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Commentary
Le economie del Sahel e il nesso sviluppo-sicurezza: un falso collegamento?
Alessio Iocchi
01 Agosto 2018

Perché sottosviluppo?

Benché storicamente poco popolata, nel corso del XX e XXI secolo la pressione antropica nel Sahel è gradualmente aumentata: specie nell’area fertile della zona del bacino del fiume Niger o nel Ciad meridionale, dove lo sviluppo di colture intensive (arachidi e cotone) da parte del colonizzatore ha indotto un grande aumento demografico. Proprio la pressione antropica sul territorio, unita alle oscillazioni climatiche, ha portato al determinarsi di una serie di crisi alimentari nella regione. L’emergere dell’idea di un “Sahel politico” avviene nel periodo 1970-1990 con l’attestarsi di condizioni pluviometriche al di sotto della norma foriere, a catena, di crisi alimentari, rapido degrado dei suoli, erosione del patrimonio zootecnico e ondate migratorie verso aree fertili e centri urbani.

Fin da subito, appare chiaro che, per quanto le alterazioni climatiche fossero senza dubbio eventi naturali, le conseguenti carestie che hanno colpito il Sahel a ondate cicliche (1968-1974) e poi a cadenza annuale erano invece il frutto della cattiva gestione politica ed economica delle risorse, fenomeno originatosi in periodo coloniale al fine di massimizzare l’output economico delle colture intensive[1] e proseguito in periodo post-coloniale per adattamento al mercato globale.[2] A partire dai primi anni Novanta, tuttavia, la ripresa di livelli di piovosità medi ha lentamente riportato l’intera regione verso una nuova stabilità climatica, e dunque socio-economica, che ha consentito la preservazione della vitalità delle maggiori colture agricole, votate principalmente all’esportazione, ma che non ha impedito una riorganizzazione del mercato del lavoro verso attività commerciali legate al commercio e al settore estrattivo. Infatti, il sottosuolo saheliano è fra i più ricchi al mondo, in termini di giacimenti di uranio, petrolio, oro, argento e zinco. La struttura economica globale rende tuttavia la gran parte delle economie regionali non autosufficienti a livello alimentare e dipendenti dalla cooperazione allo sviluppo. I programmi sviluppati a partire dalle siccità degli anni Settanta si sono saldati stabilmente alla struttura economica regionale, fungendo da providers alimentari e riorientando dunque il mercato del lavoro verso settori non-agricoli, fattore che ha contribuito alla cronicizzazione dell’emergenza alimentare nel Sahel, insieme alla cattiva gestione amministrativa, allo scarso rinnovamento tecnologico, al persistere di fluttuazioni climatiche stagionali e alla struttura dell’economia mondiale.[3]

Perché insicurezza?

Benché oggi il Sahel venga presentato da agenzie ONU[4] e Unione Europea[5] come la prova del legame diretto fra sottosviluppo economico e insicurezza politica, tale causalità fra le due non tiene conto dei nodi irrisolti nella governance delle risorse e nei meccanismi di risoluzione dei conflitti per l’accesso alle stesse.[6] Una tale lettura, eminentemente tecnica, dell’impatto delle policies di decentramento, privandole di spessore politico, trascura l’importanza della cultura politica e socio-economica del contesto. Invece questi nodi spiegano le marcate differenze osservabili tra stati e intra-stati che forniscono un’immagine reale del Sahel lontana dall’uniforme “red band” di sottosviluppo e violenza. Dunque, i conflitti risultano più marcati nelle regioni fertili o dove i meccanismi di accesso alle risorse risultano contestati: nella regione di Tillabéri (Niger), ad esempio, non esistono modalità di accesso condivise fra le comunità peul, tuareg e zarma[7]; allo stesso modo nell’area del lago Ciad, le contraddittorie modalità tradizionali di accesso ai polder, alle zone di pesca e alle aree di transumanza hanno generato speculazioni e conflitti.[8]

Nei casi qui presentati la gestione fallimentare della governance locale delle risorse risulta evidente: in entrambi, le azioni di decentramento e le politiche di sviluppo locale contenute nei programmi di aggiustamento economico strutturale promosse dagli organismi internazionali, e concepite al fine di rafforzare l’autorità dei governi nelle regioni periferiche, hanno condotto al frazionamento e alla moltiplicazione delle medesime; la gestione parziale degli affari comunitari da parte delle autorità ha alimentato frustrazione e senso di impunità, processi di disempowerment e perdita di agency nelle comunità, ai quali le autorità politiche, indebolite e de-legittimate, non hanno dato risposta. Di questi risentimenti si sono nutriti i gruppi jihadisti-salafiti (al-Qa’ida nel Maghreb Islamico in Mali; «Boko Haram» nel lago Ciad), la cui applicazione letteralista della shari’a è stata salutata dalle comunità, inizialmente, come veloce, efficiente ed efficace, e dunque in controtendenza rispetto al lassismo, corruzione e impunità della gestione statale. La contestuale marginalizzazione di settori demografici sotto-occupati, incapaci di ottenere prestigio sociale nel mercato del lavoro (il matrimonio e il passaggio simbolico alla vita adulta) spinge numeri crescenti di persone a cercare legittimità sociale spesso con attività illecite o violente, alimentando contesti ad alta vulnerabilità.

Conclusioni

Il nesso fra marginalità economica ed estremismo violento appare labile e frutto di una semplificazione normativa che applica a cittadini impoveriti l’etichetta di vettori di violenza. Tale semplificazione impedisce di vedere nei processi socio-economici e politici saheliani e nelle policies europee le giuste responsabilità. Da una parte il deficit democratico, la riproduzione di «catene neopatrimoniali»[9], la scarsa accountability delle autorità locali, carenze di governance e ambiguità nei processi di decentramento «neo-consuetudinario»[10] in atto negli stati saheliani sostengono il perdurare di cicli di disaffezione e delegittimazione politica. Dall’altra la tendenza ad ascrivere a cause naturali o debolezze infrastrutturali e statuali il perdurare di asimmetrie di lavoro e capitali fra Nord e Sud del mondo spinge verso soluzioni di breve termine che non incidono sulle cause prime dell’insicurezza, ma che semmai riproducono diseguaglianza ed esclusione sociale.

Note

[1] J. Suret-Canale, French Colonialism in Tropical Africa 1900-1945, Londra, Hurst, 1971.

[2] C. Meillassoux, «Development or exploitation: is the Sahel famine good business?», Review of African Political Economy, 1 (1), 1974.

[3] A. De Waal, Famine Crimes: Politics & the Disaster Relief Industry in Africa, Londra, James Currey,1997.

[4] UNDP strategy for the Sahel, 13 maggio 2014.

[5] European Union External Action, Strategy for Security and Development in the Sahel, 21 giugno 2016.

[6] Si vedano T. Homer-Dixon, «Environmental scarcities and violent conflict: Evidence from cases», International Security, 19(1), 1994; Benjaminsen, T. et al., J., «Does climate change drive land-use conflicts in the Sahel?», Journal of Peace Research, 49(1), 2012.

[7] L. Raineri, If Victims Become Perpetrators. Factors contributing to vulnerability and resilience to violent extremism in the central Sahel, International Alert report, giugno 2018.

[8] A. Iocchi, «Space of refuge, space of war: reshaping territorial order in the Lake Chad area», Égypte/Monde arabe, 3eme série, no. 18, 2018. C. Casola & A. Iocchi, Humanitarian Crisis in the Lake Chad Region, ISPI Report, Marzo 2018.

[9] P. Hoon & L. Mac Lean, «Introduction. The Politics of Local Community and the State in Africa», Development and Change, 4, 2014.

[10] C. Boone, Property and Political Order in Africa: Land Rights and the Structure of Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 2014.

 

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI

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AUTORI

Alessio Iocchi
Università di Napoli "L'Orientale"

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