Prima ancora che la crisi tra Russia e Ucraina si trasformasse in guerra aperta, la Turchia si è a più riprese proposta come mediatore tra le parti, proprio in virtù dei buoni rapporti con entrambi i Paesi. Pur avendo condannato, anche in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’invasione della Russia e sostenuto la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, Ankara non ha aderito alle sanzioni economiche occidentali, come del resto non lo aveva fatto in occasione dell’occupazione russa della Crimea nel 2014.
Al di là del fatto che da quelle sanzioni alcuni comparti dell’export turco hanno tratto vantaggio, sopperendo a forniture europee soprattutto nel settore alimentare, uno strappo con la Russia è un’opzione che la Turchia, guardando anche alle difficoltà della sua economia, non può e non intende prendere in considerazione. Negli anni la complessa relazione con Mosca si è sviluppata su piani diversi con una crescente dimensione economica accanto alla più tradizionale cooperazione energetica. La Russia è il primo fornitore di gas della Turchia, coprendo il 33% del totale, il suo terzo partner commerciale (dopo Germania e Cina) con un interscambio del valore di 34,7 miliardi di dollari nel 2021 nonché il primo Paese per presenze turistiche nella penisola anatolica, assicurando il 19% del totale dei turisti nell’ultimo anno.
Comunanza di vedute tra Putin e Erdogan
Tuttavia, al di là della cooperazione energetica ed economica, nell’ultimo decennio ad accomunare Turchia e Russia ha contribuito anche una affinità di vedute tra le due leadership tanto sul piano politico quanto sull’evoluzione del sistema internazionale. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan condivide infatti con il suo omologo russo Vladimir Putin non solo una gestione autoritaria del potere, ancora più evidente in Turchia dopo l’introduzione del presidenzialismo nel 2018, ma anche l’idea di una transizione a un ordine mondiale multipolare come alternativa all’unipolarismo statunitense degli ultimi trent’anni. Nelle parole di Erdogan – sempre più il principale, se non unico, artefice della politica estera turca – il “mondo è più grande di cinque”, intendendo tra le altre cose proprio l’emergere di un sistema multipolare in cui le medie potenze come la Turchia assumono un ruolo più definito e autonomo nello scacchiere internazionale.
Sul piano ideologico, un certo risentimento nei confronti dell’Occidente ha inoltre fatto da collante alla ondivaga relazione tra Ankara e Mosca che, dopo una fase di frizioni e di sanzioni seguite all’abbattimento di un jet russo da parte turca nei cieli siriani a fine 2015, si è rafforzata in seguito al tentativo di colpo di stato ai danni del presidente turco nel luglio del 2016. In quell’occasione all’immediato sostegno di Putin non è corrisposto un altrettanto pronto supporto da parte degli Stati Uniti e dei Paesi europei.
Turchia più lontana dall’Occidente
La delusione nei confronti degli alleati occidentali – che si somma alle critiche verso quello che è stato considerato il “double standard” di Bruxelles nel processo di adesione della Turchia all’Unione europea, il sostegno statunitense alle forze curde nella lotta allo Stato islamico in Siria, la mancata estradizione di Fetullah Gulen, il predicatore islamico da decenni residente negli Stati Uniti e ritenuto responsabile del fallito golpe – ha spinto la Turchia verso una più stretta convergenza con la Russia, anche in un settore altamente sensibile come quello della difesa. Dal canto suo, Mosca ha avuto buon gioco nel cercare di attrarre Ankara nella propria sfera di influenza o quanto meno di sfilacciare le alleanze statunitensi, che nell’ambito della sicurezza e della difesa includono la Turchia in qualità di membro della NATO. Non sorprende dunque che l’acquisto del sistema di difesa missilistico S-400 dalla Russia nel 2017 abbia accresciuto le tensioni con Washington, preoccupata per le possibili interferenze russe con il sistema di difesa NATO. Ciò ha portato all’espulsione di Ankara dal programma di sviluppo degli F-35 e a sanzioni statunitensi al settore della difesa turco sulla base del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA) del 2017, che prevede misure restrittive nei confronti di tutti i Paesi che acquistano componenti di difesa dalla Russia.
Su questo sfondo, l’antiamericanismo è cresciuto in ampi strati della società turca e di pari passo si è ridotto il sostegno nei confronti dell’Alleanza Atlantica. D’altro canto, l’interrogativo su dove sta andando la Turchia è riecheggiato spesso negli ultimi anni al di là dell’Atlantico e a Bruxelles, dove i negoziati per l’adesione di Ankara all’Unione Europea sono bloccati da tempo. Senza dubbio il perseguimento di una autonomia strategica da parte della Turchia, accompagnato da una politica estera assertiva nel suo vicinato mediterraneo e mediorientale, è stato fonte di non pochi contrasti con gli alleati occidentali. Il cambio di amministrazione a Washington nel 2020 e il passaggio da un acquiescente Donald Trump a un più vocale Joe Biden, soprattutto in materia di rispetto dei diritti umani, ha aggiunto un ulteriore elemento di frizione con Ankara.
La questione degli Stretti
Tuttavia, tanto a Washington quanto nelle capitali europee la recente decisione turca di chiudere, in ottemperanza della Convenzione di Montreux del 1936, gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli alle navi da guerra e quindi anche alle navi russe che non hanno la loro base nel Mar Nero, è stata accolta con grande favore. Così come con favore vengono visti gli sforzi di mediazione tra Russia e Ucraina perseguiti dal presidente Erdogan. Sebbene l’incontro di Antalya del 10 marzo tra il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba non abbia portato a risultati concreti, il canale di mediazione che la Turchia mantiene al più alto livello è, insieme a quello israeliano, ad oggi l’unico aperto.
La posizione di Ankara è dettata da interessi geopolitici, energetici ed economici cui si sono aggiunte considerazioni di prestigio all’interno di una più ampia ricalibratura della sua posizione e delle sue relazioni sul piano regionale e internazionale nel corso dell’ultimo anno. Se da un lato la guerra in Ucraina ha aperto per la Turchia nuovi scenari di rischio sia sul piano economico sia su quello di sicurezza, soprattutto nella regione del Mar Nero dove uno sfaldamento territoriale dell’Ucraina farebbe venire meno quell’argine all’influenza dell’ingombrante vicino russo, dall’altra il difficile bilanciamento tra le due parti in guerra l’ha inaspettatamente posta al centro di una intensa attività diplomatica a livello internazionale. Da Putin a Biden, dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky al cancelliere tedesco Olaf Scholz sono numerosi i leader mondiali con cui Erdogan ha avuto contatti costanti nelle ultime settimane.
Dopo anni di isolamento e tensioni la Turchia sembra ritrovare un riconoscimento per la sua azione diplomatica e riguadagnare un certo prestigio. Tuttavia resta ancora da vedere quali frutti questa produrrà non soltanto tra le parti in conflitto, ma anche nella riconfigurazione dei legami con Stati Uniti ed Europa, da una parte, e Russia dall’altra. Nonostante l’apprezzamento per l’azione diplomatica di Ankara e il cambio di retorica, molti nodi rimangono da sciogliere nelle relazioni gli con alleati occidentali, mentre la compartimentalizzazione dei rapporti con la Russia potrebbe essere messa a dura prova.
I timori di Ankara
La cautela di Ankara nel non prendere una posizione netta in questo conflitto nasce anche da considerazioni di carattere geopolitico. Con lo sguardo rivolto ai principali teatri di crisi in cui è coinvolta, la Turchia vuole evitare di farsi mettere sotto scacco da Mosca. Soprattutto lì dove gli equilibri sono più precari, come in Siria. Qui uno dei timori maggiori da parte turca riguarda proprio l’eventualità che possa venire meno il fragile cessate-il-fuoco negoziato due anni fa con la Russia a Idlib, l’ultima roccaforte controllata dai gruppi di opposizione al regime di Bashar al-Assad, dove vivono oggi 4 milioni di siriani. Anche se in questa fase il focus politico e militare di Mosca è lontano dalla Siria, e una mossa a Idlib sembra improbabile, una nuova ondata di profughi siriani sul territorio turco è un rischio che il governo di Ankara non vuole correre, né sul piano economico né per l’impatto che avrebbe sui consensi, già in calo, nei confronti del partito di governo – il Partito giustizia e sviluppo da quasi vent’anni al potere – soprattutto in vista delle elezioni presidenziali e parlamentari del 2023.
Non da ultimo, la mancata adozione di sanzioni contro la Russia non mette l’economia turca al riparo dalle ricadute della guerra in Ucraina, i cui effetti si faranno sentire nel breve termine accelerando alcune tendenze già in atto, e dall’instabilità sui mercati internazionali dell’aumento dei prezzi delle commodities. L’immediato balzo del prezzo del petrolio, a livelli che non si vedevano dal 2014, farà inevitabilmente aumentare il deficit della bilancia commerciale del Paese che dipende quasi interamente dalle importazioni per soddisfare il proprio fabbisogno energetico. Anche l’aumento del prezzo del grano avrà un impatto non solo sul deficit di conto corrente ma anche sui prezzi al consumo di farina e derivati. Infatti, nonostante la Turchia produca circa la metà del grano che consuma, da Russia e Ucraina proviene il 78% delle sue importazioni.
Le prospettive dunque non sono rosee per un Paese in cui l’inflazione è aumentata esponenzialmente negli ultimi mesi, attestandosi al 54,44% a febbraio (il valore più alto degli ultimi vent’anni, era al 15,61% a febbraio 2021), e la cui moneta nell’ultimo anno ha perso il 44% del suo valore rispetto al dollaro. In particolare, un significativo rialzo dei prezzi al consumo si è registrato nei trasporti, +75,75%, e nei generi alimentari e bevande non alcoliche, +64,47%, andando a intaccare ulteriormente il potere d’acquisto di ampie fasce della popolazione turca. Va da sé che tutto ciò contribuirà ad accresce il malcontento per il deterioramento del quadro macroeconomico e degli standard di vita. Un malcontento che andrà a intaccare ulteriormente il consenso nei confronti della leadership turca. A meno che inattese svolte diplomatiche non facciano risalire l’indice di gradimento del presidente.