Dalla seconda metà del mese di febbraio, in Algeria ci sono manifestazioni gigantesche, con milioni di cittadini, uomini, donne e giovani per le strade di tutto il paese. Le rivendicazioni iniziali erano per rifiutare la candidatura del presidente, anziano e malato, Abdelaziz Bouteflika a un quinto mandato consecutivo. Ma queste proteste, che durano da sei settimane e che mano a mano hanno coinvolto tutti gli strati della società algerina, hanno visto, col passare del tempo, le loro rivendicazioni diventare sempre più radicali. Dal timido “No 5° mandato!” si è passati a un forte e chiaro “yetnehaw gaa!”: devono andarsene tutti! Ma prima dell’evoluzione delle proteste, parliamo della loro origine.
5 luglio 1962: la svolta
L’Algeria proclama ufficialmente l’indipendenza dalla Francia nel 5 luglio del 1962, dopo una lunga e aspra guerra che è durata sette anni e che ha lasciato a terra centinaia di migliaia di persone. A lottare per l’indipendenza c’era un fronte: il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln). L’Fln raggruppava tutte le forze politiche presenti allora in seno al popolo algerino: nazionalisti algerini, comunisti, nazionalisti panarabismi, socialisti e riformisti musulmani.
Subito dopo la proclamazione dell’indipendenza, dai confini entra un esercito nuovo, formato e addestrato nei campi profughi in Marocco e in Tunisia. Questo esercito ben attrezzato, ben vestito, ben armato è cappeggiato dal Colonnello Houari Boumediene. Quest’ultimo nazionalista arabo, sostenuto dall’Egitto di Gamal Abd el Nasser e dai paesi socialisti dell’epoca, prende il potere con la forza, disarmando i partigiani dell’interno, esausti, affamati e rimasti quasi senza munizioni. Scioglie il governo provvisorio di Ferhat Abbas, che era rappresentativo delle varie anime presenti nel Fronte e proclama un nuovo governo con Ahmed Ben Bella, uno dei leader minori del Fronte di liberazione, come primo presidente della giovane Repubblica Algerina Democratica e Popolare.
Da questo colpo di stato precoce nasce il connubio tra Fronte di Liberazione Nazionale e Esercito Nazionale Popolare (Anp) che è alla guida del paese dal 1962. E ancora oggi, 57 anni dopo quel 5 luglio, è questa equazione “Fln + Anp = potere” che il popolo algerino vorrebbe risolvere.
Chi è Abdelaziz Bouteflika
Quando l’esercito delle frontiere varca i confini Est e Ovest dell’Algeria, accanto al Colonnello Boumedienne, l’uomo forte del momento, c’è sempre un giovane luogotenente, 25 anni, piccolo ma intelligente ed energico, baffi folti, sguardo deciso. Si chiama Abdelaziz Bouteflika. È il suo braccio destro, l’uomo delle operazioni delicate. Colui – si dice – che riesce a trovare e a convincere l’anello debole del gruppo dei leader storici della resistenza, Ahmed Ben Bella, ad allearsi con i militari dando, agli occhi del mondo, una legittimità rivoluzionaria al colpo di stato militare.
Bouteflika diventa ministro della Gioventù, Sport e Turismo nel governo Ben Bella. Poi presto ministro degli Esteri. Posto che conserverà anche dopo il colpo di stato del 1965 e fino alla morte del nuovo Presidente Houari Boumediene nel 1979.
Nel 1980, con il nuovo governo di Chadli Ben Djedid, l’ex secondo uomo forte del paese cade in disgrazia ed è accusato di appropriazione di fondi pubblici. Si rifugia all’estero e scompare dalla scena politica.
Nel 1999, verso la fine della guerra civile, ritorna come candidato indipendente alle elezioni presidenziali. Ha pochi appoggi interni ma è il candidato sostenuto dalla comunità internazionale. L’accordo segreto che le potenze internazionali offrono ai belligeranti è: Bouteflika Presidente della Repubblica, garante della fine della guerra e della riapertura dei campi di petrolio alle multinazionali, in cambio dell’impunità per i crimini di guerra garantita ai due capi, militari e islamisti del Fronte Islamico della Salvezza (Fis). I generali hanno poca scelta. I risultati dei giochi sono conosciuti in anticipo. Gli altri candidati si ritirano ma le elezioni si svolgono lo stesso e la comunità internazionale non trova da ridire.
Un abile manovratore
Arrivato al potere da outsider, “Boutef”, come viene chiamato in Algeria, manovra in modo eccellente. Rafforza la sua posizione internazionale non solo aprendo le vaste risorse energetiche del paese alle società multinazionali varie, ma approfitta della salita vertiginosa dei prezzi del greggio durante gli anni 2000 e fa fare buoni affari a tutti: Usa, Francia, Italia, Germania, Cina, Russia, Turchia, Giappone, Corea del Sud, monarchie arabe…Ognuno trova il proprio conto: petrolio, gas, prodotti agricoli (di cui l’Algeria è grande importatrice), grandi opere e programma di edilizia popolare, forniture varie, telecomunicazioni ecc. E infine il grande business delle armi, di cui è grande importatore – circa il 30% delle armi importate in Africa sono destinate all’Algeria. E per non farsi nemici ordina armi da tutti i grandi produttori: Usa, Francia, Germania, Russia, Italia e Cina.
All’inizio del suo primo mandato, Bouteflika era isolato internamente. Non aveva controllo sul partito Fln, né sull’Esercito nazionale. Per superare questo isolamento cominciò a formare il proprio clan, basandosi su relazioni di parentela, amicizie personali e appartenenza tribale. Piazza nei posti chiave dell’amministrazione civile e della giustizia un vero esercito di parenti, vicini e amici d’infanzia che prende il controllo della società, del petrolio e del gas, della magistratura, della polizia, del governo delle regioni e delle banche.
Rafforza progressivamente la sua posizione, indebolendo quella dei generali, fino a metterli fuori gioco. I più potenti vengono mandati in pensione. Gli altri, dopo la sua prima rielezione nel 2004, seguono il flusso e salgono sul carro del vincitore. Dal 2004, prende il controllo di tutti i poteri forti del paese: presidenza, partito Fln e esercito.
L’opposizione è messa a tacere con un misto di bastone (o mano di ferro in guanto di velluto) e carota. Anche qui entra in gioco la manna petroliera e pochi resistono all’appello del petrodollaro.
Il 12 novembre 2008, il parlamento vota la modifica della costituzione per superare il limite di due mandati presidenziali. Così Bouteflika si ripresenta per un terzo mandato. Ormai niente dentro e intorno al regime sfugge al vecchio lupo della politica algerina. Nessun ostacolo, tranne la salute.
Tradito dalla salute
Dal 2005, Bouteflika comincia ad avere problemi di salute. Scompare regolarmente in Svizzera e in Francia per curarsi. Ma nel 2013 viene trasferito d’urgenza all’ospedale militare francese del Val de Grace à Parigi. È vittima di un attacco ischemico al cervello. Dopo mesi di assenza comincia a girare voce della sua morte, per smentirla riappare in pubblico nel luglio 2013. Ma non è più lo stesso. Costretto su una sedia a rotelle, ha perso l’uso della parte destra del corpo. Non riesce quasi a parlare. È chiaro che non è più in grado di portare avanti il lavoro. Ma ciò nonostante, il suo clan conferma la sua candidatura a un quarto mandato. Il seguito è noto: elezioni farsa, nessuno sfidante serio, solo comparse per tenere vivo lo show. La rielezione è più che scontata. La comunità internazionale continua a non avere niente da ridire. L’opposizione che era uscita dopo le elezioni precedenti per denunciare i brogli, di fronte al silenzio dei media e delle istituzioni internazionali, non protesta più.
Sin dall’inizio della sua malattia, subentrano vari personaggi, parenti e amici stretti, a gestire le questioni pubbliche in sua vece. In primo piano c’è il fratello, Said Bouteflika. Ma non c’è solo lui. La ragnatela di “parenti” prende il potere e mette mano alle risorse nazionali. La malattia del vecchio leader fa scattare il conto alla rovescia: il clan capisce che i giorni al potere sono contati e comincia a comportarsi come una banda di saccheggiatori che cerca di prendere ciò che può fin che può.
Le origini della protesta: tre ipotesi
È difficile trovare l’origine esatta delle proteste che oggi mobilitano milioni di algerini ogni settimana.
L’Algeria, contrariamente a quello che viene spesso detto in questi giorni sulla stampa italiana, non esce da un lungo periodo di calma per svegliarsi di colpo. Le manifestazioni (anche se vietate), i movimenti di protesta e le ribellioni fanno parte della vita politica del paese dal lontano 1980, anno dell’insurrezione della Cabilia detta “Primavera berbera”; passando per l’ottobre 1988 con una insurrezione generale del paese repressa nel sangue. E poi la guerra civile, che inizia nel 1992 e dura più di dieci anni, quindi la “Primavera nera” della Cabilia dal 2001 al 2004, e una miriade di proteste, di movimenti e di lotte, a volte locali, a volte regionali e a volte nazionali.
La particolarità delle manifestazioni di questa primavera è la loro trasversalità. Raggruppano tutte le tendenze (o quasi), tutti i generi e le generazioni. Scendono tutti per strada. Nonostante le differenze, sono d’accordo su una cosa: vogliono un cambio di tutto il sistema al potere.
Su come siano nate queste proteste non ci sono certezze. L’annuncio della candidatura di Bouteflika a un quinto mandato ha prima suscitato le proteste via internet, per poi portare all’invito a uscire tutti insieme a manifestare. L’appello per la prima manifestazione del 22 febbraio è anonimo ma viene ripreso da migliaia di profili e pagine Facebook. Il suo successo arriva come un fulmine a ciel sereno: nessuno si aspettava una partecipazione così. E se non ci sono certezze sull’origine del movimento, ci sono invece molte teorie e ipotesi. Vediamo le tre più diffuse e più verosimili.
La prima ipotesi per interpretare le proteste è quella di un movimento spontaneo nato dalla stanchezza e dalle delusioni dei vari strati della società. La stanchezza sta nel vedere un potere comportarsi come un clan mafioso che arraffa tutto al suo passaggio a cui si aggiunge un crescente disaggio sociale. La disoccupazione, infatti, è una vera piaga tra i giovani e il potere d’acquisto delle famiglie si è dimezzato a causa della crescente inflazione. Lo spettacolo delle grandi opere – spesso inutili e mal realizzate, in tempi infiniti e budget gonfiati a volte anche di 15 volte – rendono ancora più insopportabile la mancanza di veri programmi di sviluppo economico o di rilancio delle attività produttive. A tutto ciò si aggiunge una corruzione dilagante che non può che aumentare lo sconforto e la rabbia del popolo.
Questa stanchezza e questa rabbia hanno fatto confluire le lotte e le proteste dei vari strati sociali in un obiettivo comune: “No al 5° mandato”. Questa confluenza ha quindi generato un successo tale che si è cominciato a guardare oltre il rifiuto del quinto mandato di Bouteflika.
Una seconda ipotesi parla di una mossa interna al sistema stesso. Si guarda in modo particolare ad alcuni reparti dell’esercito e dei servizi segreti. Ma anche a molti alti dirigenti del paese che si sentono ridicolizzati da un presidente “mummia”, dietro al quale una banda di predoni si comporta come se il paese fosse loro proprietà privata. E questi reparti interni al potere stesso avrebbero manovrato per indebolire il clan presidenziale, come dimostra la messa in panchina del Generale Abdelghani Hamel, che fino al giugno 2018 era a capo della potente istituzione della Polizia Nazionale. In quest’ottica, sarebbero stati reparti delle forze armate ad aver permesso e incoraggiato in modo tacito, e qualche volta anche esplicito, le manifestazioni contro il quinto mandato. Quello che probabilmente non si aspettavano erano il successo e il proseguimento delle proteste oltre la rinuncia di Bouteflika alla candidatura.
Infine, una terza ipotesi che circola è quella di un progetto di cambio di regime in Algeria da parte delle potenze della Nato e dei paesi del Golfo. Bouteflika è stato un loro alleato e ha dato da mangiare a tutti, ma ha anche saputo tenere buoni Cinesi, Russi, Turchi e Iraniani. Non ha mai preso posizioni contro i regimi sotto attacco. Si è tenuto a buona distanza dal conflitto libico, e non è intervenuto in Siria. Inoltre, non ha accettato, nonostante le pressioni dell’Egitto e dell’Arabia Saudita, di partecipare alla guerra contro gli Houti in Yemen.
Ora che di soldi da distribuire ce ne sono meno, questa indipendenza in politica estera comincia ad essere considerata insufficiente, principalmente dall’amministrazione Trump che cerca di radicalizzare gli scontri nella regione. E quindi, secondo questa ipotesi, ora che la guerra in Siria volge al termine, con l’insuccesso per chi voleva un “Nuovo Medio Oriente”, si riapre la partita per mettere al passo il più grande paese dell’Africa e del Mediterraneo.
In ogni ipotesi c’è una base di verità. Il paese è stanco, il regime stesso è bloccato in una situazione in cui non si riesce a trovare un’alternativa valida a un uomo ormai ridotto a uno stato quasi vegetale, e i rapporti internazionali nell’area si stanno inasprendo. La posizione di neutralità dell’Algeria ha fortemente innervosito l’asse Arabia Saudita-Israele-conservatori statunitensi. Gli appelli diffusi anonimamente sui social a febbraio possono essere il frutto di uno di questi tre fattori o da tutti e tre insieme. Quel che è certo è che hanno incontrato un largo consenso e condizioni favorevoli.
Le manifestazioni finora sono rimaste pacifiche, allegre, apartitiche, laiche e aperte a tutte le forze vive della nazione. L’obiettivo condiviso è la fine del regime. Ma non esiste ancora un progetto condiviso per un nuovo sistema politico. Le parole d’ordine condivise fin qui sono: “Algeria, libera e democratica”. Ma i tradizionali ostacoli alla democrazia e alla libertà in Algeria, ovvero militari e salafiti, sono rimasti silenziosi.
Non si sa come e quando, ma entrambe entreranno in gioco da un momento all’altro. E in quel momento ci sarà bisogno di tutta la forza e la saggezza di cui finora ha dato prova la piazza algerina per mantenere il paese in pace.