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Commentary
Le due dimensioni del conflitto in Sinai
27 ottobre 2014

I gravi attacchi terroristici che hanno colpito venerdì scorso le città di Al-Arish e Shaykh Zuwaid, nel Sinai settentrionale, causando trentuno vittime fra i militari egiziani, danno il senso della condizione di ordinaria emergenza che la penisola dell’Egitto vive da almeno tre anni. Ancora una volta, nel vuoto di sicurezza allargatosi con la caduta di Hosni Mubarak, i militari sono stati il bersaglio della violenza; d’altronde, l’esercito è storicamente identificato, dalle popolazioni beduine che abitano la penisola del Sinai, con lo stato egiziano, percepito come il nemico e l’oppressore. I beduini lamentano una discriminazione sistematica, sia socio-economica, sia politica, all’interno del paese: senza la complicità e l’appoggio di molte tribù locali, specie del centro-nord, i gruppi jihadisti ora attivi nella penisola egiziana non avrebbero potuto innestarsi nel tessuto sociale originario. Nella prospettiva di tanti capi clan – che pure hanno da tempo abbracciato il salafismo – l’alleanza con gli estremisti non è che una carta in più nella lotta, dalle retrovie della periferia, contro il centro politico cairota. Nella penisola ormai si sovrappongono, fino a mischiarsi, due dimensioni del conflitto: una interna, di natura egiziana, e una regionale. Non è dunque un caso che l’instabilità cronica del Sinai sia peggiorata a causa di alcuni fattori concomitanti, sia domestici, sia esterni. 

La rimozione del primo presidente eletto dell’Egitto, il Fratello musulmano Mohamed Morsi, avvenuta nel luglio 2013 e la successiva esclusione degli Ikhwan dalla vita pubblica, nonché la loro repressione per mano della magistratura e del nuovo presidente Abdel Fattah al-Sisi, sta provocando la radicalizzazione della scena politica egiziana. Sul piano regionale, l’autoproclamazione del sedicente Stato islamico (Is) fra Siria e Iraq ha dato nuovo slancio, anche ideologico, ai molti gruppi jihadisti già operanti in Sinai; nella fluida e confusa galassia del terrore, Ansar Bayt al-Maqdis, principale formazione armata della penisola, sembra ora oscillare fra l’orbita qaedista, cui sembrava ispirarsi, e Is. L’anarchia interna alla Libia, specie in Cirenaica, è l’altro fattore esterno che ha acuito l’instabilità del Sinai: Egitto e Libia, che condividono un confine desertico permeabile, sono due scenari altamente interdipendenti, dove la contrapposizione fra islamisti e forze della restaurazione è un tratto ricorrente. In agosto, l’aviazione degli Emirati Arabi Uniti ha effettuato bombardamenti contro alcune postazioni islamiste di Tripoli, utilizzando basi aeree in suolo egiziano; dal confine libico-egiziano partono sia miliziani sia armi alla volta del Sinai, nuova rotta transnazionale del jihad, come già la Siria e lo Yemen. Inoltre, la frammentazione politico-istituzionale e dunque l’assenza di un governo e di un esercito a Tripoli fanno sì che il territorio libico non sia più in grado di gestire la massiccia spinta migratoria proveniente dall’Africa subsahariana. 

Il Sinai, choke-point strategico sia per le infrastrutture energetiche, sia per il commercio marittimo, è così divenuto una terra di nessuno, punto di scarico e di propagazione delle variabili come l’erosione della sovranità statuale, il jihadismo e la violenza contro le minoranze religiose (qui i cristiani copti) che stanno emergendo, con preoccupante regolarità, nel sistema mediorientale ridisegnato dalle rivolte del 2011. Dato l’incrocio fra dinamiche interne e regionali, la penisola egiziana è ora un problema di sicurezza nazionale ed energetica non solo per il potere del Cairo, ma anche per gli stati vicini, come Israele e Giordania (rifornita del gas sinaitico dell’Arab Gas Pipeline). Il governo israeliano, che ha costruito un muro di protezione lungo il Negev, teme non solo la minaccia terrorista e i traffici illeciti, ma anche l’ingresso, via Sinai, dei tanti immigrati che dal Corno d’Africa riescono a varcare il suo territorio. Soprattutto, la demilitarizzazione del Sinai è la chiave dell’Accordo di pace siglato da Egitto e Israele nel 1979. Anche Gaza è legata a doppio filo a ciò che accade nella penisola, con cui le tribù della Striscia condividono forti legami culturali e una solida rete di economia informale. Il Sinai è la via principale che Gaza utilizza per aggirare l’embargo e l’intermittente chiusura egiziana del valico di Rafah, nonostante la distruzione dell’80% circa dei tunnel. Hamas, stretto nel nuovo governo di unità nazionale con Fatah, non può più contare sui Fratelli egiziani al potere e pare così politicamente vulnerabile – di riflesso – rispetto alle operazioni militari del Cairo in Sinai, come quella che l’aviazione starebbe effettuando in queste ore fra Shaykh Zuwaid e Rafah.

Mese dopo mese, l’instabilità della penisola egiziana diventa sempre più una questione di portata regionale: i metodi securitari fin qui adottati hanno fallito. Ansar Bayt al-Maqdis ha compiuto un salto di qualità, riuscendo a sferrare i suoi attacchi terroristici nel Delta del Nilo, nella capitale e verso la frontiera libica. Tuttavia, i militari egiziani non sembrano potere, né volere affrontare, davvero, il rebus Sinai. La crescita della minaccia terrorista nella penisola ha, infatti, consentito lo sblocco degli aiuti statunitensi per il settore militare, fermati dopo la destituzione di Morsi (però, gli elicotteri per le operazioni di counterterrorism promessi non sono ancora stati consegnati). Oltretutto, se la complicata condizione economica del paese non dovesse migliorare, scatenando così nuove, possibili, proteste popolari, il nodo della violenza terrorista – che pure esiste ed è fonte di sensata preoccupazione – potrebbe trasformarsi in un utile argomento politico, per mobilitare il consenso interno e placare i malumori della piazza, in nome della sicurezza nazionale. 

Provare a rompere l’alleanza, spesso tattica, fra capi tribù locali e jihadisti sarebbe forse il primo passo da compiere, mediante decise politiche di sviluppo territoriale e di inclusione politica, se Il Cairo volesse avviare un processo di parziale recupero della sua periferia più inquieta. Ma dopo l’ennesimo attacco, l’escalation – da entrambe le parti – sembra invece l’ipotesi più probabile.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di AffarInternazionali, Aspenia, Limes.

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