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Commentary

L’Algeria e i suoi vicini: una nuova strategia regionale

Armando Sanguini
02 maggio 2017

Sono anni ormai che le Cassandre di turno illustrano lo stato periclitante dell’Algeria e preannunciano il rischio incombente di un suo precipitare in una rovinosa spirale di instabilità. In questo esercizio, assolutamente comprensibile nelle sue logiche analitiche, sono stati contrastati quanti invocavano la cosiddetta “eccezione algerina”, valida per spiegare non solo le ragioni per le quali l’effetto domino della cosiddetta "Primavera araba" non avesse travolto anche questo paese, ma anche la sua tenuta in forza della sua stessa storia, marcata in particolare dalla sanguinosa guerra per l’indipendenza, dal “Decennio nero” della guerra civile e dalla conseguente formazione e dilatazione nel tempo del dominante blocco di potere. Blocco che vuole comunque resistere nel percorso di una mediazione interna già molto avanzata, se non già sostanzialmente conclusa, nell’accompagnamento del processo di dissolvenza del presidente Abdelaziz Bouteflika, la cui immagine dello sguardo perso nel vuoto e il rinvio della visita della cancelliera Angela Merkel lo scorso febbraio sono stati i segnali più plastici e attuali.

È su questa stessa storia che quel blocco di potere ha del resto issato anche la bandiera della sua politica estera che, nella sua robusta ambizione internazionalistica prima ancora che regionalistica, ha sempre voluto tingersi nei colori ideali dell’autodeterminazione dei popoli, dell’intangibilità dei confini e del rigetto delle interferenze esterne. Tanti sono stati i segnali che Algeri ha dato in questo senso – nel contesto del movimento dei non allineati, nei rapporti con le grandi potenze, nei consessi multilaterali. Ma la cartina di tornasole più longeva di questi punti di riferimento ideali è stata certamente costituita dal dossier del Sahara occidentale che anche in queste ultime settimane ha toccato le corde più intimamente nevralgiche dell’Algeria.

L’occasione è stata offerta dalla ricorrenza, a febbraio, del 41° anniversario della creazione della Repubblica araba democratica sahraoui (SADR), salutata a suo tempo con vibrante giubilo come un passaggio di fondamentale importanza sulla strada di un vero e conclusivo esercizio di autodeterminazione di quel popolo destinato inesorabilmente a compiersi, nelle aspettative algerine, con l’ingresso della SADR, 8 anni dopo, nell’Unione africana (UA) e l’uscita per protesta dal Marocco. Quella ricorrenza si è giocata tutta sull’ovvio richiamo all’autodeterminazione, ma il suo tono forte, stentoreo, ha tradito un fondo di retoricità sostanziale per il contesto gravido di criticità in cui si è manifestata, per due fatti principali: la mozione presentata da ben 28 membri a favore della sospensione della SADR dalla Unione africana e, soprattutto, la riammissione del Marocco nell’UA. Una sconfitta bruciante per l’Algeria che ha fatto nel tempo di questo dossier una quasi-ossessione patriottica, accentuata dai suoi riflessi su quel ruolo protagonistico che l’Algeria ha sempre coltivato in seno all’Unione, in competizione con gli altri “grandi” del continente: Sud Africa, Egitto e Nigeria, in particolare.

Segno di un indebolimento destinato ad accentuarsi nel tempo? Piuttosto, è il segno di una crescita attentamente coltivata da Rabat rispetto a una Algeria chiamata a fare i conti con una dinamica di grande incertezza sul suo futuro e ora alla vigilia di un appuntamento elettorale reso particolarmente delicato: per la pesante evoluzione economica e sociale del paese malgrado la sua ricchezza energetica e per la stancante attesa della successione a Bouteflika che continua a restare avvolta in una temibile nebbia oligarchica.

Si tratta di un’incertezza che tuttavia non sembra indurre il vertice algerino ad abbassare il livello delle sue ambizioni, magari cercando di fare della realtà che si è venuta a creare un’opportunità di confronto costruttivo in seno all’UA; nel mutuo interesse a livello bilaterale, sub-regionale e pan-africano. Entrambi sono del resto impegnati nella rivendicazione di una riforma delle Nazioni Unite idonea ad assicurare un’appropriata rappresentanza africana nel Consiglio di sicurezza e una partnership più robusta tra l’UA e la stessa ONU. Entrambe avrebbero poi da guadagnare, e molto, da una ricucitura dei loro rapporti nel perimetro di quell’Unione del Maghreb arabo, mai decollato veramente per tante ragioni, tra le quali vale la pena di ricordare proprio il dissidio algero-marocchino e l’eccentricità libica, ma ora sofferente di un pernicioso debito d’ossigeno che esalta le fragilità di tutti i suoi membri e di quello spazio euro-mediterraneo che sembra sfumare in un’improvvida irrilevanza invece di costituire un orizzonte cui tendere in termini inclusività e condivisione di un destino comune.

Conforta il fatto che, pure essendo parte del problema, l’Algeria punti finalmente ad essere anche parte della soluzione. A cominciare dalla risposta alla minaccia terroristica che sollecita il concorso di tutti i paesi della fascia saheliana e che vede l’Algeria in una condizione particolarmente nevralgica: per la lugubre esperienza degli anni ’90, tutt'altro che metabolizzata, e per le obiettive criticità poste dalla sua stessa posizione geografica: si pensi che tra Tunisia, Libia, Chad, Niger, Mali, Mauritania, Sahara occidentale e Marocco, l’Algeria condivide ben 6.340 Kmq di confini marcati da una porosità che impone il richiamato concorso di questi partner. E l'Algeria sta da tempo lavorando in quella direzione seguendo un’impegnativa collaborazione transfrontaliera in termini politici, militari e di intelligence.

La sfida è notevole, anche per l’incrocio delle cause strutturali e congiunturali della minaccia jihadista – in primis ISIS e Al Qaeda del Maghreb – e della criminalità di ogni sorta che imperversa nel Sahel, per di più in un garbuglio di alleanze in continua mutazione.

Degno di nota che Algeri abbia voluto collocare quest’azione nella cornice di una visione strategica regionale maturata sulla scorta dell’irrompere della Primavera araba di cui è riuscita ad assorbire per tempo o a rinviare nel tempo, secondo alcuni, l’effetto domino.

In tale visione rientra anche l’apprezzabile politica di vicinato finalizzata alla promozione della stabilità e del superamento dei rischi di polarizzazione. Lo ha fatto in Mali favorendo il dialogo tra il governo e le fazioni ribelli del nord; lo ha fatto con la Tunisia propiziando quella convergenza tra l’islamica Ennahda e il fronte più secolarizzante che si è materializzato nei governi di coalizione succedutisi dal 2011 in avanti e che ha costituito uno dei pilastri portanti della rinnovata costruzione democratica di quel paese. E forse anche un esempio cui rifarsi nel suo stesso futuro prossimo.

Lo ha fatto con i due principali contendenti in Libia, prima a livello bilaterale all’ombra della mediazione delle Nazioni Unite; poi aderendo alla formazione di quella troika, costituita assieme alla Tunisia e all’Egitto, impegnata a facilitare, nel verosimile concerto con i rispettivi sponsor regionali e internazionali tra i quali si staglia in maniera sempre più visibile la Russia di Putin, una soluzione politica “libico-libica” alla profonda crisi in cui è precipitato quel paese. Interessante osservare come nella composizione di questa troika si manifesti uno scampolo di potenziale convergenza tra Maghreb-Mashreq su un obiettivo di stabilità regionale e mediterranea che potrebbe aprire un orizzonte innovativo di collaborazione da incoraggiare anche e soprattutto per i ritorni che potrebbe far maturare in Medio Oriente. L’Unione europea dovrebbe avere interesse a coglierne le potenzialità e capitalizzarle.

Ma nell’immediato vi è un duplice, incombente e potenzialmente dirompente protagonista: l’esito di quest’ormai imminente voto, combinato con il dato dell’affluenza alle urne e soprattutto il momento della successione di Boutlefika.

 

Armando Sanguini, ISPI Senior Advisor ed ex ambasciatore d'Italia a Tunisi e Riyadh

 

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Armando Sanguini
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