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Commentary

Le contraddizioni della democrazia turca

Valeria Talbot
16 gennaio 2014

L’inchiesta sulla corruzione che ha investito il governo turco e alte sfere economiche del paese a fine 2013 sta mettendo a dura prova l’immagine dal primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, la stabilità dell’esecutivo e la politica dell’Akp in un anno di importanti scadenze elettorali (amministrative a marzo e presidenziali ad agosto). L’Akp ha fatto della lotta alla corruzione uno dei suoi cavalli di battaglia e proprio la sua estraneità agli scandali che avevano travolto i precedenti esecutivi era stata la carta vincente nelle elezioni del 2002.

Dopo le proteste di Gezi Park, che hanno apertamente messo in discussione i metodi politici del primo ministro, considerati autoreferenziali e autoritari, è la seconda volta in meno di un anno che il governo si trova sotto attacco. Ma mentre la scorsa estate Erdoğan era riuscito, seppure con qualche difficoltà, a mantenere salda la propria leadership, a tenere in mano le fila del suo partito e a dimostrare di godere ancora di un ampio consenso all’interno del paese, questa volta la partita appare più complessa in quanto l’offensiva sembrerebbe partire dall’interno delle istituzioni, o almeno da una parte di esse.

L’inchiesta sulla corruzione – che ha coinvolto esponenti dell’Akp e della business community legati al partito di maggioranza portando alle dimissioni di quattro ministri alla fine di dicembre – è stata presentata come la controffensiva orchestrata dal movimento religioso di Fethullah Gülen nei confronti del governo in risposta alla decisione di quest’ultimo di chiudere le scuole preparatorie ai test universitari (buona parte delle quali sono per l’appunto gestite dai gulenisti, di cui costituiscono una importante fonte di finanziamento e reclutamento). Il movimento, alleato privilegiato dell’Akp nel ridimensionamento del ruolo dei militari nella vita politica turca e nelle vittorie elettorali nel corso dello scorso decennio, conta su una presenza significativa negli apparati di polizia e nella magistratura, nonché nel settore dei media e dell’educazione. Dopo disaccordi e attriti su diverse questioni, non da ultimo la dura reazione del governo Akp alle proteste di Gezi Park, la rottura si è consumata proprio con la decisione relativa alle scuole. L’appartenenza di molti sostenitori dell’Akp anche alla comunità di Gülen ha avuto le prime ricadute all’interno del partito, dove diverse figure di spicco hanno dato le dimissioni trovandosi in aperto dissenso con le posizioni della leadership. Si vedrà nei prossimi mesi quanto questa spaccatura influirà sul risultato delle elezioni amministrative di marzo, dove la partita più importante si gioca a Istanbul.

Il premier Erdoğan ha reagito duramente, parlando di complotto internazionale per indebolire la Turchia e dell’esistenza di uno “stato parallelo”, in cui il riferi-mento esplicito è alla presenza dei gulenisti nei diversi apparati dello stato. Centinaia di funzionari di polizia sono stati rimossi così come diversi magistrati, compreso il pubblico ministero a capo dell’inchiesta di corruzione Zekeriya Öz. Non da ultimo, l’Akp ha presentato un progetto di legge che di fatto estenderebbe il controllo dell’esecutivo sulle attività giudiziarie. Provvedimento che secondo gli esperti sarebbe però privo di fondamento costituzionale. 

Le posizioni dal governo mal si conciliano non solo con il principio di ripartizione dei poteri ma anche con l’avanzamento del processo democratico che è stato una delle principali realizzazioni dell’Akp nello scorso decennio pur subendo negli ultimi anni importanti rallentamenti e battute d’arresto. Come ha sottolineato l’Economist, l’attuale crisi politica non riguarda solo la battaglia tra Erdoğan e i gulenisti, ma ha risvolti ben più ampi e investe la solidità e maturità del sistema politico e delle istituzioni in Turchia, dove tra l’altro vige ancora la Costituzione del 1982 di forte stampo militare. Emergono inoltre le fragilità di una democrazia non ancora pienamente consolidata, o in progress, in cui la libertà di stampa e di espressione ha vincoli significativi – secondo un recente rapporto, la Turchia è insieme a Iran e Cina il paese al mondo in cui vi è il maggior numero di giornalisti in prigione – e la magistratura e la polizia non sono immuni da influenze esterne.

Dopo i significativi progressi del primo decennio degli anni Duemila, negli ultimi anni, in particolare con la vittoria elettorale del 2011 in cui l’Akp ha ottenuto il 50% dei consensi, è prevalso nel governo l’atteggiamento fondato sulla convinzione che il vincitore delle elezioni, forte del mandato popolare, “takes it all”, una sorta di “rule of majority”, poco attenta a opinioni divergenti e a ogni forma di dissenso.

I recenti sviluppi politici interni mettono anche in discussione la credibilità della Turchia come modello per i paesi arabi in transizione, idea che è stata in auge negli ultimi tre anni ma che aveva iniziato a offuscarsi per le prese di posizione del primo ministro turco nei confronti di alcuni critici dossier regionali e delle proteste di Gezi Park. Non da ultimo, la stabilità politica risulta cruciale per l’economia del paese fortemente dipendente dai capitali stranieri e quindi dalla fiducia degli investitori. All’indomani dello scandalo non sono mancate ripercussioni negative sulla lira turca e sull’indice di borsa.

Resta da vedere se e come la crisi in corso segnerà la carriera politica di Erdoğan e le sue ambizioni presidenziali. Non è un mistero infatti che il premier aspiri a divenire il primo presidente eletto della Turchia, non potendo tra l’altro correre per un quarto mandato alle politiche previste per il 2015. Sebbene l’Akp e il suo leader mantengano la loro popolarità, anche per l’assenza di un’opposizione in grado di presentarsi come valida alternativa, sembra che un ciclo di successo, tanto in politica interna che nella proiezione esterna e in economia, si sia concluso. Un cambia-mento di atteggiamento e riforme più incisive sarebbero necessari per innescare un nuovo processo, sia esso sotto la guida di Erdoğan o di una nuova leadership. In gioco non vi è solo il futuro politico di un leader e del suo partito ma anche il consolidamento delle istituzioni democratiche, chiave per il futuro della Turchia e della sua proiezione regionale e internazionale.

Valeria Talbot, ISPI Senior Research Fellow

 

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Turchia Elezioni Erdogan Gulen Corruzione crisi politica democrazia Hizmet AKP Medio Oriente
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