L’aver cantato «Bomb, bomb Iran» durante la campagna elettorale del 2008 sulle note della celebre canzone Barbara Ann, resa famosa dai Beach Boys, non fu certamente il motivo per cui John McCain perse le elezioni presidenziali contro Barack Obama. Tuttavia, a distanza di cinque anni dall’invasione dell’Iraq, la parodia musicale nemmeno aiutò il Repubblicano a guadagnare consenso agli occhi di un elettorato in larga parte riluttante ad utilizzare nuovamente la forza militare in Medio Oriente. Un comune sentire ancora oggi inalterato, come testimoniato da un recente sondaggio CBS News/New York Times, per cui, secondo l’80% degli americani, Teheran non rappresenterebbe una minaccia che richiede un attacco militare preventivo(1) .
È risaputo che McCain, «once a prominent realist, has steadily converted to neoconservatism over the past two decades. He is now the movement's most visible champion»(2). All’interno del Partito Repubblicano, la corrente ‘idealista neoconservatrice’ – nonostante l’esperienza non certo positiva dell’amministrazione di George W. Bush – è infatti ancora in grado di esercitare una notevole influenza tanto sulla politica interna quanto su quella estera. E proprio McCain, nonostante la sconfitta inflittagli dal ‘realista’ Obama(3), ne è ancora il frontman. Trascorsi oltre dieci anni dallo speech di Bush junior sull’axis of evil(4), che identificava l’Iran come una minaccia diretta alla sicurezza americana, e dalle pressioni dell’allora vice-presidente Dick Cheney, che intendeva intraprendere quanto prima l’azione militare preventiva di regime change nei confronti di Teheran(5), appare interessante soffer-marsi sull’attuale attitude dei neocons di fronte al rapprochement tra Stati Uniti e Iran. Un attitude che, sfumato il clima di ipersecuritizzazione post-9/11 e con alle spalle la ‘grande crisi’ del 2008, non può dirsi da 'guerrafondai'(6). In uno statement del 24 settembre, infatti, McCain ha dichiarato di sostenere «the willingness of the Obama Administration to test the credibility of the Iranian regime’s diplomatic overtures. However, we are deeply skeptical about the real motivations behind Iran's charm offensive»(7), non discostandosi così dalle parole dello stesso presidente, il quale all’Assemblea Generale dell’ONU aveva già annunciato che «conciliatory words will have to be matched by actions that are transparent and verifiable»(8), oltre che da quelle del National Security Advisor ‘liberal’, Susan Rice, che infatti ribadiva: «We and others in the international community have every reason to be skeptical of that and we need to test it, and any agreement must be fully verifiable and enforceable»(9). D’altro canto, tanto per l’amministrazione Obama quanto per i neocons, la military option non può considerarsi del tutto «off the table»(10) per due ordini di motivi tra loro interconnessi: primo, mantenere la pressione sull’Iran, che pare ora aver dato alcuni frutti; secondo, placare le paure d’Israele. Una tale convergenza, in realtà, si era già manifestata, al di là dell’oratoria enfatica da campagna elettorale, nelle parole dei candidati alla presidenza nel 2008 e si era ripetuta nel 2012 tra lo stesso Obama e Mitt Romney, anch’egli riconducibile al pensiero ‘neoconservatore’.
Più che strategica, però, quella con il ‘realismo’ (perlomeno sulla questione iraniana) della Casa Bianca(11) appare per i neocons una convergenza tattica. In un contesto di generalizzato ridimensionamento della potenza americana, sembra difficile, anche solo a livello retorico, per l’«idealist neocon project»(12) inseguire assertivamente la propria Freedom Agenda, incentrata sul regime change degli Stati autocratici in nome dei valori democratici incarnati dall’‘eccezionalismo’ americano. L’esiguo seguito guadagnato recentemente in seno all’opinione pubblica ipotizzando un intervento in Siria, fortemente sponsorizzato da McCain, è ulteriore dimostrazione della scarsa popolarità; la situazione dell’Iran, ossia una nazione unita, ambiziosa ed influente con una storia importante alle spalle, renderebbe ulteriormente complicata una postura aggressiva. D’altro canto, secondo Henry Kissinger, «I neocon non sono degli analisti strategici. […] I neocon sono alla ricerca dell’armonia mondiale, di una felicità universale da ottenere rovesciando i regimi […] se potessero rovescerebbero il governo […] iraniano […]; e la definirebbero strategia a lungo termine. Io invece penso che noi americani non abbiamo né la capacità, né la costanza per essere i padrini dell’universo»(13).
Le parole di Kissinger riconducono all’altra, importante corrente all’interno del Partito Repubblicano, che dagli anni Settanta in politica estera si scontra/confronta ripetutamente con il ‘neoconservatorismo’(14): è il ‘realismo’. Proprio l’ex segretario di stato di Richard Nixon, un emblema della Realpolitik, in un oped sul Washington Post aveva sostenuto la necessità di un riavvicinamento diplomatico con l’Iran al di là del regime change e dell’uso dell’opzione militare, dato che «We cannot afford another strategic disaster. [… A] creative diplomacy, allied to a determined strategy, may still be able to prevent a crisis»(15). Una linea che ha trovato sostegno anche tra le fila del Partito Democratico, in particolare tra le élite intellettuali ‘realiste’ – una trasversalità non casuale per la politica estera americana – ben rappresentate da Zbigniew Brzezinski, già National Security Advisor di Jimmy Carter, il quale sempre sul Washington Post ha voluto precisare: «Although the president has skillfully avoided a specific commitment to military action by a certain date […] a failure to reach a satisfactory negotiated solution with Iran should not be viewed as the trigger for a new U.S.-initiated war that is not likely to be confined just to Iran»(16).
Nella prospettiva statunitense, perciò, il rapprochement con l’Iran, che sarebbe potenzialmente in grado di allontanare la paura di una proliferazione nucleare in Medio Oriente con probabili ricadute sull’America e i suoi alleati, sta mettendo d’accordo l’intero Paese, il quale – diversamente dall’ipotizzato intervento in Siria (17) – lo percepisce come un interesse nazionale in grado di appianare, almeno in questo stadio, le ‘ordinarie’ divergenze politiche. D’altronde, un ennesimo sondaggio, questa volta diffuso dalla CNN, ha mostrato che gli stessi quattro americani su cinque che si oppongono all’uso della forza militare contro Teheran, si dichiarano favorevoli a negoziati diplomatici diretti(18). Al di là degli obiettivi ultimi di grand strategy, quindi, vi è in questo momento consonanza tra Democratici e Repubblicani, tra ‘realisti’ e ‘idealisti’ nell’accogliere la ‘mano aperta’ distesa dalla nuova «heroic flexibility»(19) iraniana. Fuor di retorica, da un lato la riapertura della finestra diplomatica dischiude ‘nuove’ opportunità per Washington, ma dall’altro svela anche ‘nuove’ sfide. Come già ebbe modo di constatare Obama al Cairo nel 2009 con parole quanto mai attuali, «The question, now, is not what Iran is against, but rather what future it wants to build»(20). A cominciare dal decidere se accogliere l’approccio trust but verify, posto come pre-condizione diplomatica dal ‘Grande Satana’.
(1). http://www.pollingreport.com/iran.htm.
(2). J. HEILBRUNN, John McCain's Neocon Manifesto, in «The National Interest», 29 agosto 2012.
(3). «Per scelta e per convenienza politico-elettorale [Obama] ha fatto proprio, e addirittura ostentato, un approccio realista, di cui l’America ha un disperato bisogno dopo la grande sbronza ideologica degli anni di Bush. Non a caso, la risposta di Obama alla crisi iraniana è stata giudicata positivamente dal grande guru del realismo statunitense, Henry Kissinger». M. DEL PERO, I silenzi e i dilemmi di Obama, 21 giugno 2009 http://mariodelpero.italianieuropei.it/2009/06/i_silenzi_e_i_dilemmi_di_obama/.