Leader and crisis to watch 2021: Abiy Ahmed e il conflitto nel Tigray in Etiopia | ISPI
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L'Etiopia e il conflitto in Tigray nel 2021
Leader to watch 2021: Abiy Ahmed
Jon Abbink
28 Dicembre 2020

Il Primo ministro etiope è stato insignito del Nobel per la pace nel 2019 per l’accordo con l’Eritrea. Ma quando lo scorso novembre è iniziato il conflitto nel Tigray in molti si sono chiesti: “Ha ricevuto il Nobel per la Pace e inizia una guerra l’anno successivo: perché?” 

A Novembre 2020, in Etiopia, nella regione settentrionale del Tigrai, è scoppiato un conflitto armato, inatteso secondo molti osservatori. Il Tigrai è uno degli “stati regionali” del paese e una delle regioni-chiave, sia dal punto di vista storico sia da quello culturale.  Dal momento che l’Etiopia – con circa 108 milioni di abitanti e un’economia in espansione – riveste un ruolo essenziale nell’Africa orientale, la questione riguarda il significato del conflitto per la stabilità del paese e il processo di riforme politiche.  Che cosa ha condotto a questa crisi? Continuerà nel 2021?

Abiy Ahmed, Primo Ministro etiope da aprile 2018, è un appassionato riformista e un genere di leader che il paese non ha mai visto. Ha avviato cambiamenti politici e giuridici significativi con lo scopo di trasformare la “cultura politica” autoritaria dell’Etiopia. Ha – coerentemente – fatto appello alla cooperazione delle parti e dei gruppi (etnici) e alla riconciliazione, cercando di trovare nuove modalità per affrontare i radicati problemi politici interni. Questi ultimi sono conseguenti, in particolare, al lascito dei suoi predecessori, in particolare del Primo Ministro  Meles Zenawi (in carica nel periodo 1991-2012) e il suo partito, il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (TPLF), il movimento insurrezionale che prese il potere nel maggio 1991 e governò in maniera profondamente autoritaria, mantenendo un ruolo dominante all’interno della coalizione del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF).

È vero che Abiy (che non appartiene al Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai) è stato insignito del Nobel per la pace nel 2019 in virtù dell’accordo di pace raggiunto con l’Eritrea, mettendo così fine a anni di immobilismo, e che dopo il conflitto iniziato il 4 novembre molti osservatori si sono chiesti: “Ha ricevuto il Nobel per la Pace e inizia una guerra l’anno successivo: perché?”  L’errore insito in questa superficiale impostazione è da mettere in relazione alle complessità politiche – grandemente sottostimate - del paese del Corno d’Africa nell’epoca precedente ad Abiy. Inoltre, un vincitore del Premio Nobel per la Pace non può rimanere “ostaggio” di questo riconoscimento per il resto della sua carriera nel momento in cui sorgono problemi gravi che mettono a repentaglio la pace e la stabilità nazionali.
E questi problemi si sono concretizzati. Inutile aggiungere che il conflitto armato, nelle dimensioni in cui l’abbiamo visto, mette a profondo disagio: sono state uccise delle persone, si sono creati rifugiati e sfollati, si sono verificate delle distruzioni e sono state sperperate risorse economiche. Ma lo scontro era inevitabile a causa delle relazioni  tra un governo regionale (autonomo) e l’élite del  TPLF con il governo federale. Il rapporto si era profondamente inasprito a causa di atti di sabotaggio e sovversivi. Si era instaurata una volontà di non cooperare  da parte del governo del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai nella regione stessa (abitata da circa il 7% della popolazione totale del Paese) con il governo federale riformista di Addis Abeba. L’élite politica del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai a Meqele (la capitale del Tigrai) si comportava come “uno stato nello stato” – non secondo quanto si intende dal punto di vista federale e costituzionale, ma in senso mafioso.

Sebbene il conflitto recente sia stato definito dall’élite politica del TPLF una questione “etnica” con i tigrigni “divenuti ingiustamente degli obiettivi”, i fatti raccontano una storia diversa. Innanzitutto, non c’era alcuna retorica governativa contro “i tigrigni”, al contrario. In secondo luogo, erano state mosse specifiche accuse nei confronti di funzionari tigrigni/membri del TPLF che avevano abusato del loro potere politico, economico e militare. Alcuni di loro, accusati di appropriazione indebita, violenze e corruzione erano già stati portati davanti alla giustizia nel corso dei due anni precedenti. In seno all’esercito federale, si sono registrati atti  sovversivi da parte di alcuni (non tutti) officiali tigrigni, tanto che sono stati espulsi o arrestati. Uno degli esempi più eclatanti è  quello di un Generale, incardinato presso il Ministero della Difesa, che il 3 novembre ha tagliato le linee ICT di comando esistenti tra il quartier generale di Addis Abeba e il Comando settentrionale nel Tigrai, immobilizzando così l’esercito federale di stanza nella regione e permettendo alle forze del  TPLF di prendere di sorpresa le due basi dell’esercito federale a  Dansha e Meqele. Gli attacchi hanno causato la morte di centinaia di soldati federali, uccisi dai loro stessi commilitoni. L’uomo è ora in stato di arresto.

A inizio dicembre l’esercito federale ha “messo in sicurezza” la regione con pochissime vittime civili. Gli sforzi continuano per insediare un’amministrazione di transizione, in vece del  governo del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai, nonostante si registrino ancora schermaglie con altre unità del TPLF e non tutti i leader del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai siano stati assicurati alla giustizia. Quel che risulta interessante sino ad ora è la quiete relativa della regione e la generalizzata cooperazione della popolazione locale, che sembra in gran parte sollevata dall’evoluzione della situazione. Questo potrebbe indicare che non si riaccenderanno le scintille di una guerra di insurrezione. Pare proprio, invece, che le condizioni siano profondamente diverse da quelle degli anni 1980. Chiaramente esistono sfide concrete, in particolare per ristabilire le vie di rifornimento, l’accesso ai campi profughi per fini umanitari (in cui si trovano circa 100.000 eritrei), per instaurare un governo credibile, e ottenere un maggior sostegno tra i tigrigni.

Devono altresì essere prese in considerazione le possibili ramificazioni internazionali della campagna. In proposito ci sono opinioni discordanti. Molti, all’interno delle Nazioni Unite, dei media mondiali e delle ONG dei paesi donatori, e ovviamente anche i social media, hanno velocemente pronosticato gravi crisi e instabilità oltre all’internazionalizzazione del conflitto. Ma vi sono scarse prove a corroborare tali tesi.  L’impazienza con cui si è creata questa narrazione e si sono espressi questi pronostici è sorprendente. Ci sono state vittime, ma l’aspettativa di una catastrofe umanitaria di proporzioni massicce con migliaia di civili uccisi nel Tigrai e ciò che ne consegue, non è stata confermata. Esistono invece prove di uno sconvolgente massacro di civili avvenuto il  9 novembre nella città di Mai Kadra (il giorno precedente l’arrivo dell’esercito federale), ma perpetrato da truppe di miliziani del TLPF e da giovani attivisti (i Sämri) sugli abitanti di Amhara, e dunque non ci sono state vittime tra i tigrigni. Sì, quando il conflitto ha raggiunto l’apice, circa 50.000 rifugiati del Tigrai erano stati accolti nei campi sudanesi lungo il confine (nel frattempo una parte di questi sono rientrati). Ma non è in questione un inasprimento del disastro umanitario.

Il protrarsi o la massiccia internazionalizzazione del conflitto nel 2021  sono improbabili. Mentre ci sono problemi con il Sudan, è inverosimile che il conflitto si estenda a quel paese, così come lo è un sostegno del governo sudanese al Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai. L’Eritrea ha dichiarato il proprio  appoggio all’Etiopia e gli osservatori hanno affermato che c’è un affiancamento materiale all’esercito etiope nelle zone di confine, come ad esempio nei pressi della città di Humera. Il Primo Ministro Abiy ha dovuto agire con cautela per non rendere importante e visibile il sostegno eritreo in quella che ha definito “un’operazione di ordine pubblico”. 

Perché nel 2021 dovremmo tenere d’occhio la crisi del Tigrai? Sebbene i combattimenti siano essenzialmente finiti, i leader sconfitti del TPLF auspicano un’instabilità duratura della regione e, sia loro sia i loro sostenitori nei media mondiali, continueranno a cercare di internazionalizzare il conflitto.  Ma le ricadute internazionali del conflitto saranno limitate. La sua dimensione nazionale è verosimilmente più importante, e qui dobbiamo comprendere gli attori locali. Nell’arena politica troviamo il Primo Ministro Abiy e il suo governo federale, il nuovo partito al potere (il Partito della prosperità), gli attivisti e i gruppi etnico-regionali, la narrazione e la propaganda dei social media. Tutti contestano il sistema politico e  sgomiteranno per avere influenza durante la prossima campagna elettorale, all’inizio del 2021. Le elezioni di maggio del prossimo anno avranno forti ripercussioni sul futuro corso degli eventi.    In attesa del voto,  il Primo Ministro Abiy Ahmed è un leader da non perdere di vista, anche perché gode di grande popolarità a livello nazionale.

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Africa Etiopia Abiy Ahmed
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AUTORI

Jon Abbink
Professor, African Studies Centre, Leiden University

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