Il rifiuto del sindaco di Roma di candidare la città eterna a ospitare le Olimpiadi del 2024 fornisce un interessante spunto per riflessioni più ampie di carattere geopolitico.
Roma infatti non è l’unica città ad aver rifiutato di ospitare un’Olimpiade. A novembre dello scorso anno anche Amburgo, prospera ed efficiente città della ricca Germania, fu costretta a ritirare la propria candidatura ad ospitare la stessa Olimpiade dopo che il 51,6% dei suoi cittadini aveva votato contro in un referendum.
La tendenza a tirarsi indietro non riguarda però solo l’Europa. Poco più di un anno fa, il comitato olimpico americano aveva revocato la candidatura di Boston, sempre per ospitare l’edizione del 2024, a causa delle pesanti pressioni di una campagna organizzata da attivisti locali. Denver, invece, è l’unica città ad aver rifiutato di organizzare un’Olimpiade – quella invernale del 1976 – dopo averne vinto l’assegnazione. Un’occasione perfetta per celebrare il bicentenario della fondazione degli Stati Uniti e il centenario della nascita dello stato del Colorando andata poi in fumo.
L’elenco di città che hanno fatto un passo indietro è ancora lungo e comprende anche Oslo, Stoccolma, Monaco e Cracovia, tutte città che hanno ritirato la candidatura per organizzare i Giochi Olimpici invernali del 2022, lasciando solo Pechino e Almaty, in Kazakistan. Per la cronaca, la vittoria è andata a Pechino.
Sebbene non si possa dire che l’Occidente abbia abdicato alla sua possibilità di ospitare le Olimpiadi, basta ricordare che le penultime si sono svolte a Londra e le prossime saranno in Giappone, è vero che la loro organizzazione è spesso vista più con sospetto che con entusiasmo. Perché?
Un primo elemento, che è quello mediaticamente più sottolineato, è il timore che questi eventi possano comportare un impatto ambientale troppo negativo per la città o essere fonte di sprechi e ruberie. Anche in paesi dove la corruzione è più contenuta, i rischi legati ad un innalzamento dei costi senza che questi possano poi tradursi in ricadute positive e durevoli per la città è stata la prima motivazione che ha spinto i cittadini, e i loro rappresentanti politici, a prendere posizione contro la candidatura alle Olimpiadi.
Non si tratta però solo di una maggiore sensibilità ambientalista o attenzione alle finanze pubbliche, il “no” alle Olimpiadi è anche sintomatico di un atteggiamento sempre più diffuso, definito dai politologi Nimby (not in my back yard). Quest’attitudine consiste nell’impedire che alcuni interventi, anche se ritenuti necessari o addirittura positivi (come in questo caso), vengano realizzati sul proprio territorio. In occasione delle Olimpiadi non si tratta di una presa di posizione contraria all’evento in sé ma piuttosto un’insofferenza a farsi carico dei disagi che esso inevitabilmente comporta.
La crisi economica che interessa – con diverse accezioni e profondità – i paesi occidentali da quasi dieci anni è sicuramente un ulteriore freno al desiderio di investire grandi quantità di soldi pubblici in progetti dei quali non si possono prevedere i ritorni.
Queste spiegazioni possono però essere addotte anche per molti altri progetti infrastrutturali, ma vi sono almeno altre due motivazioni specifiche riguardo alle Olimpiadi, o di altri eventi sportivi simili come i Mondiali di calcio.
Per l’opinione pubblica occidentale, l’organizzazione di questi eventi ha smesso di rappresentare un vettore con cui alimentare l’orgoglio nazionale e lo status internazionale del proprio paese. Questo obiettivo è invece molto sentito nei paesi emergenti, sia coloro che si vogliono affermare (come la Cina, il Brasile, il Sud Africa o il Qatar) sia quelli che si vogliono riaffermare (come la Russia che ha organizzato gli ultimi giochi olimpici invernali e ospiterà il prossimo Mondiale di calcio). Per questi stati riuscire a farsi assegnare un compito tanto prestigioso come ospitare questi appuntamenti internazionali e garantirne il corretto svolgimento rappresenta una prova di forza economica e politica maggiore di quanto possa essere un aumento del Pil o dell’export anche a doppia cifra
Infine, la maggior cautela – quando non ritrosia - con cui le città occidentali decidono di imbarcarsi in progetti così ambiziosi è sintomatica di quanto i paesi avanzati stiano adottando una sempre minore propensione ad avere un ruolo primario in progetti di respiro internazionale, favorendo invece pulsioni particolaristiche e locali. L’atteggiamento verso i Giochi, quindi, deve farci riflettere non tanto su dove si disputeranno le Olimpiadi del futuro ma su chi oggi dimostra di avere il vigore necessario per candidarsi a influenzare il nostro futuro, non solo in campo sportivo.
Marco Villa, ISPI Web Editor