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REGNO UNITO

L'annus horribilis di Londra

Davide Tentori
25 novembre 2022

Se il 1992 fu un vero “annus horribilis” per la monarchia britannica (secondo le parole della stessa Regina Elisabetta II), non si può dire che il 2022 sia stato da meno per tutto il Regno Unito. Oltre alla scomparsa della sovrana dopo 70 anni di regno, Londra ha vissuto un anno decisamente complicato sia dal punto di vista politico con la crisi del Partito Conservatore e l’avvicendarsi di tre premier – Boris Johnson, Liz Truss e Rishi Sunak – che da quello economico, a causa di una situazione che si sta rivelando ben peggiore che nel resto d’Europa. Tra i principali indiziati non c’è solo l’instabilità politica (i danni del velleitario mini-budget del tandem Truss-Kwarteng sono stati pesanti e hanno scalfito la reputazione del Paese sui mercati finanziari) ma anche Brexit i cui danni, a ormai quasi due anni dall’entrata in vigore, sono evidenti. Tanto che in Gran Bretagna si comincia a discutere di rivedere la relazione con l’Unione europea. Quali sono dunque le prospettive economiche di un Paese che rischia di entrare in una crisi profonda e duratura?

 

La condanna dell’OCSE: una situazione che nasce da lontano 

Se l’UE sembra diretta verso una recessione nel 2023, il Regno Unito vi è già entrato per stessa ammissione del nuovo Ministro dell’Economia Jeremy Hunt. Infatti, da luglio a settembre il Pil si è leggermente contratto su base trimestrale dello 0,2% (dato migliore delle attese di mercato a -0,5%). Una brusca frenata che anticipa la performance negativa attesa per l’anno prossimo: secondo le recentissime stime dell’ultimo Economic Outlook dell’OCSE, il Pil calerà dello 0,4% nel 2023 (esclusa la Russia, è la peggiore performance tra i Paesi del G20 e la terza peggiore tra i Paesi OCSE), mentre per il 2024 è attesa una timidissima ripresa (+0,2%). È un sentiero più ottimistico (ma più stabile) rispetto a quello delineato dall’Office for Budget Responsibility, il controllore indipendente dei conti pubblici britannici, che vede il Pil contrarsi dell’1,4% nel 2023 e rimbalzare dell’1,3% nel 2024. E, secondo la Bank of England (BOE), Londra potrebbe andare incontro alla recessione più lunga da un secolo a questa parte. Una tegola pesante, anche perché il Regno Unito è l’unica economia tra quelle del G7 a non avere ancora recuperato il livello pre-pandemia.

Le spiegazioni a questa situazione sono diverse. Alcune sono congiunturali, legate all’altissima inflazione (11,1% a ottobre, ancora in crescita nonostante i pesanti interventi su tassi di interesse e la graduale riduzione del bilancio da parte della Bank of England), agli altissimi prezzi dell’energia che incidono sulla performance delle imprese e sulla domanda delle famiglie, e al tasso di cambio sempre più debole, con la sterlina che quest’anno ha perso il 12% del proprio valore rispetto al dollaro. Ma le ragioni strutturali  sono ancora più importanti: innanzitutto, la progressiva perdita di competitività del sistema economico britannico, che è cominciata con la crisi finanziaria del 2008-9 e si è concretizzata con il progressivo impoverimento e la perdita del potere d’acquisto da parte dei lavoratori. E poi la Brexit, che (almeno fino ad oggi) non ha portato quei benefici attesi in termini di maggiore dinamismo dell’economia e libertà di movimento sullo scenario globale. Al contrario, l’uscita dall’UE potrebbe portare a una maggiore chiusura dell’economia (con una contrazione del commercio estero attesa nel medio periodo al 15%), comprimendo ulteriormente verso il basso i salari e la produttività (fino al 4%) anche a causa di una legge sull’immigrazione particolarmente rigida che ha già causato non pochi problemi all’efficienza di settori come logistica e grande distribuzione. La situazione attuale si deve dunque soprattutto a scelte cruciali compiute negli anni scorsi e che stanno cominciando a presentare il conto. Il governo di Sunak non ha perso tempo da quando si è insediato, ma le misure annunciate fino ad ora saranno sufficienti ad affrontare queste problematiche di lungo corso?

 

Legge di bilancio: un totale “U-turn”

Se il mini-budget di Liz Truss era incentrato su “acrobatici” tagli senza coperture alle tasse quasi esclusivamente a vantaggio dei più ricchi, nella fiducia fin troppo ottimistica che si verificasse un processo di trickle down in grado di ridare slancio all’intero sistema economico, Rishi Sunak non ha soltanto tirato il freno a mano per placare la tensione sui mercati finanziari ma ha fatto una vera e propria inversione di marcia. La nuova legge di bilancio sarà infatti caratterizzata da “lacrime e sangue” che prevedono un aumento della pressione fiscale di pari passo a tagli alla spesa pubblica: misure che nel breve periodo non potranno che avere effetti recessivi ma che, nelle prudenti intenzioni del premier, dovrebbero riassestare i conti pubblici del Regno Unito (il cui debito pubblico viaggia ormai in maniera preoccupante verso il 100% del Pil).

I provvedimenti presentati da Hunt il 17 novembre scorso per il prossimo quinquennio prevedono infatti più tasse e meno spesa pubblica per 55 miliardi di sterline. In pratica, si è passati nel giro di un mese dal maggior taglio di tasse degli ultimi cinquant’anni al maggior aumento di tasse dai tempi dell’austerità del governo Cameron. Il tutto con il rischio che misure così drastiche non sortiscano effetti tangibili, dato che una riduzione del rapporto debito/Pil è attesa non prima del 2027-28. Se non altro, lo spread dei titoli di Stato britannici (gilts) rispetto al benchmark tedesco è tornato a livelli consueti (poco sopra i 100 punti base) dopo aver sfondato il tetto dei 200 bp costringendo Truss alle dimissioni. Il rischio più grande è dunque quello di andare incontro a un periodo di stagflazione, caratterizzato da una crescita del Pil molto bassa e da un’elevata inflazione che potrebbe durare ancora a lungo proprio a causa di Brexit e dell’uscita dal Mercato Unico europeo.

 

Uno sguardo al futuro: che fare con l’UE?

Le difficoltà economiche attraversate dal Regno Unito hanno fatto riaprire recentemente un dibattito sull’evoluzione dei rapporti con l’UE. Innanzitutto, a prescindere da eventuali revisioni (che comunque allo stato attuale non sono in agenda) del Trade and Cooperation Agreement (TCA), ovvero l’accordo di libero scambio che regola attualmente le relazioni tra i due soggetti, va ricordato che tale accordo è ancora incompleto, dal momento che disciplina solamente gli scambi di beni mentre manca il capitolo dei servizi, decisamente non di poco conto per un’economia fortemente terziarizzata come quella britannica.

Nei giorni scorsi si è suggerito di fare evolvere i rapporti bilaterali nella scia di quelli che regolano l’UE con la Svizzera: si tratterebbe in pratica di negoziare accordi sulle singole questioni in maniera incrementale, prevedendo un allentamento delle regole sull’immigrazione dato che il Paese elvetico fa parte dell’area Schengen. Ma l’ipotesi di un “modello svizzero” è stata categoricamente respinta dall’ala più oltranzista dei Tories, costringendo anche Sunak a chiarire pubblicamente di non intendere fare marcia indietro rispetto alla Brexit. Nel discorso rivolto ai membri della CBI (la Confindustria britannica), il Primo ministro ha ribadito la propria convinzione nel fatto che l’uscita dall’UE renderà Londra più competitiva a livello globale in tema di innovazione e servizi finanziari, rendendo il Paese ancora più adatto ad attrarre investimenti esteri. Parole che però non hanno convinto del tutto gli imprenditori, che chiedono una politica più morbida sui visti per l’immigrazione di forza lavoro.

Nel frattempo, resta ancora da trovare una soluzione alla questione nordirlandese, rispetto alla quale Sunak ha però mostrato un approccio più cauto e aperto al dialogo con Bruxelles, e alle rivendicazioni di autonomia scozzese: la Corte Suprema britannica ha da poco negato la possibilità che si tenga un altro referendum per la secessione, ma lo Scottish National Party (che controlla il governo locale ed è fortemente filo-europeista) è disposto a dare battaglia.

 

Meglio un uovo oggi che una gallina domani?

È dunque molto probabile che le prime misure fiscali decise da Sunak e Hunt centreranno l’obiettivo di breve periodo di salvare la tenuta dei conti pubblici britannici, scongiurando nuovi attacchi speculativi e allontanando lo spettro di un tracollo finanziario. Ma il Regno Unito sembra condannato ad alcuni anni di crescita debole, se non saprà uscire dall’attuale limbo provocato da Brexit e riconoscere i grandi vantaggi economici derivanti dall’appartenenza al Mercato Unico. Questa presa di consapevolezza non potrà però avvenire prima che si ricomponga il panorama politico locale: Sunak deve infatti fare i conti con un Partito Conservatore fortemente diviso al proprio interno e frustrato dalle numerose spaccature succedutesi negli ultimi mesi. Per il premier, dunque, lo scopo principale è quello di portare la nave fuori dalla tempesta. Ma occorrerà poi trovare una nuova rotta per riuscire a restituire a Londra il ruolo di grande potenza economica e geopolitica.

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