all’interno del proprio perimetro difensivo, per di più in un paese front-line – la Turchia è la frontiera mediorientale, a ridosso del teatro siriano dove operano forze americane, russe e iraniane, più varie fazioni locali, governative, ribelli, curde, terroristiche.
A differenza dell’Unione Europea, la NATO non prevede procedure d’infrazione, sospensione, espulsione di paesi membri; non ci sono precedenti d’uscita volontaria, se non quello parziale, dalla sola struttura militare, della Francia negli anni ’60 (il pieno rientro avvenne soltanto al vertice di Strasburgo del 2009). L’assenza di una camicia di forza giuridica le dà un’infinta flessibilità di soluzioni politiche, a due sole condizioni: che siano militarmente sostenibili, cioè non ne minino le capacità difensive; che siano accettate da tutti per consenso, linfa vitale dell’Alleanza. Questo significa che il rapporto NATO-Turchia può sopravvivere all’acquisto degli S-400. L’Alleanza può trovare una via d’uscita – se lo vuole. Nel caso specifico, sono solo due paesi che possono portare il rapporto al punto di rottura: USA e Turchia. Tutti gli altri, anche eventuali recalcitranti (Grecia?), non farebbero venire meno il consenso. Senza la Turchia, osservava un ex-Capo di Stato Maggiore alleato, l’Europa è indifendibile. Forse esagerava, ma nessun leader europeo con la testa sulle spalle si prenderebbe il rischio di “perdere” Ankara.
Il nodo da sciogliere è fra Washington e Ankara. Gli americani hanno “escluso” la Turchia dagli F-35. L’addestramento dei piloti era stato interrotto. Un velivolo, già di proprietà turca ma in USA, non sarà consegnato. L’esclusione dal programma industriale comporta la perdita d’importanti ritorni offset e ricadute tecnologiche sui quali faceva affidamento l’industria difesa turca (che ha inutilmente cercato di distogliere Erdogan dalla fornitura russa). Lockheed Martin vede però venir meno la vendita di un centinaio di velivoli destinati Ankara (all’incirca quanti ne dovrebbe acquistare l’Italia – il rapporto fornitura-ritorni industriali è simile al nostro). Se Ankara piange, Washington non ride. La prospettiva di perdere un buon affare aveva pesato sullo spirito mercantilistico del Presidente americano, lasciando Casa Bianca stranamente silente dopo l’arrivo della prima fornitura russa.
Il Congresso è invece unito, in raro spirito bipartisan, nel voler introdurre sanzioni contro Ankara che potrebbero non fermarsi all’esclusione dagli F-35. Il Presidente ha accettato l’inevitabilità (“riluttantemente” secondo Defence News che riflette l’ottica del Pentagono). È altrettanto inevitabile che Erdogan risponda. Tutto sta a vedere fin dove si spingerà lo scontro bilaterale, e se si fermerà. Sullo sfondo il Presidente turco ha aperto un altro fronte, questa volta con l’UE, ampliando le operazioni di perforazione nei giacimenti di gas al largo di Cipro, andando incontro a una mandata di sanzioni europee.
Se anche le sanzioni americane saranno simboliche, l’esclusione dal programma F-35 ha effetti industriali negativi su un’economia turca già in difficoltà. E la mancata fornitura di cento velivoli dell’ultima generazione apre una lacuna nei programmi militari di Ankara. A differenza dell’Italia o della Germania, per la Turchia la difesa non è la Cenerentola delle priorità politiche – o del bilancio. Nella NATO, le forze armate turche sono classificate quantitativamente al terzo posto. Basta guardare la carta geografica e il vicinato: Ankara non può permettersi di abbassare la guardia. Se non può più comprare gli F-35, come li rimpiazza?
La debolezza militare è un lusso che la Turchia non può permettersi. Incastrata nella confluenza fra Caucaso e Mesopotamia, con una guerra civile alla frontiera, in una regione dove si aggirano molti vasi di ferro (Russia, Iran, Arabia Saudita), non può diventare un vaso di coccio – né ne ha intenzione, chiunque sia al governo. Per rimanere potenza militare regionale e garantire la propria sicurezza, la Turchia ha bisogno di: a) mantenere lo stretto rapporto militare e industriale con gli Stati Uniti; b) restare nella NATO sotto l’ombrello dell’Articolo 5 del Trattato di Washington. A meno di...
….a meno di non cambiare completamente corso geostrategico. C’è chi lo prefigura: “La Turchia si gira verso la Russia e sfida la NATO” era il titolo a cinque colonne che campeggiava su Le Monde il 14 luglio (più sommessamente, secondo l’editoriale, “Erdogan è di fronte a una scelta geostrategica”). Facile a dirsi a tavolino, molto meno a farsi. In caso di rottura consumata con USA e NATO, Ankara avrebbe due alternative: fare da sola o buttarsi nelle braccia della Russia. Si colgono spunti dell’una e dell’altra nella politica estera turca di questi ultimi anni. Finora insostenibili.
La versione neo-ottomana della prima ha mostrato la corda perché ha condotto la Turchia a schierarsi a favore della Fratellanza Musulmana nel contesto delle primavere arabe provocando la reazione uguale e contraria del fronte sunnita del Golfo (Arabia Saudita, Emirati, Bahrein), più Egitto di Morsi – più Israele. La spaccatura, riflettuta pienamente nella crisi in Libia, lascia Ankara con un’unica sponda regionale, il Qatar: praticamente semi-isolata.
Rimane la Russia. Mosca sta giocando abilmente sulle molteplici crepe che si sono aperte fra Turchia e Occidente – prova ne sia la fornitura degli S-400, al di là del buon affare commerciale. Ma anche fra Russia e Turchia vi sono serie e radicate divergenze, ad esempio nel conflitto nella zona nord-orientale della Siria (intorno a Idlib), ancora sotto controllo di ribelli di affiliazione islamica tacitamente sostenuti Ankara. Soprattutto, c’è – da sempre – un contrasto interessi geopolitici (ed energetici) turchi e russi in tutta l’area che va dai Balcani al Mar Nero, dal Medio Oriente al Mediterraneo occidentale. Per gestirlo Ankara ha sempre avuto bisogno di coprirsi le spalle con la NATO, come avvenuto nel 2015 dopo aver abbattuto un aereo russo al confine con la Siria. Buttandosi ciecamente nell’abbraccio dell’Orso (che non chiede di meglio) Erdogan rischia lo strangolamento. Lo sa e ci penserà due volte prima di fare la conversione geostrategica.
Gli S-400 stanno innescando un gioco pericoloso di botta e risposta fra Washington ed Ankara, tanto più pericolo con due leader poco riflessivi al potere. La NATO può probabilmente “compartimentalizzare” la questione, a meno di pressioni americane sull’Alleanza per “punire” la Turchia e/o di reazioni dirompenti turche all’interno (la NATO opera per consenso e un singolo paese ne può bloccare anche l’ordinaria amministrazione) – le une e le altre per la gioia del Cremlino. Gli S-400 acuiscono indubbiamente la tensione fra USA e Turchia, ma non la spingono necessariamente al punto di rottura. Un’escalation fuori controllo andrebbe contro gli interessi di entrambi. Nella partita, chi rischia di più è la Turchia. Non c’è dubbio che per Washington Ankara sia un alleato chiave; senza la Turchia nella NATO si aprirebbe un’enorme falla su tutto il versante sud-orientale, dal Mar Nero al Mediterraneo. Nel bilancio sicurezza, tuttavia, la Turchia ha più bisogno della NATO di quanto la NATO abbia bisogno della Turchia.
Gli S-400 accentuano l’eccentricità di Ankara nell’Alleanza ma, da soli, non bastano rescindere il cordone ombelicale atlantico. Siamo a un giro di valzer sul ciglio del crepaccio, non alla “svolta strategica” in cui Ankara gira le spalle all’Occidente e abbraccia Mosca. Certo, in un mondo del Ventunesimo secolo in cui l’utilità della NATO è messa in dubbio dalla Casa Bianca, Londra abbandona il continente al condominio franco-tedesco, Mosca inverte il gioco kissingeriano delle tre carte giocando quella cinese contro gli USA, tutto è possibile. Se si riscrivono tutte le regole geopolitiche c’è anche posto per un’alleanza russo-turca inevitabilmente avversaria verso l’Europa occidentale.
I rapporti dell’Occidente con la Turchia, da tempo acrobatici, sono entrati in una fase di fragilità critica. Malgrado gli S-400, malgrado la cancellazione dal programma F-35, malgrado il doppio fronte aperto con USA/NATO e con UE (per il gas in Mediterraneo orientale), il divorzio non è predeterminato. La politica estera italiana farebbe però bene a tenere presente il rischio. In un quadrante mediterraneo dove Roma ha un potenziale d’influenza politica e peso economico e energetico, il nostro interesse nazionale è fare il possibile per “non perdere” la Turchia.