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Le elezioni

Le Filippine al voto: la difficile eredità di Duterte

Raimondo Neironi
08 maggio 2022

Alle elezioni del 9 maggio, settanta milioni di cittadini filippini sono chiamati a votare un nuovo presidente e a rinnovare il Parlamento. Rispetto ai suoi due predecessori, il presidente delle Filippine uscente Rodrigo “Rody” Duterte ha interpretato nei suoi sei anni a Palazzo Malakanyang il proprio ruolo istituzionale in maniera non convenzionale, avendo fatto ricorso a un linguaggio crudo e provocatorio, rilasciato dichiarazioni ufficiali talora semplicistiche e portato avanti una strategia in politica sia interna sia estera non sempre lineare.

Nel 2016, gran parte dei commentatori politici filippini concordava sul fatto che l’elezione dell’ex sindaco di Davao City fosse il segnale rivolto da un’ampia parte dell’elettorato alle istituzioni politiche, giudiziarie e amministrative sulle quali non riponeva alcuna fiducia. Duterte, che aveva accumulato un’esperienza trentennale nella regione autonoma del Mindanao, riuscì all’epoca a far leva sulla reputazione da uomo forte per riportare l’ordine nelle strade delle principali barangay (la più piccola unità amministrativa del Paese) segnate dalla criminalità. Fu proprio durante i primi cento giorni che Duterte lanciò la sua campagna di “liberazione” delle città dallo spaccio e dal consumo della famigerata metanfetamina shabu, sostenendo di volerla portare a termine entro sei mesi dall’insediamento. Col senno di poi, proprio negli ultimi giorni di campagna elettorale il presidente uscente ha ammesso che l’obiettivo era insostenibile: parallelamente, egli non ha chiarito quante vittime, dirette e indirette, abbiano perso la vita nel corso delle operazioni anti-droga condotte da poliziotti, militari e contractor privati. L’agenzia nazionale anti-droga calcola che la cifra supera il tetto di seimila morti in quasi duecentotrentaquattromila operazioni concluse. Human Rights Watch riferisce, invece, di un conteggio differente che assomma dodicimila persone tra uomini, donne e adolescenti, provenienti perlopiù dalle aree indigenti delle grandi città. Malgrado la decisione delle Filippine di ritirarsi dallo Statuto di Roma, in vigore dal marzo 2019, la Corte Penale Internazionale si è pronunciata competente ad avviare indagini sulle uccisioni extragiudiziali e il ricorso sproporzionato alla forza nei confronti della popolazione civile. L’inchiesta ha coperto un arco temporale che va dal 1° novembre 2011 al 16 marzo 2019, includendo anche il periodo in cui “Rody” ricopriva la carica di Vicesindaco di Davao City.

L’altra grande questione che ha avuto strascichi negativi sull’amministrazione riguarda il rapporto con ogni forma di opposizione. Duterte ha messo in atto una pratica che prende il nome di red-tagging e che consiste nell’associare oppositori, critici e associazioni sui diritti umani al Partito comunista delle Filippine-Nuovo Esercito Popolare (PCF-NEP) – considerato un’organizzazione terroristica sia nelle Filippine sia in Occidente – e ad altre formazioni di ispirazione marxista, nel tentativo di screditarne la reputazione agli occhi della pubblica opinione. Tra le vittime di questa tattica diffamatoria figurano negli ultimi sei anni diversi oppositori politici, avvocati, giornalisti e attivisti, tra i quali l’ex senatrice Leila de Lima e la giornalista e premio Nobel per la Pace, Maria Ressa. A stringere ulteriormente le maglie della libertà di espressione ha contribuito l’approvazione della controversa legge anti-terrorismo, recentemente dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale filippina nella parte che prevede l’arresto e la detenzione senza mandato dei sospettati. Il provvedimento è stato fortemente voluto da Duterte per contrastare le attività terroristiche di matrice comunista e islamista in tutto il Paese, in particolare nella regione autonoma del Mindanao. In realtà, il suo campo di applicazione è stato esteso con fin troppa discrezionalità alle prime chiusure dovute alla pandemia da COVID-19, per colpire e punire attivisti per i diritti umani e giornalisti. Duterte ha imposto chiusure draconiane per evitare la diffusione del virus e ha minacciato di far uccidere coloro che avrebbero violato le misure di prevenzione.

Le Filippine sono state il primo Paese del Sud-Est asiatico più colpito dal virus, con una percentuale di contagiati e decessi superiore a quello dell’Indonesia in proporzione alla popolazione. Ha subito la più grave contrazione del PIL nel 2020, rispetto alle principali economie dell’area ASEAN. La campagna di vaccinazione non ha ottenuto risultati rassicuranti: ad oggi, il tasso di persone vaccinate con almeno due dosi supera di poco il 60%, concentrate prevalentemente nelle aree meridionali delle isole di Luzon (dove sorge anche la capitale Manila).

Tuttavia, il carattere contradditorio e impulsivo dell’amministrazione Duterte si è manifestato in politica estera. Fin dalle prime settimane di insediamento, il presidente comunicò che il suo obiettivo fosse quello di non fare delle Filippine il “burattino” degli Stati Uniti. Dopo la sua elezione aveva dichiarato l’intenzione di “separarsi” dall’alleato di vecchia data esprimendo, parallelamente, la volontà di ricostruire le relazioni con la Cina su nuove basi, senza tuttavia privarsi della cooperazione strategica con l’altro importante partner della regione, il Giappone.

Dopo aver sospeso il giudizio sulla possibilità di affossare il Visiting Forces Agreement nel 1999 con gli Stati Uniti, ponendo così fine alle esercitazioni militari congiunte sul suolo filippino, nel luglio scorso Manila ha deciso di mantenere in vita l’accordo, a patto che Washington ribadisse l’impegno a fornire nuove dosi di vaccino anti-COVID-19. Duterte si è recato in visita ufficiale in Cina per ben cinque volte, nel tentativo di riappacificare le relazioni diplomatiche deterioratesi durante la presidenza di Benigno Aquino II soprattutto a causa delle dispute marittime nel Mar Cinese Meridionale. L’amministrazione uscente ha suggellato diversi accordi economici con Pechino su commercio, cooperazione industriale e infrastrutture, che le hanno consentito tra l’altro di finanziare parte del programma di sviluppo infrastrutturale Build Build Build, ritenuto il fiore all’occhiello della sua strategia di crescita economica. Inoltre, le Filippine hanno potuto beneficiare – tra acquisti e donazioni – di oltre cinquantacinque milioni di dosi di vaccino dalla Cina tra il febbraio 2021 e la prima metà di quest’anno. Nondimeno, rimangono le differenze sulla questione delle dispute marittime nelle acque contese. Qui l’atteggiamento di Duterte ha mostrato segni di cedimento allorché rigettò la sentenza della Corte Permanente di Arbitrato emessa nel 2016, propendendo per la ricerca di una soluzione diplomatica a livello bilaterale. Dall’altra parte, però, tenendo conto verosimilmente delle istanze provenienti da alcuni ambienti politici e militari, il settantenne presidente ha condannato le incursioni della Guardia Costiera cinese nella zona economica esclusiva rivendicata da Manila attorno alle isole Spratly e al banco di Scarborough. In questo contesto, Duterte si è avvalso della decennale cooperazione marittima e strategica con il Giappone in funzione anti-cinese, con il quale è in vigore un accordo militare che autorizza le Forze di Autodifesa giapponesi di accedere alle basi militari filippine.

Dato che la Costituzione non prevede per il presidente uscente la possibilità di ricandidarsi, Duterte non ha ufficilamente dato indicazioni di voto a favore di una delle dieci personalità in gara. Al contrario, per quanto riguarda la Vicepresidenza, ha espresso il suo gradimento per la figlia Sara, nonostante si fosse opposto fin dall’inizio alla sua discesa in campo a livello nazionale. Questa si prenseterà in ticket con Ferdinand “Bongbong” Marcos, ma non vi è alcuna certezza che entrambi possano governare assieme, dato che la Carta fondamentale filippina prevede due elezioni separate per le più alte cariche dello Stato. I due candidati condividono l’appartenenza a due tra le più importanti oligarchie politiche famigliari del Paese, che controllano e influenzano il dibattito a livello sia locale sia nazionale.

Qualunque sarà il risultato che uscirà dalle urne, il presidente uscente lascia al suo successore una pesante eredità e diversi nodi da sciogliere riguardanti, in particolare, la prosecuzione o l’interruzione della lotta alla droga e alla corruzione, i programmi di sviluppo infrastrutturale che stentano a decollare e il posizionamento delle Filippine nel contesto della rivalità tra Cina e Stati Uniti in Asia.

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Co-Head - ISPI Asia Centre, and University of Pavia
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ISPI Associate Research Fellow, and University of Trento

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Asia filippine Rodrigo Duterte Cina
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AUTORI

Raimondo Neironi
T.wai e Università degli Studi di Torino

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