Nel giorno in cui ha preso avvio un altro Consiglio europeo in cui è stata Brexit a tenere banco, ISPI ha lanciato la newsletter "Le parole dell’Europa”, che accompagnerà i propri lettori fino alle elezioni europee del 26 maggio. Ogni numero sarà dedicato a una parola chiave per l’Unione europea, la sua storia e le sue politiche. Il tema legato a ciascuna parola chiave verrà presentato e discusso da diversi punti di vista e saranno portati alla luce gli specifici interessi in gioco per il nostro Paese. Questo primo numero viene dedicato a uno dei principali conseguimenti dell’Ue, che rappresenta al contempo anche uno dei temi più dibattuti: l’Euro.
IL TEMA
Non è un caso che la scelta sulla prima parola dell’Europa da trattare sia ricaduta proprio su “Euro”. La moneta unica è un risultato senza precedenti, che permette oggi a 19 paesi membri su 28 di condividere la stessa valuta e, di conseguenza, la stessa politica monetaria. Secondo il trattato di Maastricht, altri 7 membri (tutti i rimanenti paesi membri tranne Regno Unito e Danimarca) dovrebbero adottarla non appena rispetteranno alcuni requisiti economici. L’adozione dell’Euro è stato un avvenimento storico anche perché la moneta è uno dei simboli più visibili della sovranità dello Stato; la sua condivisione ha dunque rappresentato per molti l’avvio effettivo di quel progetto di unione politica che avrebbe dovuto condurre a un’Europa a tutti gli effetti federale. Ma l’Euro è anche diventato uno dei temi di maggiore divisione in Europa. Molte polemiche hanno accompagnato le diverse fasi della moneta unica, con una impennata registrata a seguito della crisi economica che ha mostrato con chiarezza tutte le debolezze della costruzione dell’Euro, soprattutto in momenti di particolare tensione.
A ogni moneta serve una banca centrale: così, passando dalle valute nazionali alla moneta unica, i Paesi dell’Eurozona hanno dovuto condividere anche la politica monetaria, mettendo le proprie banche centrali nazionali sotto l’ombrello della nuova Banca centrale europea (Bce). I tradizionali strumenti dipolitica monetaria delle banche centrali, in primis la possibilità di influenzare i tassi di interesse, sono però stati messi alla prova dall’esplosione della crisi del debito che, tra il 2011 e il 2015, ha colpito molti paesi dell’Ue.
La crisi ha impedito ad alcuni (Grecia, Irlanda, Portogallo) di rifinanziare per un certo periodo di tempo il proprio debito pubblico e ha avuto effetti indiretti di contagio anche su altre economie più grandi, come Italia e Spagna. E proprio la crisi ha segnato il definitivo ritorno del “rischio paese”, che sembrava essere scomparso grazie all’arrivo della moneta unica, con la conseguenza che gli “spread” (differenziali di rendimento) tra i titoli sul debito pubblico tedesco, percepiti come sicuri, e quelli dei Paesi considerati meno virtuosi, sono tornati ai livelli precedenti l’introduzione della moneta unica (si veda il grafico sotto). In pratica, lo scoppio della crisi ha segnato il momento in cui gli investitori internazionali hanno smesso di guardare all’Eurozona come a un blocco unitario, con rischi sostanzialmente simili, preferendo invece considerarlo come un gruppo in cui i rischi possono essere anche molto diversi a seconda del Paese considerato.
Nel grafico - Le differenze nei rendimenti ("spread") dei titoli di stato di diversi Paesi Europei paragonati ai titoli di stato tedeschi (Bund) hanno attraversato tre fasi: una prima di forti disparità, fino all'adozione dell'euro nel 1999; poi un periodo di convergenza; infine, dopo l'inizio della crisi economica, una nuova fase di crescenti divergenze, che continua ancora oggi.
Nel mezzo di questa crisi economica - la più grave dal dopoguerra - la Bce e il suo governatore, l’italiano Mario Draghi, si sono trovati stretti tra due fuochi: da un lato i “falchi” nordeuropei che, di fronte a una crisi asimmetrica che colpiva con maggiore intensità le economie più deboli dell’Eurozona, chiedevano più rigore nella spesa pubblica; dall’altro i Paesi dell’area mediterranea, che invocavano maggiori investimenti e spesa pubblica per risollevare le proprie economie in crisi. Dall’Eurotower di Francoforte, nel 2012 il consiglio direttivo della Bce prese una decisione fondamentale: il governatore Draghi annunciò pubblicamente di essere pronto a fare “whatever it takes”(tutto quanto fosse necessario) per portare l’Eurozona fuori dalla crisi. Il discorso pose le basi per l’avvio, nel 2014, del quantitative easing: un programma di acquisto diretto di titoli di debito dei Paesi dell’Eurozona, per stabilizzare i tassi di interesse e i prezzi dei titoli dei paesi in difficoltà, come l’Italia, e attenuare il più possibile il “credit crunch”, ovvero la drastica riduzione della capacità delle banche di concedere prestiti a famiglie e aziende. Con una potenza di fuoco tra i 60 e gli 80 miliardi di euro al mese, tra il 2015 e il 2018 il “bazooka di Draghi” (questo il soprannome del quantitative easing) segnò l’inizio di una nuova fase per l’Eurozona, in cui la Bce virava verso un approccio più interventista, sul modello della Federal Reserve, la banca centrale americana, che già nel 2008 aveva avviato un programma simile per gli Stati Uniti.
L’azione della Bce, però, non ha mancato di attirare aspre critiche che hanno ulteriormente approfondito la crescente distanza tra le visioni dei Paesi del Nord e del Sud Europa. Mentre questi ultimi chiedono che l’Eurozona metta in campo dei meccanismi per condividere i rischi delle varie economie nazionali, i primi sottolineano che per farlo è necessario che prima i singoli Stati diminuiscano tali rischi, riducendo il proprio debito pubblico e adottando politiche fiscali più responsabili. È proprio attorno all’austerità che si è consumato uno “scisma” europeo, che ha allontanato i vari Stati membri e, all’interno di ciascun paese, ha visto emergere voci diverse nell’opinione pubblica.
In effetti le azioni intraprese nell’Eurozona dopo la crisi oscillano tra queste due contrastanti visioni. Il “Fiscal Compact”, il trattato firmato nel 2012 dalla gran parte dei Paesi dell’Ue, tra cui l’Italia, impegna i Paesi con un debito pubblico eccessivo a ridurlo in maniera significativa nel medio-lungo periodo. Si è inoltre deciso di rafforzare il Patto di stabilità e crescita che regola l’Eurozona, e imposto l’inclusione del pareggio di bilancio nelle leggi dello Stato: preferibilmente nella Costituzione, come ha fatto l’Italia nel 2012. Queste misure rappresentano dunque il simbolo di un approccio austero sul fronte dei conti pubblici.
Nonostante il moltiplicarsi delle regole, va però riconosciuto che molti Paesi europei (Italia inclusa) hanno ricevuto deroghe annuali sulla spesa pubblica in deficit, che la Commissione europea definisce “flessibilità”, e al contempo hanno potuto sostenere le banche in difficoltà con aiuti pubblici, nonostante le regole europee sul salvataggio bancario. Resta il fatto che molti considerano queste concessioni insufficienti, così come i passi avanti sul piano della condivisione dei rischi e di politiche economiche che sostengano maggiormente la crescita attraverso maggiori gli e che creino le condizioni per una unione monetaria più solidale verso quei Paesi colpiti da specifiche crisi (cosiddetti ‘shock asimmetrici’).
In ogni caso la maggior parte degli osservatori, tra cui anche molti critici, sottolineano l’importanza di procedere al “rafforzamento dell’Eurozona”. Secondo il Presidente francese Emmanuel Macron, ciò potrebbe implicare la creazione della figura del Ministro delle finanze europee e di un bilancio dell’Eurozona che permetta anche una parziale redistribuzione della ricchezza tra i Paesi membri. Altre misure riguardano il completamento dell’unione bancaria fino a ricomprendere una garanzia comune di tutti i depositi bancari; finora un vero e proprio taboo per i paesi del nord (Germania in primis). Le divisioni sul percorso da compiere non sono certo di buon auspicio per un ulteriore rafforzamento della moneta unica.
LE ANALISI
L'Unione europea dopo la crisi finanziaria
Quella che ha colpito l’Europa tra il 2011 e il 2015 è stata non solo una crisi economica, ma anche esistenziale, che ha costretto i Paesi dell’Ue e le istituzioni comunitarie a riconsiderare gli strumenti di governance della moneta unica. Quali sono state le lezioni che l’Ue ha imparato dalla crisi? L’intervista a Marco Buti, direttore generale per gli affari economici e monetari della Commissione europea.
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LA POSIZIONE DELL'ITALIA
Negli ultimi anni, il dibattito in Italia si è articolato lungo linee simili a quelle del resto d’Europa, tra chi ritiene che si debba lavorare per rafforzare l’euro, anche riformandolo in profondità, e chi invece enfatizza le ricadute negative per l’Italia, fino all’estremo di ipotizzarne l’uscita dall’unione monetaria. Questi ultimi in realtà sembrano essere una minoranza: una recente rilevazione Eurobarometro indica che il 65% degli italiani considera positiva l’appartenenza all’euro. Una posizione peraltro ribadita anche dall’attuale governo.
Nella consapevolezza che una moneta unica più forte è nell’interesse sia dei paesi del Nord che di quelli del Sud, l’Italia non dovrebbe opporsi ai processi di riforma cercando di fare sponda con quei Paesi che presentano posizioni più moderate, come nel caso delle proposte del presidente francese Macron sopra richiamate (per un approfondimento sulla politica economica italiana nel quadro europeo, si veda il capitolo firmato da Franco Bruni nel Rapporto ISPI 2019).
Ma non vanno neanche escluse a priori le richieste dei paesi del Nord Europa, che invocano maggiore rigore e riduzione dei rischi prima di cominciare a condividerli. In questo modo, l’Italia dimostrerebbe di non chiedere unicamente un aiuto al “Nord virtuoso”, ma di essere pronta a fare la propria parte.
Certo queste aperture non possono spingersi fino ad accettare alcune ricette che potrebbero accrescere notevolmente i rischi per l’Italia, come quelle legate a una maggiore ‘disciplina di mercato’ che potrebbe scatenare pericolosi attacchi speculativi in capo a un Paese come l’Italia con un alto debito pubblico e una cronica incapacità di crescere a tassi sostenuti.
Se davvero si vuole che la zona euro sia un’area dal “destino comune”, è nell’interesse non solo dell’Italia ma anche degli altri paesi dotare l’Eurozona di strumenti credibili, che permettano ai mercati di tornare a considerare l’Eurozona come un tutto, anziché come un insieme frastagliato di sistemi economici nazionali. Opporsi alle decisioni per il rafforzamento della moneta unica risulta rischioso sia per i Paesi del Nord che per quelli del Sud. La ricerca di un compromesso che faccia andare di pari passo la condivisione e la riduzione dei rischi sembra l'unica via possibile.