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Commentary
L’Algeria, un gigante in bilico
Nicola Missaglia
03 maggio 2017

Le elezioni del 4 maggio 2017 tra proteste e disaffezione

Il prossimo 4 maggio 23,3 milioni di cittadini algerini sono chiamati a eleggere sia i membri del parlamento (l’Assemblea Nazionale Popolare) sia i consigli municipali e provinciali, i quali a loro volta nomineranno due terzi dei membri della Camera alta. Saranno le prime elezioni a svolgersi in ottemperanza alle modifiche costituzionali varate nel febbraio 2016 che, tra le altre misure, hanno istituito una commissione indipendente per la supervisione delle elezioni (Haute instance indépendante de surveillance des élections, HIISE) composta da 205 magistrati incaricati da un consiglio giudiziario e 205 esponenti della società civile nominati direttamente dal presidente Bouteflika. Diversi partiti di opposizione hanno criticato tale iniziativa esprimendo la propria preoccupazione per la reale indipendenza di questo organo dalle autorità politiche. 
Infatti, il voto del 4 maggio si svolgerà in un clima di crescente sfiducia nei confronti di istituzioni elette quali il parlamento, la cui efficacia viene percepita come fortemente limitata e indirizzata dallo strapotere delle forze di sicurezza da un lato, e del gabinetto presidenziale dall’altro. A poco sono valse, in tal senso, l’introduzione di misure per consolidare l’influenza politica delle Camere con la riforma costituzionale, la reintroduzione del limite di due soli mandati per la presidenza e, tanto meno, la dissoluzione dell’onnipotente Département du renseignement et de la sécurité (DRS), prontamente sostituito con il nuovo Département de Surveillance et de Sécurité (DSS).

Alla sfiducia nelle istituzioni e nella prospettiva di un futuro genuinamente democratico del paese, è venuta inoltre ad aggiungersi l’esplosione del malcontento popolare nei confronti delle misure di austerity introdotte dal governo con la legge di bilancio per il 2017 entrata in vigore il 1° gennaio. Non è un caso che nel paese le proteste siano da allora andate moltiplicandosi, sfociando proprio all’inizio di gennaio in violenti scontri nel comune di Béjaia. Tutto ciò in un contesto già caratterizzato da numerose tensioni sociali dovute agli alti tassi di disoccupazione, principalmente giovanile, e al progressivo sgretolarsi di un welfare di base fondato soprattutto sulla redistribuzione, in forma di sussidi e servizi, delle rendite derivanti dalle ricche riserve di idrocarburi del paese, messe in crisi dall’abbassamento globale del prezzo del petrolio.

Benché si preveda che proprio in virtù della dilagante disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni l’affluenza alle urne sarà contenuta – come già successo nelle scorse elezioni politiche del 2012, quando, secondo i dati ufficiali, andò a votare il 42,7% dei cittadini – le autorità algerine temono che il voto possa offrire l’occasione per il propagarsi di nuove proteste antigovernative. Le formazioni politiche riconosciute nel paese sono ben 69, ma è prevedibile che a ottenere una schiacciante maggioranza in parlamento continueranno a essere i due partiti che hanno dominato la scena politica del paese sin dal 1997 – quando furono indette le prime elezioni multipartitiche dall’inizio della tragica guerra civile del “decennio nero” – formando anche l’attuale coalizione governativa: il Front de libération nationale (FLN) dello stesso Bouteflika e del primo ministro Sellal, di gran lunga il principale partito algerino (208 seggi su 462), e il Rassemblement national démocratique (RND, 68 seggi), guidato da Ahmed Ouyahia, più volte primo ministro e incaricato dal presidente per guidare il processo di revisione costituzionale. La contesa principale si svolgerà infatti proprio tra questi due partiti, laddove pur senza arrivare a rappresentare una vera e propria minaccia per il primato del FLN, l’RND potrebbe capitalizzarne l’attuale fase di relativa debolezza interna, causata in parte da una serie di ‘purghe’ che per volere di Bouteflika hanno ne colpito la leadership dopo le elezioni del 2012, in parte dalla debole guida del partito affidata dallo scorso ottobre all’83enne Djamel Ould Abbes e, infine, dalle numerose tensioni interne relative proprio alla successione dell’anziano capo dello Stato.

Le opposizioni: un “fronte” diviso, e innocuo

Anche le opposizioni appaiono indebolite da divisioni interne e defezioni, come quella per esempio di Abderrazzaq Makri, leader del principale partito di ispirazione islamica – il Mouvement de la société pour la paix (MSP) – che ha recentemente dichiarato di voler far parte della futura coalizione di governo, qualsiasi essa sia, attirando le critiche degli altri partiti che compongono la principale (ma sempre più fragile e litigiosa) coalizione dei partiti d’opposizione, l’Instance de concertation et de suivi de l’opposition (ISCO). Sempre sul versante islamista, ad essersi “allineato” con il regime vi è anche il partito Tajamou Amal el-Djazair (TAJ) di Amar Ghoul, dichiaratamente fedele a Bouteflika, mentre partiti di ispirazione islamica quali il Mouvement de la réforme nationale (El Islah) e Ennahda (che nel 2012 avevano formato una coalizione con l’MSP, l’Alliance de l’Algérie Verte) non sembrano in grado di unire le proprie forze per formare un fronte comune. A sinistra, il partito laico e filo-berbero Rassemblement pour la culture et la démocratie (RCD) guidato da Mohcine Belabbas non è riuscito a presentare le proprie liste elettorali che in 15 wilayas (provincie) – a fronte delle 48 coperte dal FLN e dal RND, e addirittura dal MSP – mentre formazioni quali il Parti des travailleurs e il Front des forces socialistes (FFS) che hanno incentrato la propria campagna elettorale sulla critica alle misure di austerity, non dispongono delle risorse e della risonanza nazionale necessarie per poter rappresentare una seria minaccia ai partiti di governo. Frammentate, limitate dai crescenti vincoli legali ed economici imposti dal governo e sfavorite da un sistema elettorale che premia fortemente i partiti di maggioranza, le opposizioni non sembrano per il momento in grado capitalizzare il malessere diffuso nella popolazione algerina per farne uno strumento efficace di pressione politica, né tanto meno di canalizzarlo verso un movimento di contestazione sufficientemente coeso e forte da rappresentare una forza destabilizzante per uno Stato ancora saldamente nelle mani della compagine governativa e presidenziale, nonché dell’ancora potentissimo apparato militare e di sicurezza.

L’incognita del dopo-Bouteflika e l’accentramento del potere del presidente

Sullo sfondo del dibattito elettorale si staglia un’altra delle principali fonti di inquietudine per l’Algeria di oggi, quella della successione del Presidente Abdelaziz Bouteflika. Gravemente malato sin dal 2013, quando fu colpito da un ictus, le sue apparizioni pubbliche si sono fatte sempre meno frequenti – proprio lo scorso febbraio una bronchite ha determinato il rinvio di un viaggio in Algeria della Cancelliera tedesca Angela Merkel – sino ad evocare il timore concreto che l’anziano leader, seppure rieletto nel 2014, possa non riuscire a portare a termine il proprio mandato (il quarto), la cui fine è prevista per il 2019. Per il momento, è soprattutto il primo ministro Abdelmalek Sellal a gestire l’ordinaria amministrazione degli affari politici e governativi del paese. Da oltre tre anni, il tema della successione di Bouteflika – eletto per la prima volta nel 1999 e riconfermato per quattro mandati consecutivi – è al centro dell’agenda non ufficiale delle istituzioni e continua ad alimentare divisioni in seno all’élite politica algerina, compresa la compagine governativa, che però non sembra per il momento avere individuato un successore in grado di mettere d’accordo tutte le anime del regime. Qualora Bouteflika dovesse morire prima della fine del mandato, la legge prevede che sia il presidente del Conseil de la nation (la Camera alta) Abdelkader Bensalah a prenderne il posto ad interim. Tuttavia, a oggi i candidati più accreditati per una possibile successione sono altri: l’attuale primo ministro Abdelmalek Sellal, il capo del gabinetto presidenziale Ahmed Ouyahia, il consigliere speciale e fratello del presidente Saïd Bouteflika, l’ex premier Mouloud Hamrouche e, infine, il vice ministro della Difesa e capo delle forze armate Ahmed Gaïd Salah, (più vicino al presidente che alla sua famiglia) la cui età avanzata (76) ne fa però un candidato meno plausibile di altri.

Benché anche gli apparati militari e di sicurezza del paese abbiano sempre svolto un ruolo determinante nell’indirizzare scelte politiche delicate come questa in un complesso gioco di forze, reciproci interessi, ma anche rivalità tra militari e presidenza, nella fase attuale il loro potere di intervenire nel processo decisionale apparirebbe limitato. Nel corso degli ultimi anni e ancora negli ultimi mesi, proprio per volere di Bouteflika (e, sembrerebbe, con la regia del fratello Saïd), esse sono state infatti oggetto di radicali riorganizzazioni e cambi di leadership: provvedimenti tesi, più che a limitarne realmente il potere – la spesa militare, per esempio, cresciuta di oltre il 175% dal 2004, non accenna a diminuire il controllo dell’intelligence sulla società e i media algerini appare più pervasivo che mai –, ad assicurarne la piena lealtà non tanto alle autorità civili in generale, quanto alla presidenza stessa. La sostituzione del Département du Renseignement et de la Sécurité (DRS), alle dipendenze del ministero della Difesa, con il Département de Surveillance et de Sécurité (DSS) invece ora risponde direttamente alla presidenza, sembrano andare proprio in questa direzione. Inoltre, le sostituzioni (in alcuni casi addirittura l’arresto) di alti ufficiali dell’esercito – ma anche della sicurezza interna, della sicurezza presidenziale, della Guardia repubblicana e delle stesse autorità civili – sono state numerosissime. Tra i casi più eclatanti pensionamento anticipato del generale Mohamed “Toufic” Mediène, capo dell’intelligence militare (DRS) e autentico deus ex machina della politica e dell’economia algerina fin dai tempi della guerra civile. Al suo posto, è stato nominato il Generale Bachir Tartag, più vicino a Saïd Bouteflika e ora a capo del nuovo DSS.

Nel contesto delle incertezze legate al proprio fragile stato di salute e soprattutto al delicato tema della successione sembra che, insieme al suo entourage più stretto, l’anziano leader (da sempre insofferente per la natura a suo dire né parlamentare né presidenziale del sistema algerino ereditato dai suoi predecessori) stia cercando a imprimere la propria volontà sulla scelta del successore, e dunque sul futuro del paese, consolidando progressivamente l’accentramento del potere decisionale sul gabinetto presidenziale. Pertanto, se è sempre più prevedibile che il successore del capo di Stato verrà selezionato proprio all’interno della cerchia ristretta dei fedelissimi del presidente e della sua famiglia (e che dunque il futuro politico del paese non dovrebbe cambiare sostanzialmente), è altrettanto verosimile che la stretta presidenziale sulle istituzioni e sulla politica algerine continuerà, almeno per il momento, ad alimentare tensioni nell’establishment politico-militare, ma anche economico, del paese.

L’economia a rischio: dipendenza dagli idrocarburi e misure di austerity

Con un’economia poco diversificata e un sistema produttivo nazionale basato sostanzialmente sulla dipendenza dall’industria degli idrocarburi – con riserve pari a circa 12,2 miliardi di barili di petrolio e 4.500 miliardi di metri cubi di gas naturale, l’Algeria è uno dei maggiori produttori ed esportatori mondiali nel settore – come altri “rentier states” sin dal 2014 il paese si è infatti trovato particolarmente esposto al calo globale del prezzo del petrolio, al quale sinora ha sostanzialmente reagito attingendo alle riserve valutarie accumulate negli anni. Le ingenti rendite derivanti dalle esportazioni di petrolio e, in misura crescente, di gas – che insieme ammontano a oltre il 97% del totale nazionale delle esportazioni e nell’ultimo quinquennio hanno generato oltre il 60% delle entrate governative – hanno infatti permesso alle autorità non solo di bilanciare gli squilibri del deficit di spesa, ma soprattutto a garantire la coesione sociale e la stabilità politica del paese attraverso un sistema di redistribuzione della ricchezza fatto di sussidi, (contenuti) investimenti infrastrutturali e servizi. Non è un caso che l’Algeria, almeno per il momento, sia uscita relativamente indenne dai moti rivoluzionari e dal successivo caos che hanno scosso altri paesi della regione a partire dalle cosiddette Primavere arabe, benché alcune delle condizioni fondamentali e motivanti delle rivolte in paesi quali l’Egitto o la Tunisia – quali gli alti tassi disoccupazione giovanile, la corruzione diffusa e la natura autoritaria dei regimi – non le fossero, e non le siano, certamente estranee. Tuttavia, il ricco fondo sovrano (Fond des régulations et des recettes) a cui il governo ha in questi anni attinto per finanziare la spesa pubblica e mantenere il deficit di bilancio – oggi al 16,7% del PIL – a livelli sopportabili, va rapidamente erodendosi. Se l’ammontare totale delle riserve valutarie è caduto da 194 miliardi di dollari nel 2013 a 108 miliardi nel 2016, secondo le stime della Banca Mondiale, esse potrebbero diminuire sino a raggiungere i 60 miliardi di dollari entro il 2018, a fronte di un debito pubblico che, oggi ancora inferiore al 20% del PIL, si stima possa arrivare al 47% entro il 2021.

La consapevolezza che una crisi economica prolungata a fronte dell’esaurimento delle riserve potrebbe rappresentare il pericolo più grave per la tenuta politica e sociale del paese ha convinto in questi anni le autorità algerine ad attuare in questi anni alcuni, seppur probabilmente ancora insufficienti, cambi di rotta per consolidare le finanze nazionali. Per esempio, pur senza spingersi a proporre una vera e propria riforma del sistema economico, la legge di bilancio del 2017, la prima a prevedere un piano biennale di interventi, ha introdotto con più risolutezza rispetto a quelle degli anni precedenti una serie di misure volte al consolidamento delle finanze dello Stato e di una maggiore sostenibilità dell’economia: dal contenimento deciso della spesa pubblica (tagliata del 14%, a fronte del 9% del 2016, in quasi tutti i settori tranne la sanità e la spesa militare, che rimane superiore al 6% del PIL), all’aumento dell’IVA dal 17% al 19%; dall’aumento del prezzo dei carburanti e delle imposte su alcol, tabacco beni di lusso e immobili al blocco delle assunzioni nel settore pubblico (il principale serbatoio lavorativo con circa il 70% della popolazione impegnata); all’agevolazione dei processi di privatizzazione per attrarre capitali esteri e migliorare “business environment” per gli investitori stranieri. Tutto ciò accompagnato da una vera e propria campagna di ampio respiro volta a debellare i commerci informali che proliferano nel paese attraverso l’istituzione di licenze e controlli, e il nuovo obbligo, proprio per gli investitori stranieri, di reinvestire in Algeria il 30% dei profitti derivanti dalle nuove esenzioni e agevolazioni fiscali che li riguardano. Naturalmente è ancora presto per dire se – di fronte alla minaccia di nuove proteste e il rischio che un “momento rivoluzionario” possa coinvolgere anche l’Algeria – le autorità si spingeranno questa volta, e a differenza degli anni passati, a implementare tutti i provvedimenti con il rigore promesso, ma anche se le misure adottate (in particolare quelle riguardanti le tassazioni e i controlli) sortiranno per le casse dello Stato i benefici sperati, e non finiranno invece per alimentare ulteriormente l’illegalità, l’evasione, il lavoro sommerso e la corruzione già molto diffuse nel paese.

Per quanto la rabbia dei cittadini sia in aumento e le risorse dello Stato per “comprare” la pace sociale in declino, gli analisti sono tuttavia concordi nel notare che, almeno per il momento, la possibilità che anche l’Algeria possa essere presto trascinata a sua volta in una vera e propria rivoluzione sia poco plausibile. Infatti, se fattori come la disoccupazione, l’aumentata pressione fiscale, la limitazione delle libertà civili e la corruzione diffusa a tutti i livelli del potere continueranno nel medio periodo ad alimentare proteste e manifestazioni, la dolorosa memoria della guerra civile, la presenza tuttora pervasiva degli apparati di sicurezza, il timore che una rivoluzione possa degenerare nel caos come in Siria o nella vicina Libia, la debolezza dei partiti di opposizione, ma anche la sopravvivenza di una società civile, un panorama mediatico e un mondo sindacale e associazionistico particolarmente vivaci (malgrado i continui giri di vite del regime sulle libertà civili e i diritti politici) sembrano scongiurare, almeno per il momento, tale pericolo.

La politica di vicinato e la minaccia jihadista: dalla non interferenza alla cooperazione regionale (ma non sui Sahrawi)

Sin dall’indipendenza dalla Francia, la politica estera e di vicinato algerine sono state guidate da una strategia di neutralità e non interferenza nelle questioni interne di paesi terzi, in nome di una strenua difesa del principio di autodeterminazione dei popoli. Tuttavia, in anni più recenti il deteriorarsi della stabilità regionale – e soprattutto quella di paesi come la Libia, il Mali o anche la Tunisia, con cui l’Algeria condivide lunghi confini – ha indotto Algeri a rivedere almeno parzialmente questa postura. Il moltiplicarsi delle aree di conflitto nell’“estero vicino” dell’Algeria a partire dal 2011, oltre a rappresentare di per sé un fattore di instabilità geopolitica, ha dato nuovo ossigeno a una minaccia con cui il paese convive da tempo e che, soprattutto nelle regioni meridionali e del Sahel, è andata decisamente intensificandosi nel corso dell’ultimo decennio: il terrorismo – locale, regionale e decisamente transnazionale – di stampo jihadista. Alla presenza sul territorio di cellule in vario modo legate ad al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM), Stato Islamico (IS, dal 2014) e gruppi in forte ascesa come al-Mourabitoun che operano e gestiscono traffici illegali nelle vaste zone desertiche a cavallo dei paesi della regione, approfittando della porosità dei confini per rifornirsi di armamenti o ripiegare in caso di necessità, si affianca oggi anche il pericolo rappresentato dal ritorno di foreign fighters dai principali teatri di conflitto mediorientali. Tale situazione ha spinto i governi di Algeri (già particolarmente sensibili al “pericolo islamista” sin dalla guerra civile degli anni Novanta) non solo a predisporre ingenti risorse per le operazioni counter-terrorism e per mettere in sicurezza le frontiere – risorse che non accennano a diminuire malgrado i drastici tagli alla spesa pubblica di questi mesi – ma anche a rafforzare la cooperazione regionale e internazionale nel campo della sicurezza, assumendo un ruolo attivo nella stabilizzazione e riconciliazione dei paesi vicini più affetti da instabilità locali, conflitti o transizioni particolarmente complesse. È proprio in questo contesto che le istituzioni algerine si sono infatti impegnate non solo a rafforzare il piano di cooperazione regionale in materia di sicurezza e di difesa in ambito G5 del Sahel e di "Dialogo 5+5" con la sponda rivierasca del Mediterraneo meridionale, ma anche a farsi mediatrici tra le parti in conflitto in Tunisia (tra l’islamica Ennahda e il fronte laico successivamente al 2011), in Mali (favorendo il dialogo tra le fazioni ribelli del nord e il governo centrale) e, da ultimo, anche in Libia, con la recentissima partecipazione in una “troika”, insieme all’Egitto e alla Tunisia, impegnata a facilitare la convergenza delle fazioni rivali e gettare le basi per una soluzione politica condivisa della crisi.

Molto meno propensa al compromesso e alla mediazione l’Algeria appare invece nella disputa con il vicino Marocco sul riconoscimento della "Repubblica Araba Democratica Sahrawi" – il cosiddetto Sahara Occidentale – di cui, sin dalla fine dell’occupazione coloniale del territorio nel 1975, Algeri ha sempre risolutamente difeso il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza, accogliendo decine di migliaia di profughi sahrawi e sostenendo la guerriglia del fronte indipendentista Polisario. La questione è recentemente tornata agli onori delle cronache nel contesto della riammissione, proprio a fine gennaio, del Marocco nell’Unione africana, organizzazione che il Regno aveva abbandonato proprio dopo che quest’ultima, nel 1984, aveva riconosciuto la Repubblica Sahrawi. L’evento – che ha già acceso nuovi malumori tra il Marocco e altri stati africani in due nuove occasioni in marzo – ha naturalmente rappresentato un duro colpo per l’Algeria, che del dossier Sahrawi ha fatto negli anni una questione di fondamentale importanza anche per la difesa del proprio ruolo e delle proprie ambizioni protagonistiche in seno alla stessa Unione africana.

Sicurezza: un partner strategico

Malgrado queste tensioni e le proprie fragilità economiche e politiche interne – ivi comprese le ferite mai sopite della guerra civile, la rinascita di gruppi localisti di insorgenza civile e la crescente insofferenza delle giovani generazioni, particolarmente vulnerabili all’“appeal” jihadista – l’Algeria e il suo potentissimo esercito (il più numeroso dell’Africa) rappresentano oggi comunque un pilastro fondamentale per la ricerca della stabilità regionale e per il contrasto al terrorismo internazionale, che, insieme alla politica energetica, sono due dei principali “drivers” della politica estera di Algeri. Non è infatti un caso che, proprio nel campo della sicurezza e della lotta al terrorismo, sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea intrattengano con l’Algeria rapporti di cooperazione e scambio che, al di là di alcune difficoltà di natura politica e storica, sono andati decisamente intensificandosi nel corso dell’ultimo decennio. Nell’attuale contesto di instabilità regionale e con la minaccia terroristica tutt’altro che debellata, soprattutto nella regione del Sahel, è inoltre prevedibile che i rapporti di collaborazione tra Usa e Algeria nel campo della sicurezza continuino a restare buoni anche sotto la presidenza di Donald Trump. Con l’Unione europea, l’Algeria ha siglato fin dal 2005 un accordo di associazione, aggiornato nel 2013 e nel 2014 nell’ambito della "Politica europea di vicinato". Oltre alla cooperazione sulla sicurezza, la partnership tra Ue e Algeria prevede la collaborazione in numerosi altri campi, quali la governance e i diritti fondamentali, la gestione dei flussi migratori, la diplomazia culturale e, soprattutto, la cooperazione in ambito commerciale e l’assistenza al processo di diversificazione economica ed energetica del paese (quest’ultima anche oggetto di un Memorandum d’intesa firmato alla fine di gennaio).

L’energia: una ricchezza da riformare

Le ricchezze di idrocarburi di cui dispone l’Algeria continuano a fare del paese un partner strategico degli stati europei, oltre che degli Stati Uniti. Insieme, Usa e Ue assorbono infatti circa l’80% delle esportazioni di petrolio algerino e, da sola, l’Europa è il primo partner commerciale di Algeri: ai paesi dell’Ue sono destinati all’incirca i due terzi delle esportazioni complessive dell’Algeria (composte, al 2015 del 99,7% in energia e derivati del petrolio e dello 0,3% in prodotti agricoli) per il valore di oltre 20 miliardi di euro. Cresciuto del 136% dal 2002 al 2014, soprattutto in virtù dell’aumento della produzione di gas e prodotti petroliferi, sempre nel 2015 l’interscambio commerciale tra Ue e Algeria si è attestato 43 miliardi di euro. Nel contesto di questo trend complessivamente positivo, l’export algerino di idrocarburi verso l’Ue ha tuttavia attraversato una fase di contrazione durata diversi anni, dovuta soprattutto al mancato rinnovamento del settore energetico del paese e all’aumento del consumo interno trainato dalla crescita demografica. Benché il 2016 abbia registrato una ripresa e i primi mesi del 2017 sembrino confermarla – con un incremento del 49% nella vendita di gas naturale a Italia e Spagna nel 2016 e un aumento del 23% nei flussi di gas attraverso il gasdotto Transmed in gennaio, rispetto allo stesso mese l’anno scorso – gli scarsi investimenti pubblici e privati nell’upstream, l’obsolescenza delle infrastrutture e una domanda interna in forte crescita (nel 2015 ha assorbito il 48% della produzione interna) fanno sì che un futuro sostenibile sia per il momento tutt’altro che spianato per il settore degli idrocarburi algerino. L’avvio delle estrazioni previsto per il 2017 in tre nuovi giacimenti gasiferi, nonché l’apertura di un nuovo stabilimento da circa 5 Gmc all’anno a In Salah, non faranno in realtà che compensare la progressiva diminuzione della produzione di altri siti sfruttati ormai già da diversi anni. Anche la produzione di greggio, attestatasi intorno ai 1,5 milioni di barili al giorno dal 2014, secondo le proiezioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia diminuirà di 0,2 milioni di barili al giorno entro il 2021.

Insieme alla necessità evidente di una diversificazione complessiva dell’economia, un rinnovamento radicale del settore degli idrocarburi algerino volto a garantirne la flessibilità, la maggiore attrattività per gli investitori stranieri e la sostenibilità a lungo termine si fa dunque sempre più urgente. Se in questa direzione sembrano andare alcuni provvedimenti governativi dell’ultimo periodo, l’Unione europea, e soprattutto l’Italia, hanno tutto l’interesse a sostenerlo e a parteciparvi, poiché il ruolo dell’Algeria nel garantire la sicurezza energetica di entrambi – sia per l’Ue che per l’Italia l’Algeria è il secondo fornitore di gas naturale dopo la Russia – rimane cruciale. Da registrare senz’altro positivamente in questo senso gli accordi siglati negli ultimi anni tra Eni e il colosso statale degli idrocarburi algerini Sonatrach per la partecipazione dell’azienda italiana al rilancio dell’upstream algerino, alla diversificazione del settore degli idrocarburi e allo sviluppo dell’energia rinnovabile nel paese. Proprio nel contesto di questa collaborazione, un segnale incoraggiante viene dal memorandum di intesa firmato lo scorso gennaio tra Sonatrach e Versalis, società del gruppo Eni, per lo studio di fattibilità di un complesso petrolchimico in Algeria.

Nicola Missaglia, ISPI Research Fellow

 

* Per un ulteriore approfondimento si veda ISPI (a cura di), "Analisi focus paese: Algeria" in Focus Mediterraneo allargato n° 3 - Osservatorio di politica internazionale, aprile 2017

 

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