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Blog @Americana

Le politiche economiche di 4 anni di Trump: un bilancio

Mario Del Pero
06 Dicembre 2020

Cala il sipario su questi quattro anni di Presidenza Trump. Cala con grande mestizia, che le settimane successive al voto hanno rivelato – se mai ve ne fosse stato bisogno –  tutta l’inadeguatezza politica, istituzionale e, verrebbe voglia di dire, finanche morale di un Presidente il cui ultimo atto è quello di avvelenare ulteriormente i pozzi di un confronto politico già tossico nella sua estrema polarizzazione, alimentando ora la leggenda di una “vittoria rubata” e di frodi elettorali prodotte da una cospirazione globale i cui contorni (e la cui credibilità ultima) paiono degne di un cattivo romanzo di Ian Fleming: che farebbero sorridere se, visto il loro successo presso molti elettori repubblicani, non fossero prima ancora spaventevoli.

Cala il sipario ed è ovviamente tempo di bilanci. A partire dai risultati delle politiche di Trump, in particolare di quelle economiche, che secondo alcuni fan del Presidente – invero piuttosto approssimativi nelle loro analisi – avrebbero prodotto una crescita economica senza precedenti e, soprattutto, una diffusione dei suoi benefici anche sugli strati meno abbienti della società statunitense. Proviamo allora a guardare dentro a queste politiche per cercare di capire cosa le ha qualificate, quali sono – dati alla mano – i loro risultati, quali i loro limiti e contraddizioni, soprattutto se parametrati rispetto agli obiettivi dichiarati, forse la vera cartina di tornasole – quella del rapporto risultati/obiettivi – per provare a dare un qualche primo giudizio storico.

In questo come su altri tavoli di governo, Trump ha agito da repubblicano ortodosso: nel solco, cioè, delle politiche economiche del conservatorismo statunitense dell’ultimo mezzo secolo e delle filosofie che vi sottostanno. La grammatica, insomma, è stata quella della reaganomics centrata sul trittico tagli alle tasse, alta spesa pubblica e deregulation. L’eccentricità sarebbe stata rappresentata dal protezionismo e dal rigetto del libero scambio. Il condizionale però s’impone, che ne va di molto ridimensionata sia la rottura sia i risultati: Reagan fece ricorso a politiche di difesa dell’industria nazionale, soprattutto in chiave anti-giapponese; il protezionismo trumpiano – e i numeri su questo sono a dir poco implacabili – è stato tanto urlato quanto, spesso, simbolico e cosmetico.

I tagli alle tasse – sui redditi, ma soprattutto sull’impresa (nella riforma sicuramente più importante dell’era Trump, la corporate tax è passata dal 35 al 21%) – hanno offerto un importante stimolo fiscale. Al quale si è aggiunto quello di bilancio, pur in assenza di un piano di massicci investimenti infrastrutturali, promesso nella campagna elettorale del 2016 e mai realizzato. Un terzo stimolo indiretto è stato quello di una deregulation che ha smantellato con grande efficacia i provvedimenti di Obama in materia di ambiente e, sia pure con più fatica, alcuni di quelli relativi alla finanza introdotti dopo la crisi del 2008. Infine, i bassi tassi d’interesse – a più riprese sollecitati da Trump con una pressione forte in tal senso sulla FED – hanno completato l’opera. In una economia che di suo già correva (l’ultimo triennio obamiano vide una crescita del PIL del 2.5% annuo, che si riduce all’1.6 per i due mandati, anche se ovviamente va calcolato il -2.5% del 2009) questi molteplici stimoli hanno agito con indubbia efficacia, almeno fino a quando un agente esterno imprevisto (e mal gestito), la pandemia, non ha provocato la pesantissima crisi del 2020 [1].

Con Trump, il PIL è cresciuto alla stessa media dell’ultimo triennio obamiano: il 2.5% annuo. In un sistema che già sembrava agire a pieno regime, l’impatto si è fatto sentire su occupazione e redditi. La disoccupazione è scesa fino al minimo del 3.5% del dicembre 2019 (con Obama era passata dal 10% di ottobre 2009 al 4.7% di gennaio 2017); e si è, sia pure in modo limitato, invertita la curva di riduzione della labour force participation rate, il tasso di partecipazione della popolazione adulta al lavoro,  passato sotto Trump dal 62.8 al 63.2%. L’impatto sui redditi è stato se non inevitabile, certamente naturale: quelli medi sono cresciuti, tra il 2017 e il 2019, da 63761 a 68703 dollari annui per nucleo familiare. Pure in questo caso siamo più o meno in linea con l’ultimo triennio obamiano, anche se tra il 2009 e il 2012 vi fu un calo costante dei redditi medi che – e semplifico molto – i pro-Obama imputano all’onda lunga della crisi e alle politiche di quasi austerity imposte dai repubblicani dopo il mid-term del 2010 e gli anti-obamiani vuoi all’insufficienza dello stimolo del 2009 (a sinistra) vuoi all’eccesso di regolamentazione, agli alti costi della riforma sanitaria e alla mancata riduzione delle tasse (a destra).

Per ricapitolare, con Trump (e in forte continuità con molti elementi della presidenza Obama) abbiamo avuto alta crescita, bassa disoccupazione e aumento dei redditi medi. Frutto dei molteplici stimoli dell’amminstrazione Trump e, anche, del dinamismo e dell’adattabilità di molti settori dell’economia statunitense. E però, e come è inevitabile che sia, il quadro è molto più complesso e opaco di quello rivelato dalla semplice equazione PIL + occupazione + redditi medi. Lo è, soprattutto, se si valutano i parametri che Trump stesso nel 2016 aveva utilizzato come indicatori dello stato di malessere, relativo e assoluto, degli Usa: le variabili da modificare radicalmente “to make America great again”. Questi parametri – che nella semplicistica equazione trumpiana indicavano la drammatica perdita di sovranità del paese – sono il deficit di bilancio, quello commerciale, l’indebitamento pubblico (e la quota di debito in mani straniere) e la forza del manifatturiero. In ciascuno di essi, la condizione degli Usa è peggiorata, talora anche drammaticamente, anche questo in linea peraltro con il playbook repubblicano come ben evidenziano le tante analogie con Reagan e Bush Jr.. Tagli alle tasse e alta spesa pubblica (con una crescita, peraltro inferiore a quella promessa, del bilancio del Pentagono) provocano l’inevitabile ampliamento della forbice tra gettito e uscite. A dispetto degli ottimi risultati del PIL, il deficit è cresciuto di anno in anno: il 3.4% del PIL nel 2017, il 3.8% nel 2018 e il 4.6 nel 2019 (e in questo drammatico 2020, il Congressional Budget office stima addirittura un 15%). Siamo a tassi doppi rispetto a quelli dell’ultimo triennio obamiano, a fronte appunto di una crescita comparabile (sui doppi standard repubblicani rispetto al deficit tornerò magari in un altro commento, che anche questo caratterizza la storia statunitense dell’ultimo mezzo secolo). Il deficit esterno non ha sua volta visto correzioni e con Trump gli Usa hanno avuto i passivi commerciali più alti della loro storia: addirittura 872miliardi di dollari nel 2018, con circa un 20% in più rispetto ai passivi più alti dell’era Obama. Il debito è rimasto a sua volta stabile come la quota in mano a investitori stranieri, la “globalizzazione” del debito statunitense, che ha visto però una riduzione delle securities del Tesoro in mano cinesi. E la promessa re-industrializzazione del paese? Irrealistico se non chimerico nelle complesse catene di produzione transnazionali che caratterizzano l’interdipendenza contemporanea, il rapido rilancio del manifatturiero ha costituito nulla più che una promessa elettorale; anche in questo caso se osserviamo la curva di occupati non si manifestano discontinuità significative tra Obama e Trump. Più che da una impossibile reindustrializzazione, la crescita è stata ancora una volta trainata dai servizi, avanzati e non (oggi la sanità e l’assistenza alle persone occupano negli Usa più o meno lo stesso numero di persone di quelle, sommate, di edilizia e manifatturiero...).

E questo ci porta all’ultimo punto: gli effetti redistributivi di questa crescita ovvero la capacità di metterla al servizio di individui e famiglie con redditi più bassi. La crescita del reddito medio è, in tal senso, un indicatore importante che non va in alcun modo sottostimato. In un mercato del lavoro duale, con tutele deboli e tassi di diseguaglianza di reddito molto marcati, il governo federale può però promuovere o stimolare politiche dagli effetti rapidi e immediati. Si pensi, ad esempio, ad un’azione sul salario minimo, così centrale – in particolare nelle grandi e spesso costosissime aree metropolitane – in un’economia di servizi dove accanto a quelli più avanzati, oggi eccellentemente retribuiti, vi stanno naturalmente quelli a bassa qualifica (ristorazione, pulizia, assistenza alle persone) e bassisima retribuzione. Il salario minimo federale è oggi di 7.25 dollari all’ora, più o meno il 40% in meno rispetto a mezzo secolo fa. Diversamente da Obama, che aveva aumentato per ordine esecutivo il salario minimo dei dipendenti federali (e da tanti stati a governo democratico che hanno di molto aumentato quelli statali), Trump non ha fatto nulla e anzi si è dichiarato contrario. Il Presidente si è invece speso molto per contrastare un altro elemento fondamentale di una politica più equa e attenta agli Americani a basso reddito: l’estensione della sanità pubblica (con il programma Medicaid), che ha rappresentato uno dei pilastri di maggior successo della riforma di Obama. Che Trump e i repubblicani hanno osteggiato, cercando di rovesciare la riforma e, di fatto, promovendo politiche e iniziative che hanno determinatio un significativo aumento – circa 2milioni e 200mila tra il 2017 e il 2019 – degli americani privi di una qualche tutela sanitaria. Altri esempi potrebbero essere fatti – pensiamo solo alla passività dell’amministrazione Trump rispetto alla questione, oggi drammatica, del debito studentesco. Per dimostrare che, politiche e numeri alla mano, bisogna pensarci non una ma dieci volte prima di rappresentare il singolo mandato presidenziale di Trump come un momento positivo di svolta per l’America meno abbiente.

 

Note

[1] La valutazione delle politiche economiche di Trump, e la comparazione con gli anni precedenti, che qui si propone non tiene ovviamente conto del 2020 e si limita quindi al triennio 2017-2019.

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AUTORI

Mario Del Pero
ISPI Senior Associate Research Fellow e professore, Sciences Po

Image credits (CC BY 2.0): Fibonacci Blue

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