L’arretramento strategico degli Stati Uniti in Medio Oriente, sommato allo sdoganamento dell’Iran tramite l’accordo sul nucleare, ha creato grande nervosismo in Arabia Saudita. Fondamentalmente è consolidata, nella psiche saudita, la convinzione che solo la protezione di una forte potenza esterna possa fungere da reale deterrente per le mire espansionistiche dell’Iran. è questa convinzione a spiegare perché Riyadh si sia adattata allo sgretolamento del predominio americano in Medio Oriente tentando di approfittare della visione semplicistica e mercantilistica della politica estera da parte dell’amministrazione di Donald Trump, abbracciando il conseguente multipolarismo. Il Principe della Corona Mohammad bin Salman, di fatto leader del Regno, punta su un avvicinamento tattico alla Russia di Vladimir Putin offrendo non solo il riconoscimento del suo status di nuova potenza mediorientale, ma una fondamentale cooperazione nel mercato energetico, fonte primaria di introiti per Mosca. Riyadh tenta inoltre, finora invano, di fare leva sul suo ruolo di partner economico-energetico per vincere il sostegno politico di Cina, India e paesi europei sui singoli dossier.
Un ruolo fondamentale, in questa fase di tensione geopolitica, lo hanno svolto le condizioni regionali. Anche per gli standard mediorientali, la congiuntura verificatasi dall’inizio delle rivolte del 2011 ha creato uno scenario potenzialmente cataclismico per i leader reazionari d’Arabia. Nella Tunisia, nell’Egitto e nella Libia post-rivoluzionari l’asse Qatar-Turchia si è fieramente contrapposto, a tratti con successi insperati, ai tentativi di estensione dell’influenza politica saudita. In Siria, l’opportunità apertasi per Riyadh di indebolire il regime alleato dell’Iran, si è trasformata in un pantano militare in cui la Guardia Rivoluzionaria di Teheran ha esteso il suo peso politico e militare nel paese a un livello senza precedenti. In Yemen, proprio nel 2015, i ribelli Houthi, che per i sauditi sono sostenuti dall’Iran, hanno allargato il loro controllo territoriale dalla regione settentrionale di Saada alla capitale Sana’a e alla città portuale di Aden. Le vicende yemenite in particolare hanno rafforzato un senso di accerchiamento geografico da parte iraniana.
Dal punto di vista saudita quello che sta succedendo sembra essere parte di un progetto della Guardia Rivoluzionaria e della Guida Suprema, considerati i veri decisori della politica regionale iraniana, che inizia nei primi anni 2000 in Iraq. Quando partiti prevalentemente sciiti, fortemente legati a Teheran, riempirono un vacuum politico lasciato dallo smantellamento per mano statunitense delle istituzioni statali dell’era di Saddam Hussein. E poi quando, tramite Hezbollah, l’Iran ha potuto favorire la decisa ascesa di un gruppo armato non-statale a esso leale in Libano. Per i sauditi, lo Yemen riunisce il peggio delle due storie: istituzioni statali smantellate e un gruppo armato legato a Teheran in grado di prendere il controllo di un paese confinante e profondamente interconnesso al Regno. Per questo lo Yemen è la priorità assoluta, e un serio compromesso con gli Houthi è strategicamente equiparato a una sconfitta. Nonostante tutte le battute d’arresto, le enormi criticità di una guerra dispendiosa e logorante, in Yemen la leadership saudita sente di giocare una partita potenzialmente esistenziale.
Una logica simile a quella yemenita può essere utilizzata per spiegare perché i sauditi abbiano consistentemente rifiutato l’idea, spinta soprattutto dall’Unione Europea, di un dialogo regionale con l’Iran. Per loro significherebbe sedersi al tavolo del dialogo con una forza rapace, e da una posizione di nettissimo svantaggio. Riyadh ritiene prioritario tentare di ribilanciare l’equilibrio geopolitico, limitando al minimo l’influenza iraniana in tutti gli stati etnicamente arabi. Mentre, come accennato, i sauditi non sono intenzionati a sacrificare la propria presa sullo Yemen, Riyadh è oggi più disposta, per puro realismo, ad accettare ampi compromessi in Siria, da pagare in dazio a Mosca, o a rassegnarsi al quadro politico libanese, dopo aver inutilmente tentato di isolare Hezbollah forzando il premier sunnita Saad Hariri a rassegnare le sue temporanee dimissioni.
Altrove, l’ambizioso giovane Principe della Corona è invece deciso a persistere, grazie soprattutto alla cruciale alleanza con un altro ambizioso Principe della Corona, Mohammad bin Zayed degli Emirati Arabi Uniti. I due sono considerati la forza propulsiva dietro alla crescente assertività regionale di Riyadh e Abu Dhabi. La strategia di pressione del Qatar va vista dunque nell’ottica di soppiantare l’influenza di riyal-politik qatariota nella regione, allargando, nel lungo periodo, il fronte ostile all’Iran. Anche qualora Doha non accettasse di cedere alle richieste per sciogliere la crisi, per Abu Dhabi e Riyadh l’obiettivo resta minare la capacità di proiezione geopolitica qatariota e scoraggiare le ambizioni di altri piccoli o medi attori della regione. Egualmente temerario è il tentativo di rimodellare l’equilibrio politico in Iraq, il paese dove l’avanzamento iraniano ha avuto inizio, tramite un rinnovato sforzo di avvicinamento al partito di governo e, addirittura, a uno dei maggiori leader politici e religiosi sciiti, Muqtada al-Sadr.
Nonostante il contesto, resta arduo comprendere fino in fondo la visione saudita, se non tenendo conto delle vulnerabilità interne al Regno, che informano le percezioni di sicurezza della sua leadership. Di fatto, quando nel 2011 le comunità sciite in Bahrein e Arabia Saudita si sono unite all’ondata di proteste regionali per contestare il loro status di emarginazione, e la legittimità dei regimi al governo, al Palazzo di Riyadh il tempo è sembrato riavvolgersi ai primi anni Ottanta e a qualcuno è quasi sembrato di sentire, per radio, l’Ayatollah Khomeini incitare il popolo alla rivoluzione.