Gli errori politici che hanno spinto la crisi europea su un terribile piano inclinato non risalgono alla scoperta del disavanzo greco nel novembre 2009, come comunemente si crede. Più di un anno prima Germania e Irlanda posero le basi della crisi del debito sovrano evitando di affrontare con trasparenza e cooperazione la crisi bancaria che le aveva colpite e da cui, in tempi rapidissimi già nell’ottobre del 2008, emerse l’improvvisa rischiosità dei debiti sovrani dell’intera Eurozona.
Il fatto che questa semplice evidenza sia tuttora rimossa dal discorso pubblico, dimostra la grave assenza di un’onesta analisi e rappresentazione dei fattori che hanno determinato la crisi. In particolare ora che la via d’uscita dipende dalla cooperazione tra governi. La principale critica che rivolgo al governo tedesco è infatti di avere contribuito gravemente alla mistificazione della crisi e di avere aderito consapevolmente a una versione parziale della crisi, per ciò che riguarda la sua origine e i suoi ingranaggi.
Gli squilibri tra le bilance dei pagamenti dei 17 paesi, a cui si attribuisce l’instabilità dell’Euroarea, sono solo in parte attribuibili alle politiche, certamente sbagliate e opportuniste, dei paesi della periferia. L’altra metà deve essere attribuita a una strategia altrettanto opportunista condotta da Berlino nei dieci anni precedenti la crisi. La volontaria compressione della domanda interna tedesca ha dato luogo all’accumulo di attivi commerciali esorbitanti che comunemente vengono denunciati come il risultato di una politica mercantilista tradizionale. Ma non è così, non c’è nulla di tradizionale nei fenomeni degli ultimi dieci anni. Una politica di accumulo di risparmio interno (surplus commerciale più attivo di bilancio) infatti comporta, oltre al normale danno commerciale nei confronti dei partner, ulteriori effetti negativi fortemente amplificati dalla nuova cornice dell’unione monetaria. Potendo beneficiare di un’area priva di rischio di cambio, le banche tedesche hanno investito due terzi dell’attivo commerciale accumulato dalla Germania nei paesi della periferia alla ricerca di titoli pubblici con rendimenti relativamente più elevati di quelli tedeschi. Solo tra il 2000 e il 2010, l’export di capitale tedesco verso l’Euroarea è stato di circa mille miliardi di euro. Gli interessi pagati dai paesi della periferia dell’Euroarea alla Germania sui titoli acquistati dalle banche tedesche hanno rappresentato un flusso di reddito dai contribuenti di quei paesi a quelli tedeschi per un ammontare equivalente allo 0,75% annuo del Pil tedesco. Per essere chiari, significa 0,75% del Pil in più per la Germania e altrettanto in meno per gli altri paesi, un differenziale annuo nella crescita pari a 1,5 punti di Pil per un intero decennio.
Il “privilegio esorbitante” della Germania è completamente nascosto al radar del confronto politico. I meriti dell’economia tedesca vengono interamente attribuiti a una serie di miracolose riforme che il cancelliere Schroeder avrebbe compiuto nel 2002-2003 e che per magia avrebbero trasformato l’economia tedesca dal 2004. La storia è ovviamente diversa. A partire dalla metà degli anni Novanta, a seguito degli oneri dell’unificazione tedesca, imprese e banche tedesche hanno modificato il modello di sviluppo trasferendo il loro import e le loro catene di produzione dal Sud Europa. All’inizio hanno trasferito impianti e servizi nell’Est Europa e dal 2000 hanno spostato una buona parte dell’import di beni nel lontano Oriente. Nel frattempo, pessimiste sulle prospettive della domanda interna tedesca, hanno sviluppato la loro attività lontano dalla Germania.
Negli anni Novanta, la quota di import più export tedeschi sul Pil è quasi raddoppiata diventando tre volte quella americana o giapponese. Un tale spostamento del più importante attore economico europeo ha inevitabilmente sbilanciato la barca dell’Euroarea mettendo in deficit di risparmio quasi tutti i paesi della periferia, i quali per loro responsabilità non hanno saputo reagire tempestivamente.
Attribuire la crisi dell’Euroarea ai soli paesi attualmente in crisi, significa mistificare quanto è avvenuto. E ciò che più disturba è che la versione compiacente sulle “virtù tedesche” da insegnare agli altri ha occupato interamente il discorso pubblico in Germania. Alla tentazione dell’omogeneità nell’opinione pubblica, in particolare quando essa si può favorevolmente comparare a quella di popolazioni straniere in palese difficoltà, solo pochissime voci illuminate hanno resistito. Le stesse che nei miei dieci anni di vita in Germania tanto mi avevano fatto amare quel paese.