In vista delle elezioni europee, ISPI ha lanciato “Le parole dell’Europa”: dieci puntate in cui vengono analizzati temi chiave per il presente e il futuro dell’Unione europea. Questo numero esce a pochi giorni dalle celebrazioni per i 70 anni dalla creazione della NATO ed è dedicato al tema della sicurezza. Vengono al riguardo trattate sia le tradizionali sfide alla sicurezza dell’UE - legate a conflitti che coinvolgono gli Stati - sia minacce di nuovo tipo, come il terrorismo (il tema della cybersecurity sarà trattato in un’uscita successiva).
IL TEMA
La minaccia terroristica rimane, insieme all’immigrazione, il fenomeno che più preoccupa oggi i cittadini europei: anche se la percentuale è in calo, alla fine del 2018 il 20% degli europei indicava ancora il terrorismo come una delle due minacce più rilevanti per la sicurezza dell’UE.
Negli ultimi anni, la variante più visibile e pericolosa di terrorismo che ha colpito l’Europa è quella ispirata da un’interpretazione estremista e militante dell’Islam. Il fenomeno ha radici profonde e si è sviluppato sul continente europeo a partire dagli anni Ottanta articolandosi in quattro fasi principali. La prima, tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà del decennio successivo, ha visto l’arrivo in Europa dei primi militanti; alcune centinaia di persone provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa e spesso in fuga dalla repressione nei Paesi di origine. La seconda fase, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, ha coinciso con l’ascesa di al-Qaeda; l’organizzazione guidata da Osama Bin Laden è stata la prima a diffondere con forza l’idea che la violenza dovesse rivolgersi anche contro i Paesi occidentali. Nel 2004-2005 è iniziata la terza fase, quella dei primi grandi attentati jihadisti in Europa: l’11 marzo 2004 a Madrid e il 7 luglio 2005 a Londra. L’ultima fase è quella che ha coinciso con l’ascesa dello Stato Islamico. A partire dal 2014, dalla proclamazione del “Califfato” secondo dati raccolti dall’ISPI sono 54 gli attacchi terroristici di matrice jihadista compiuti in Europa, ad opera di 73 attentatori.
Lo Stato Islamico ha inoltre rappresentato un polo di attrazione per persone che si sono radicalizzate in Europa: circa 5/6.000 tra gli oltre 40.000 combattenti che si sono uniti a gruppi armati in Siria e Iraq provenivano dai paesi dell’UE. Ora che il “Califfato” è stato sconfitto militarmente, il ritorno dei foreign fighters europei costituisce una seria minaccia. Inoltre, secondo le autorità di diversi Paesi europei, sono decine di migliaia le persone sospettate di simpatizzare in vario modo per la causa jihadista nel continente europeo.
Esistono però altri tipi di radicalizzazione, come quella di estrema destra, estrema sinistra e di matrice anarchica. Nel caso dei recenti attacchi alle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda, l’attentatore ha ad esempio fatto riferimento ad alcuni episodi e personaggi legati alla galassia dell’estrema destra europea.
L’UE ha considerato la lotta al terrorismo come una “top priority” già dal 2003, pubblicando poi nel 2005 una strategia antiterrorismo strutturata su quattro pilastri: prevenzione, protezione, perseguimento e risposta. A partire dal 2015, dopo l’ondata di attacchi che ha colpito soprattutto la Francia, l’UE ha adottato nuove misure, in particolare per contrastare il riciclaggio di denaro a favore delle organizzazioni terroristiche, rafforzare i controlli su acquisto e detenzione di armi e per scoraggiare la propaganda online. Negli ultimi anni, inoltre, i Paesi dell’UE hanno aumentato gli sforzi per reprimere la minaccia, aumentando gli arresti e le condanne legate al terrorismo. Oltre al lato repressivo, l’UE ha inoltre sollecitato i Paesi membri ad adottare delle strategie di contro-radicalizzazione e di de-radicalizzazione, per favorire percorsi rispettivamente di prevenzione e di reintegrazione sociale.
Uno dei principali strumenti attraverso cui l’UE si propone (con più o meno successo) di perseguire i propri obiettivi di sicurezza è la Politica estera e di sicurezza comune (PESC). L’obiettivo principale della PESC è quello di rafforzare l’azione internazionale dell’Unione, ad esempio attraverso lo sviluppo delle sue capacità diplomatiche e militari. All’interno della PESC, la Politica di sicurezza e difesa comune (PESD) è dedicata specificamente ad attività di peace-keeping, prevenzione di conflitti e in generale al rafforzamento della sicurezza internazionale. PESC e PESD sono in gran parte frutto dell’interazione fra i governi dei Paesi membri all’interno del Consiglio europeo, con uno scarso coinvolgimento di istituzioni sovranazionali come la Commissione e il Parlamento. Il fatto che il Consiglio possa prendere decisioni di politica estera solo all’unanimità costituisce un ostacolo all’azione esterna dell’Unione. Va inoltre segnalato che nel proprio bilancio l’UE assegna a queste politiche una percentuale molto bassa del totale (circa 2,4 miliardi di euro per il periodo 2014-2020, pari a circa lo 0.22% del totale).
Nel grafico Unione europea e NATO si sono sviluppate parallelamente dopo la seconda guerra mondiale; oggi, la maggior parte dei paesi dell’UE condivide la membership nell’Alleanza Atlantica.
L’attività svolta nell’ambito della PESD si è manifestata soprattutto attraverso missioni civili (ad esempio per l’addestramento delle forze di polizia e delle guardie di confine, o per la diffusione di pratiche relative all’attività giudiziaria e della pubblica amministrazione) e missioni militari svolte al di fuori dello spazio europeo - soprattutto nei Balcani, in Africa e in Medio Oriente. Essa non prevede però fra i suoi obiettivi, nemmeno in prospettiva, lo svolgimento della funzione “classica” di difesa del proprio territorio da parte dell’Unione in caso di minaccia esterna. Ciò deriva, oltre che dalle difficoltà nel coordinamento delle politiche di difesa dei Paesi membri, dal fatto che tale funzione è già svolta dalla NATO, di cui fanno parte buona parte dei membri dell’Unione (tutti tranne Austria, Svezia, Finlandia, Irlanda, Malta e Cipro).
La storia dei rapporti tra Alleanza Atlantica e integrazione europea, nel campo della difesa ma non solo, è da sempre piuttosto travagliata, come dimostra tra le altre cose la reiterata richiesta degli USA agli alleati europei di aumentare le proprie spese militari fino al 2% del PIL (tra i membri della NATO, i paesi UE spendono circa l’1,4%). Non sono mancati, però, momenti di reciproco rafforzamento tra PESD e NATO: a partire dal 2002, ad esempio, gli accordi Berlin Plus (I e II) hanno fatto sì che la NATO mettesse a disposizione le proprie risorse militari per missioni di peace-keeping dell’UE.
Ciò nonostante, l’Alleanza Atlantica ha comunque rappresentato un disincentivo, se non un fattore di rallentamento del rafforzamento della PESD, malgrado le recenti affermazioni di alcuni leader europei, da ultimo il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Diversamente, il Regno Unito ha sempre mostrato una forte resistenza, privilegiando la NATO quale cornice di cooperazione strategica e militare. Su questo fronte, Brexit potrebbe facilitare l’unità di intenti finora mancata tra i Paesi dell’UE. Il traguardo più importante raggiunto finora in questo senso è stata l’attivazione nel 2017 della Cooperazione strutturata permanente (PESCO), che prevede investimenti comuni in campo militare, con l’obiettivo di rendere più simili tra loro armamenti ed equipaggiamento delle varie forze armate nazionali. Simile a una forma di cooperazione rafforzata - valida cioè solo per gli Stati membri che intendono sottoscriverla - la PESCO ha visto la partecipazione di 25 Paesi europei, con i soli opt out di Danimarca, Malta e Regno Unito.
L’ambito comunque ristretto delle attività messe a fattor comune dai paesi UE nell’ambito della PESCO testimonia quanto ancora si sia distanti da un vero e proprio esercito europeo.
LE ANALISI
Esercito comune europeo: miraggio o necessità?
Più volte nel corso della storia dell’integrazione europea si è parlato del bisogno o della possibilità per l’UE di creare un esercito comune ai suoi stati membri. Il commento di Gianandrea Gaiani, direttore di Analisidifesa.it.
Interventi militari, reti jihadiste e terrorismo: lo Stato islamico in Europa
Anche se lo Stato Islamico nel Levante è stato sconfitto, l’Europa continua a ospitare cellule potenzialmente ostili e gli ingredienti per una nuova ondata di attacchi terroristici sono ancora tutti presenti. Leggi l’analisi
Il problema dell’Europa con la NATO
Con l’amministrazione Trump che mette in dubbio il futuro della NATO, secondo alcuni leader europei è arrivato il momento per l’UE di assumersi la responsabilità della propria difesa. Più facile a dirsi che a farsi. Leggi il commento
LA POSIZIONE ITALIANA
Oggi, rispetto alla minaccia terroristica, l’Italia non è immune dal rischio dell’estremismo violento. La sparatoria di Macerata del febbraio 2018 per mano di un giovane neofascista, Luca Traini - menzionato esplicitamente dall’autore della strage di Christchurch - ha infatti segnalato che anche l’estrema destra può costituire una seria minaccia alla sicurezza.
L’estremismo violento di matrice jihadista appare ancora più preoccupante, per quanto l’Italia sia stata finora risparmiata dall’ondata di attacchi che ha colpito altri Paesi europei. Nonostante nuclei jihadisti siano presenti in Italia fin dagli anni ’90, il numero di soggetti radicalizzati, specialmente “homegrown”, è comunque rimasto ridotto rispetto ad altri Paesi dell’UE. Modesto è anche il numero dei foreign fighters legati all’Italia: 138 provenienti dal nostro Paese, di cui solo 25 con passaporto tricolore. Se l’azione repressiva verso la minaccia terroristica sembra essersi dimostrata efficace, è mancata però una strategia nazionale di prevenzione e reintegrazione sociale.
Sul fronte della difesa, l'Italia non raggiunge l'obiettivo di spendere il 2% del proprio PIL nel settore militare suggerito dalla NATO. Tuttavia, il Paese è tra i più attivi in merito alla partecipazione alle missioni congiunte promosse dall'Alleanza. Confrontando per esempio la quantità di truppe oggi effettivamente schierate in missioni NATO, con quelle che ci si potrebbe attendere che ciascun Paese schieri in funzione delle sue dimensioni economiche (PIL), l'Italia è in netto "surplus". Roma fa cioè più di quanto ci si potrebbe attendere: ha infatti il terzo "surplus" di truppe tra i 29 Stati membri, superata soltanto da Romania e Turchia.
Dal punto di vista dell’impegno verso la politica di sicurezza e difesa comune europea, l’Italia è prima insieme alla Francia per numero di progetti avviati all’interno della Pesco: 7 come leader e 15 come partner. Ultimo in ordine di tempo, nel giugno 2018, è stato il lancio dell’“iniziativa europea di intervento”, pensata dal presidente francese Macron con l’obiettivo di sviluppare una cultura strategica condivisa e rafforzare la cooperazione tra le forze armate dei partecipanti. L’invito è stato accolto da alcuni paesi - Germania, Belgio, Danimarca, Spagna, Estonia, Francia, Paesi Bassi, Portogallo e Regno Unito - mentre l’Italia ha mantenuto la riserva, partecipando alle riunioni preliminari senza alla fine sottoscrivere l’iniziativa.