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Focus Mediterraneo allargato n.19

L’Arabia Saudita in navigazione tra riforme e crisi

Eleonora Ardemagni
|
03 giugno 2022

Per l’Arabia Saudita, la crisi internazionale seguita all’invasione russa dell’Ucraina offre opportunità e rischi. Sul fronte economico, la risalita del prezzo del petrolio sostiene la diversificazione post-idrocarburi del regno, fra nuovi progetti urbanistici e industria nazionale della difesa. Il piano diplomatico è invece denso di rischi: nessun ridimensionamento, finora, delle alleanze “multipolari”, anche a costo di logorare quelle tradizionali. Nonostante l’aggressione all’Ucraina, Riyadh non ha infatti chiuso la porta alla Russia, mentre si rafforza  – anche sul piano militare – la partnership con la Cina. Invece, i rapporti con gli Stati Uniti sono assai tesi, innanzitutto sull’aumento della produzione petrolifera, ma anche su quell’ipotetico patto di difesa che l’Arabia Saudita persegue (come già nel 2015) per compensare il ritorno, possibile, dell’accordo sul nucleare con l’Iran. Tuttavia, gli incontri ad alto livello fra statunitensi e sauditi sono in crescita, segno che una conversazione sul rilancio della cooperazione bilaterale potrebbe già essere in corso. Intanto, Riyadh prosegue la de-escalation regionale (con Turchia, Libano, Yemen) e torna a puntellare le finanze dell’Egitto. Sul piano interno, Mohammed bin Salman (MbS) prova a riscrivere il mito fondativo dello stato saudita, mediante l’istituzione di una nuova festa nazionale. Depotenziandone il carattere religioso, dunque wahhabita.

 

Quadro interno

Il ritorno del prezzo del petrolio sopra i 100 dollari al barile è sicuramente un’ottima notizia per l’Arabia Saudita. Infatti, Riyadh necessita di una rendita alta e costante – specialmente in un contesto di crisi e incertezza internazionale – per sostenere il percorso di diversificazione economica post-idrocarburi, sintetizzato nella “Vision 2030”. Una congiuntura segnata da “inflazione-guerra-approvvigionamento energetico” che permette a Riyadh, ancor di più, di poter incidere nelle scelte energetiche ed economiche globali facendo leva, proprio, sul barile di greggio. In questo contesto, brillano i conti di Saudi Aramco. I profitti della compagnia petrolifera statale sono aumentati dell’82% nel primo trimestre 2022, rispetto allo stesso periodo 2021: l’utile netto è passato da 21 miliardi di dollari a 39 miliardi. Superando la società americana Apple, Saudi Aramco è appena diventata l’azienda a maggiore capitalizzazione nel mondo[1]. Il regno ha poi trasferito il 4% delle quote di Saudi Aramco (ovvero 80 miliardi di dollari) al Fondo d’investimento pubblico saudita (Pif) per potenziare gli asset del fondo sovrano. Inoltre, Saudi Aramco ha firmato 50 accordi preliminari con compagnie locali e internazionali per reindirizzare la spesa sull’economia locale, soprattutto nel settore manifatturiero. L’energia è protagonista anche dei progetti economici che intersecano politica interna ed estera, diventando un vettore di cooperazione tra vicini regionali. Per esempio, Arabia Saudita e Kuwait hanno firmato (21 marzo) un accordo per lo sviluppo del giacimento di gas off-shore di Dorra. La produzione sarà divisa fra i due paesi e consentirà di soddisfare la crescente domanda interna di gas di entrambi. Nell’ambito del Saudi-Iraqi Forum, Arabia Saudita e Iraq hanno siglato un accordo per la connessione delle reti elettriche (25 gennaio); un’intesa che permetterà a Baghdad di mitigare i cronici blackout energetici estivi, spesso fonti di protesta sociale (in particolare nel sud).

La trasformazione economico-sociale delineata da “Vision 2030” necessita di investimenti stranieri e capitale umano. Per esempio, il ministero degli Investimenti saudita e Amazon hanno firmato un accordo preliminare per lo sviluppo dell’e-commerce nel regno. In più, i professionisti altamente specializzati (settore legale, medico, scientifico, culturale, sport, tecnico) potranno, anche nel regno, ottenere la cittadinanza saudita, analogamente ai recenti provvedimenti introdotti negli Emirati Arabi Uniti (Eau). La diversificazione post-oil è anche caratterizzata da progetti urbani innovativi, fortemente spendibili sul piano mediatico e turistico. La novità è il lancio di Trojena, progetto per il turismo di montagna nel cuore di Neom, la città del futuro saudita ancora in costruzione nel nord-ovest del regno. Trojena, il cui completamento è previsto nel 2026, offrirà resort e sport di montagna in un’ottica di ecoturismo[2].

Lo sviluppo dell’industria nazionale della difesa è, al contempo, uno strumento di diversificazione economica nonché delle alleanze internazionali. E le fiere del settore, sempre di più e in competizione fra capitali del Golfo, ne sono la vetrina, tra business, networking e prestigio nazionale[3]. Il 6-9 marzo 2022 si è svolta, a Riyadh, la prima edizione del World Defense Show: un appuntamento biennale, annunciato nel 2020 dalla Saudi Arabia’s General Authority for Military Industries (Gami). La fiera ha ospitato 600 espositori da 42 paesi, a testimonianza della rete di relazioni, anche in tema di defense procurement, intrecciata dai sauditi. Durante il World Defense Show, i sauditi hanno annunciato contratti con compagnie francesi, sudcoreane e cinesi. Secondo l’agenzia di stampa nazionale saudita, il 46% dei fondi nazionali destinati ai contratti di difesa sono andati, però, a compagnie saudite[4]. D’altronde, tra gli altri, l’ambiziosissimo e improbabile obiettivo di “Vision 2030” è localizzare in territorio saudita il 50% della spesa di difesa. Tra i nuovi traguardi da raggiungere: il primo drone da produrre interamente in Arabia Saudita. 

La transizione post-oil è parte di un processo più ampio di ridefinizione del rapporto fra stato e società, nonché della stessa identità nazionale saudita. Un processo funzionale, inoltre, al consolidamento della leadership di Mohammed bin Salman. In tale contesto, l’introduzione di una nuova festività nazionale dà il senso della direzione culturale che il principe ereditario ha da tempo intrapreso: la graduale de-wahhabizzazione dello spazio politico-identitario saudita. Nel gennaio 2022 Riyadh ha infatti istituito, via decreto reale, “il Giorno della Fondazione”, per festeggiare ogni 22 febbraio la nascita del primo regno saudita. La data scelta, tuttavia, non rimanda al 1744, il celebre anno del patto religioso-politico fra Mohammad Ibn Saud (il capostipite della dinastia saudita) e Mohammad Ibn ‘Abd Al-Wahhab (il teologo del wahhabismo, l’interpretazione più rigida e conservatrice dell’Islam sunnita ancora oggi professata in Arabia Saudita). La nuova festività si riferisce al 1727, l’anno in cui Ibn Saud assunse il potere e fondò il primo stato saudita nella città di Diriyya[5]. Da un punto di vista comunicativo-culturale, il messaggio implicito è potente: lo stato dell’Arabia Saudita preesisteva all’incontro con il wahhabismo, pertanto la dinastia reale è il vero collante dello stato, non l’élite religiosa. Una ridefinizione politicamente utile del mito fondativo, anche nel rapporto interconfessionale (sunniti e sciiti) e tra diverse fedi religiose. Non a caso, la nuova festività è accompagnata da un logo, privo di riferimenti religiosi, con lo slogan unitario “Il giorno in cui cominciammo”. In una recente intervista, Mohammed bin Salman ha dichiarato che “Ibn ‘Abd al-Wahhab non è l’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita ha sunnismo e sciismo”, che a loro volta sono divisi in differenti scuole e “oggi, nessuno può forzare una di queste scuole per farne il solo modo di vedere la religione in Arabia Saudita”[6]. In tema di diritti umani, dopo il rilascio del noto attivista e blogger Raif Badawi (11 marzo), 81 persone sono state giustiziate nel regno il 13 marzo (73 cittadini sauditi, sette yemeniti e un siriano). Nell’intero anno 2021 le esecuzioni erano state 69.

 

Quadro esterno

Dopo l’attacco di Vladimir Putin all’Ucraina, l’Arabia Saudita ha tardato il più possibile nel prendere una posizione ufficiale, come peraltro il resto del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg). Da allora, il regno saudita cerca di rimanere equidistante e, soprattutto, di non prendere le distanze da Mosca. Il 3 marzo 2022, il principe ereditario e ministro della Difesa Mohammed bin Salman Al Saud ha intrattenuto i primi colloqui telefonici con Putin e con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Nei comunicati stampa Mohammed bin Salman si è dichiarato “pronto a sforzi di mediazione con tutte le parti”, senza utilizzare termini come “attacco”, “aggressione” o “invasione”[7]. Tuttavia, all’Assemblea Generale dell’Onu del 2 marzo, anche l’Arabia Saudita (come gli altri paesi del Ccg) ha votato a favore di una risoluzione non-vincolante ma molto simbolica. Il testo, seppur più sfumato di quello precedentemente approvato in Consiglio di Sicurezza, “deplora nel modo più forte l’aggressione della Russia contro l’Ucraina” chiedendo il cessate-il-fuoco immediato nonché il ritiro completo e incondizionato di tutte le forze militari. Da una prospettiva geopolitica, c’è un dato significativo. Dall’inizio della crisi internazionale, il principe ereditario ha intrattenuto due telefonate con Putin (3 marzo e 16 aprile) e una con il presidente cinese Xi Jinping (15 aprile) per rafforzare la partnership strategica con Pechino: non vi è stato alcun colloquio al più alto livello con gli Stati Uniti (solo una telefonata fra ministri degli Esteri il 29 marzo). Tuttavia, dopo una fase di gelo, ci sono ora segnali di rinnovato dialogo fra Washington e Riyadh, come testimoniato dagli incontri ad alto livello, avvenuti fra aprile e maggio: il viaggio non annunciato del capo della CIA William Burns nel regno saudita (petrolio e Cina fra gli argomenti), nonché la visita di Khalid bin Salman al-Saud, vice ministro della difesa e fratello minore del principe ereditario, a Washington, in occasione della riunione della Joint Strategic Planning Committee fra i due paesi.

La postura politica dell’Arabia Saudita nella crisi internazionale seguita all’invasione russa dell’Ucraina è fortemente condizionata da due variabili: la differenziazione delle alleanze internazionali, perseguita dai sauditi nel quadro della diversificazione economica post-oil, nonché il peggioramento delle relazioni politiche con gli Stati Uniti, accentuatosi con la presidenza Biden. Economia e sicurezza orientano le scelte strategiche dei sauditi. Riyadh sta infatti consolidando la differenziazione delle alleanze internazionali (Cina, India, in misura minore Russia) per sostenere le politiche di diversificazione economica post-idrocarburi. I sauditi si muovono ormai con agio nel sistema internazionale multipolare, privilegiando l’interesse nazionale alle alleanze storiche. Inoltre, da un decennio, gli Stati Uniti non vengono più percepiti dal regno come gli affidabili fornitori esterni della sicurezza del Golfo. Infatti, la gestione delle rivolte arabe (2011), l’accordo sul nucleare con l’Iran (2015, oggi in fase di rinegoziazione), le critiche all’intervento militare in Yemen (dal 2015) e alla condizione dei diritti umani (vedi l’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi), l’inazione dopo l’attacco di matrice iraniana contro Saudi Aramco (2019) e la riduzione della presenza anti-missilistica americana nel regno hanno eroso il capitale di fiducia che l’Arabia Saudita nutriva verso la Casa Bianca, a prescindere dall’inquilino. Anche per questo, i ripetuti appelli di Biden ad Arabia Saudita ed Eau per l’aumento della produzione petrolifera sono fin qui caduti nel vuoto: Riyadh e Abu Dhabi hanno ribadito il rispetto delle quote negoziate in seno all’Opec Plus, quindi con la Russia. Due fatti potrebbero ora mitigare le tensioni Riyadh-Washington, mentre gli statunitensi ribadiscono verbalmente il loro impegno nella difesa delle monarchie del Golfo. Primo, la Casa Bianca ha annunciato la nomina del diplomatico di carriera Michael Ratney come nuovo ambasciatore in Arabia Saudita, colmando così una vacatio durata oltre un anno. Secondo, la creazione della nuova task force navale Combined Maritime Forces-153[8] (Mar Rosso, Bab el-Mandeb, Golfo of Aden), a guida Usa, potrebbe contribuire a migliorare le relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Stati Uniti, contrastando il contrabbando di armi (anche per gli houthi in Yemen), facendo così leva sulla sicurezza marittima. Variabile che incide su commercio ed energia, ovvero un obiettivo strategico condiviso[9].

Sul piano regionale, l’Arabia Saudita prosegue nella politica di de-escalation avviata nel 2021. Dopo la riconciliazione con il Qatar (gennaio 2021, Accordi di Al-Ula) e il riavvicinamento con la Turchia, i sauditi si preparano al possibile ritorno dell’accordo sul nucleare con l’Iran (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa), da cui gli Stati Uniti di Trump si ritirarono unilateralmente nel 2018. Anche stavolta, la preoccupazione principale dei sauditi è che il rilancio del Jcpoa, riportando Teheran sul mercato petrolifero internazionale, offra alla Repubblica Islamica più fondi per finanziare il suo programma missilistico nonché la costellazione regionale di gruppi armati a essa legati (Libano, Iraq, Siria, Yemen). Infatti, missili, droni e milizie rimangono, anche stavolta, al di fuori della possibile intesa. In una recente intervista, Mohammed bin Salman ha dichiarato che Riyadh non vuole un “accordo debole” con l’Iran anche se, ha poi aggiunto MbS, Arabia Saudita e Iran dovrebbero “coesistere”[10]. A proposito di de-escalation, Arabia Saudita e Iran hanno confermato, a fine marzo, un quinto round di colloqui diretti in Iraq: Riyadh e Teheran hanno interrotto le relazioni diplomatiche nel 2016. Ma c’è un segnale: tre diplomatici iraniani hanno fatto ritorno a Jedda, per riaprire l’ufficio di rappresentanza dell’Iran presso l’Organizzazione per la Cooperazione islamica, basata nel regno saudita.

Tuttavia, a differenza del 2015 – quando il Jcpoa fu introdotto – l’Arabia Saudita ha fatto passi avanti nella difesa strategica. I sauditi stanno sviluppando il proprio programma missilistico (puntando anche sullo sviluppo di capacità manifatturiere nazionali, con probabile assistenza della Cina[11]) e, di fronte agli attacchi frequenti degli houthi filo-Iran dallo Yemen, hanno “allenato”, migliorandola, la difesa anti-missilistica. Poi c’è il fattore alleanze. Anche se Riyadh non ha formalizzato relazioni diplomatiche con Israele, i sauditi coltivano rapporti informali con gli israeliani: di più, essi condividono la visione strategica degli Accordi di Abramo siglati nel 2020 da Israele con gli Eau e il Bahrein. Non va dimenticato che Israele è il paese di Iron Dome, il potente sistema di difesa anti-missili. Non è un caso che la telefonata fra il ministro degli Esteri saudita, il principe Faisal bin Farhan al-Saud e il segretario di stato americano Antony Blinken sia avvenuta il 29 marzo, ovvero il giorno dopo il Summit del Negev fra Stati Uniti, Israele, Eau, Bahrein, Egitto e Marocco. Seppur non fisicamente presenti, i sauditi sono parte della nascente architettura di sicurezza regionale; stavolta a “trazione endogena”, dopo decenni di “traino esogeno” degli Usa.

Per l’Arabia Saudita, Libano e Turchia sono tasselli, diversi ma ugualmente significativi, della politica di de-escalation mediorientale[12]. In Libano, prima delle elezioni parlamentari, i sauditi hanno deciso di re-inviare il loro ambasciatore, ritirato nel 2021 dopo una polemica sull’intervento militare in Yemen: anche gli ambasciatori di Kuwait e Yemen hanno fatto ritorno a Beirut (non ancora quelli di Eau e Bahrein). Arabia Saudita e Francia hanno poi annunciato la creazione di un fondo comune da 30 milioni di dollari per progetti umanitari in Libano, focalizzati su sicurezza alimentare e sanitaria. Il 28-29 aprile, il viaggio del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan in Arabia Saudita, con tappe a Jedda e Mecca, ha segnato un importante passo in avanti nei rapporti bilaterali dopo il “caso Khashoggi” (2018). Non a caso, per “preparare la visita”, il tribunale di Istanbul aveva bloccato, all’inizio di aprile, il processo in contumacia per i ventisei cittadini sauditi sospettati di coinvolgimento nell’uccisione nonché sparizione del corpo del giornalista Khashoggi, chiedendo il trasferimento del procedimento in Arabia Saudita. Erdoğan ha incontrato re Salman e suo figlio, il principe ereditario Mohammed bin Salman: se l’obiettivo primario del riavvicinamento è, per i turchi, l’economia, i sauditi hanno apprezzato il riferimento di Ankara alla sicurezza del Golfo. In precedenza, il presidente francese Emmanuel Macron e il premier britannico Boris Johnson erano stati i primi leader a rompere l’isolamento occidentale verso l’Arabia Saudita, compiendo viaggi di stato a Riyadh, rispettivamente, nel dicembre 2021 e marzo 2022. In un contesto regionale reso più instabile da inflazione e approvvigionamento di materie prime, anche alimentari, l’Arabia Saudita torna a sostenere massicciamente le finanze dell’Egitto. D’altronde, gli egiziani dipendono dall’import di grano russo e ucraino e temono nuove “proteste del pane”, strategicamente invise anche alle leadership del Golfo. Il regno ha depositato 5 miliardi di dollari presso la Banca centrale del Cairo; il Public Investment Fund (Pif) saudita ha inoltre promesso 10 miliardi di investimenti in sanità, educazione e agricoltura. Un “ritorno al passato” (l’ultimo aiuto finanziario saudita fu del 2016) che tornerà a condizionare la politica estera dell’Egitto. Rafforzando, dunque, l’influenza dell’Arabia Saudita tra Mar Rosso e Mediterraneo.

SOURCES:

[1] “Petrolio, il boom dei prezzi fa volare i profitti di Saudi Aramco: +82% a 39,5 miliardi di dollari”, la Repubblica, 15 maggio 2022.

[2] D. Dadlani, NEOM launches TROJENA, mountain tourism project, slated for 2026 completion, Construction Week Online, 4 marzo 2022.

[3] E. Ardemagni, Monarchie del Golfo: l’industria della difesa tra show e investimenti, ISPI Commentary, ISPI, 29 aprile 2019.

[4] “World Defense Show Concludes its Activities, Recording Deals and Contracts Worth SR 29.7 Billion in Its 1st Edition”, Saudi News Agency, 9 marzo 2022.

[5] Per approfondire, C. Pellegrino, L’Arabia Saudita divorzia dal wahhabismo, Fondazione Oasis, 17 febbraio 2022.

[6] G. Wood, “Inside the Palace with Mohammed bin Salman”, The Atlantic, 3 marzo 2022.

[7] “HRH Crown Prince Receives Phone Call from Russian President”, Saudi Press Agency, 3 marzo 2022.

[8] E. Ardemagni, The CMF-153: Rebuilding US-GCC confidence through maritime security, Middle East Institute, 11 maggio 2022.

[9] Per approfondire, si rimanda alla sezione “Yemen” di questo Focus. Sulle prospettive della partnership fra Stati Uniti e monarchie del Golfo, E. Ardemagni, After Ukraine, should the US relaunch its security partnership with the Gulf?, ISPI Analysis, ISPI, 6 aprile 2022.

[10] G. Wood (2022), cit.

[11] M. Fitzpatrick, Saudi Arabia’s ballistic-missile programme: an overview, International Institute for Strategic Studies, Blog Analysis, 27 agosto 2021;  Z. Cohen, “CNN Exclusive: US intel and satellite images show Saudi Arabia is now building its own ballistic missiles with help of China”, CNN, 23 dicembre 2021.

[12] Anche in Yemen i sauditi stanno promuovendo una fase di de-escalation: sostegno alla tregua nazionale fra le parti e impulso al negoziato politico. Si rimanda alla sezione “Yemen” di questo Focus.

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AUTORI

Eleonora Ardemagni
Università Cattolica del Sacro Cuore e ISPI

Image credits: Senior Master Sgt. Adrian Cadiz (CC BY 2.0)

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