Lo scoppio della guerra in Mali, l’11 gennaio scorso, ha portato l’attenzione mondiale su un fenomeno fino ad ora in parte sottovalutato: la radicalizzazione del sentimento religioso di una fetta ancora fortemente minoritaria ma crescente di musulmani dell’Africa occidentale.
Da almeno una decina d’anni l’islam africano, tradizionalmente tollerante, moderato e inclusivo, presenta soprattutto nella regione sahelo-sahariana una nervatura fondamentalista crescente: un bacino fertile per il reclutamento di nuovi mujaiddin da parte dei gruppi jihadisti che negli ultimi anni operano nella zona. Nelle recenti analisi del fenomeno – pubblicate da diversi centri di studio sul terrorismo globale – si mette spesso in luce la direttrice nord-sud, cioè la discesa verso l’Africa occidentale di gruppi d’integralisti islamici nordafricani che, alla ricerca di nuovi territori di conquista (di cui le sabbie del nord del Mali costituiscono la roccaforte), esportano la dottrina del neo-salafismo e issando sui kalashnikov la bandiera nera del jihad. In sostanza arabi nordafricani che emigrano al sud e attraversano il grande Sahara seguendo le antiche rotte dell’arabizzazione del VII secolo.
Oltre a questo aspetto ne esiste in realtà un altro meno conosciuto e indagato ma altrettanto importante che segue la direttrice opposta, quella sud-nord. Una fetta crescente di popolazioni nere africane che, influenzate da nuovi imam-predicatori che operano in moschee di paesi come il Senegal, la Nigeria e la Costa d’Avorio, si spostano verso nord per incontrare i fratelli arabi e dar manforte alla guerra santa per ristabilire il “vero islam” nella regione. Da quando gruppi armati quali Aqmi (al-Qaida au Maghreb islamique), Mujao (Mouvement pour l'unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest) e Ansar al-Din (i “difensori della religione”) si sono insediati nel Nord del Mali occupando con le armi quasi due terzi del paese e imponendo un’anacronistica versione della sha’ria, questo fenomeno ha raggiunto proporzioni sempre più preoccupanti.
Dal punto di vista dottrinale in Africa occidentale l’islam più diffuso rimane ancora il sufismo, corrente intimistica, moderata e spirituale, mentre la mahadab (scuola del sunnismo) più seguita è quella malikita, ossia la dottrina che segue i dettami di Malik ibn Anas (m. 796), una delle interpretazioni più sincretiche, tolleranti e inclusive nei confronti di riti e tradizioni pre-islamici ancora molto presenti nel sentimento religioso della maggioranza dei fedeli africani. Negli ultimi anni, però, si registra nella regione un aumento considerevole degli adepti alla wahabiya e al neo-salafismo, correnti conservatrici dalle sfumature divergenti. Sintetizzando, il wahabismo è una versione dell’islam politico e reazionario al servizio dello stato (è religione di stato in Arabia Saudita) mentre il neo-salafismo è un’interpretazione altrettanto oltranzista ma che non ammette la partecipazione diretta alla politica, mettendone anzi in discussione la legittimità. Nono-stante la distinzione sia teoricamente corretta, nella pratica alcune fasce estreme del wahabismo radicale si stanno avvicinando pericolosamente a posizioni neo-salafite, giustificandone e in alcuni casi appoggiandone apertamente la guerra santa come unico mezzo di proselitismo e correzione dei “cattivi musulmani”. Rilevante, oltre alla scelta personale di alcuni fedeli, è il peso politico che tali gruppi stanno assumendo nei vari stati, sfruttando fondi messi a disposizione dal Qatar e dall’Arabia Saudita e forti capacità d’infiltrazione nella vita pubblica e politica(1).
Diversi fattori hanno contribuito alla propagazione del wahabismo e del neo-salafismo nella regione(2). Uno dei più importanti, insieme alla proliferazione di nuove moschee e scuole coraniche in ogni angolo dell’Africa occidentale (finanziate e gestite da Ong islamiche che utilizzano oscuri fondi qatarini e sauditi), è la massiccia circolazione di audiocassette e mp3 di sermoni in arabo, francese, inglese e lingue veicolari regionali, come il wolof e il bambara. In queste prediche dai toni infuocati che affollano i mercati delle capitali regionali e i telefonini di molti giovani, imam-predicatori radicali formati e legittimati agli occhi dei fedeli da corsi di specializzazione in Medio Oriente e Nord Africa (soprattutto ad Al Azhar, l’università cairota considerata il centro di studio sunnita per antonomasia, e in scuole coraniche della Penisola arabica) dipingono l’Occidente come Satana, il jihad, la sh’aria e un’interpretazione oscurantista dell’islam come uniche difese al neo-colonialismo occidentale dilagante. Gli strati delle popolazioni africane più attratti da tali discorsi sono, ovviamente, quelli popolari, affiancati da una parte consistente di gioventù urbana vittima dell’endemica mancanza di prospettive lavorative e speranza nel futuro. Questo il bacino di reclutamento a cui attingono a piene mani i gruppi narco-jihadisti del Nord del Mali che, se nella leadership esibiscono una quasi totale rappresentanza nordafricana (algerini soprattutto, ma anche mauritani, tunisini, marocchini ed egiziani), nella base sono formati da bassa manovalanza africana, soprattutto giovani e giovanissimi. Oltre al fattore ideologico, altra grande attrattiva è rappresentata dalla possibilità di facili guadagni che spinge alcune famiglie addirittura a vendere i propri figli ai gruppi ribelli che vantano ingenti disponibilità per via dei riscatti dei sequestri di occidentali e da traffici illeciti di varia natura. È così che il Nord del Mali e l’intera regione si è trasformata nell’ultimo decennio nel fronte più avanzato della lotta dottrinale intestina fra islam moderato (sufismo) e radicale (wahabismo e neo-salafismo jihadista)(3) , in cui un ruolo centrale viene giocato dalla costola regionale della Dawa (in arabo “predicazione”) o Jamaa Tablighi, una setta ambigua presente in tutto il mondo che qui recentemente sta registrando un importante incremento di adepti(4) .
L’Africa occidentale e in particolare il Nord del Mali è sempre più un hub, uno snodo centrale del jihadismo globale in cui confluiscono elementi regionali (oltre a quanto appena descritto anche Boko Haram nigeriani), continentali (ad esempio. gli Shabaab somali) e internazionali (mujaiddin afghani e pakistani). L’intervento militare francese e la conseguente missione di peacekeeping dell’Onu in Mali (la Minusma, che da fine giugno sta dispiegato nel Nord del paese circa 10 mila caschi blu) rischiano di radicalizzare ulteriormente tale fenomeno, donando ai gruppi ribelli una ragione in più per giustificare agli occhi di schiere di nuovi adepti la propria folle guerra santa.