Shinzo Abe, uno dei grandi riformatori del Giappone contemporaneo, è morto oggi dopo un attentato mentre si trovava nella prefettura di Nara per un comizio elettorale in vista del voto di domenica, in cui si eleggeranno i rappresentanti della camera alta. Abe, dimessosi dal ruolo di primo ministro nel settembre del 2020 per una grave complicazione medica, era rimasto una delle figure politiche più influenti del paese. La sua scomparsa dalla politica giapponese lascia un vuoto che difficilmente potrà essere colmato nel breve termine.
Nella tarda mattinata di venerdì, Yamagami Tetsuya ha sparato due colpi ferendo mortalmente l’ex primo ministro che dopo qualche ora è deceduto. Yamagami è stato arruolato per tre anni nella marina del Giappone. Nelle ultime ore si sono susseguite notizie confuse e contraddittorie sulle intenzioni di Yamagami: all’inzio, sembrava che nelle prime dichiarazioni l’attentatore fosse mosso dal risentimento per le politiche dell’ex primo ministro, ma poi sono stati riportati commenti di segno opposto. Sul movente per il momento è difficile pronunciarsi.
Rimane però un fatto incontrovertibile che Abe fosse un politico estremamente divisivo nella politica del Giappone. Non solo lui e le sue proposte politiche, ma anche ciò che rappresentava. Abe appartiene a una dinastia politica molto importante: suo nonno Kishi Nobusuke è stato un funzionario di alto rilievo del Mancikuo, lo stato fantoccio creato dall’esercito imperiale nel nord della Cina durante la Seconda guerra mondiale. Per quell’esperienza, era stato incarcerato durante l’occupazione alleata dell’arcipelago come sospetto criminale di guerra prima di riconvertirsi alla collaborazione con gli Stati Uniti e diventare primo ministro a fine anni ’50. Abe ha raccontato più volte dell’importanza che ebbe il nonno nella sua formazione come politico.
Con le sue proposte di revisione della costituzione pacifista, con la riforma della legislazione sulla difesa che estende i limiti per l’uso delle forze armate, e con la sua insistenza sul raddoppio delle spese militari, Abe negli anni si è attirato più volte l’etichetta di falco. A spaventare molti cittadini giapponesi non erano solo le sue proposte, ma soprattutto la cornice ideologica nel quale queste venivano effettuate. Agli occhi di una parte della popolazione ciò che Abe incarnava era una riscoperta del militarismo, delle ambizioni imperiali e conservatrici del Giappone. Appena lo scorso marzo, dopo l’invasione dell’Ucraina, Abe aveva anche suggerito che il Giappone considerasse di permettere agli Stati Uniti di introdurre armamenti nucleari sul proprio territorio.
L’ex primo ministro era ovviamente molto più di tutto ciò, ma la percezione in politica conta. Non è un caso che nonostante il suo impegno ferreo coi circoli politici della destra giapponese, Abe non sia mai riuscito a far passare la propria riforma della costituzione: una delle cause di questo fallimento è stata proprio l’inquietudine che la proposta suscitava nella popolazione.
Oltre all’approvazione da parte dei due terzi di entrambe le camere parlamentari, per essere emendata la costituzione giapponese deve anche essere sottoposta a referendum popolare. Per la gran parte del proprio mandato, sulla carta Abe avrebbe anche avuto i numeri parlamentari, ma l’insicurezza dell’esito referendario è sempre stata un forte freno rispetto all’ambizione dell’ex primo ministro. La riforma costituzionale, che è stata una delle bandiere politiche di Abe, rimane nell’alveo del suo Partito Liberaldemocratico (LDP). Kishida non è un entusiasta sostenitore della riforma ell’art.9, quello che stabilisce che il Giappone rinuncia per sempre al diritto alla belligeranza e al mantenimento di potenziale militare da guerra. Infatti, durante la campagna elettorale attualmente in corso, ha evitato di parlare della questione.
La morte di Abe però cambia tutto. Sebbene personalmente meno legato al fronte della revisione costituzionale Kishida rimane pur sempre il capo dell’LDP, il partito di governo che Abe ha guidato per tanti anni e la cui posizione sulla questione è che la costituzione vada emendata. La scomparsa dell’ex leader rafforzerà l’impegno del partito in questo senso, consolidando un’eredità politica incompiuta che dal punto di vista della narrazione pubblica è diventata potentissima dopo l’assassinio di Abe. Inoltre, il buon risultato elettorale atteso dopo il voto di domenica potrebbe ulteriormente spingere la politica giapponese in questa direzione.
Kishida non è Abe, né mai ha desiderato impersonarlo. Anche se rivali all’interno dello stesso partito, il rapporto tra i due era stretto. Abe ha lasciato un enorme spazio vuoto nella politica del Giappone, come verrà riempito non lo sa ancora nessuno. Kishida non potrà mai essere la guida della destra conservatrice ma allo stesso tempo all’orizzonte non c’è alcun esponente capace di poter prendere il posto dell’ex primo ministro. L’avvenire politico del Giappone in queste ore è più incerto che mai e il ritorno della violenza politica è un fenomeno che, sebben già osservato in altri contesti, addensa nubi scure sul futuro del paese.