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Commentary

L’elezione del sindaco di Londra: lo specchio “accuratamente distorto” della politica inglese

05 maggio 2016

Quella delle “città globali” è una delle realtà sociali in cui le trasformazioni – e le contraddizioni – della politica odierna si manifestano con maggiore evidenza, dando corpo a fenomeni che nelle corrispondenti “periferie” possono essere altrimenti percepite come retoriche più o meno interessate. In questo senso, le elezioni per la sindacatura di Londra sono un esempio lampante dei nuovi nessi che emergono fra le dimensioni locali e quelle (inter)nazionali dei processi politici e sociali odierni.

Le due figure politiche che hanno occupato la carica elettiva di Mayor of London dalla sua creazione nel 2000 hanno esercitato un’influenza spesso notevole sugli equilibri interni dei partiti e del sistema politico inglese. Fino al 2008, negli anni del predominio del New Labour, il sindaco labourista Ken Livingston fu uno dei più eminenti critici “da sinistra” della terza via alla base dell’azione dei governi di Tony Blair e Gordon Brown, e uno dei principali esponenti di una linea politica che dopo il disastro elettorale delle politiche del 2015 avrebbe ottenuto la leadership del partito con Jeremy Corbyn. D’altro canto, anche il sindaco uscente Boris Johnson, la cui conquista della carica fu la prima significativa vittoria elettorale del Partito conservatore guidato da Cameron, costituisce sempre più una spina nel fianco del vecchio compagno di università (e di bisbocce). La più clamorosa presa di distanza di Johnson dalle posizioni espresse dal Primo ministro in cui la distanza fra riguarda il referendum del 23 giugno, in occasione del quale gli elettori britannici esprimeranno la loro volontà sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Il supporto del sindaco alla campagna per il “no” è stato interpretato dai più come una sfida alla leadership di Cameron, che su questo tema rivendica invece i risultati ottenuti con l’accordo raggiunto lo scorso febbraio con i capi di governo europei che ridefinisce lo status della Regno Unito nell’Unione. La posizione di Johnson esaspera peraltro le tensioni interne al partito, sottoposto alla competizione delle forze populiste (rappresentate non solo dall’Ukip, ma anche dai partiti indipendentisti nazionali, in particolare quelli scozzesi, forti del loro inedito successo elettorale) e alle istanze pragmatiche e neo-paternaliste avanzate dal One-national Conservatism (con cui Johnson ha affermato di identificarsi), corrente ideologica il cui euroscetticismo è un perfetto corollario della volontà di superare l’impostazione politica thatcheriana basata sul laissez-faire.

Tuttavia, concentrare l’attenzione unicamente dal peso politico di coloro che finora hanno ricoperto la carica non renderebbe ragione della rilevanza di tale elezione – soprattutto alla luce della minore “carica carismatica” dei due candidati che hanno effettivamente possibilità di vincere la competizione. Il candidato che i sondaggi indicano come favorito, il labourista Sadiq Khan, può contare su una “narrazione” per molti aspetti accattivante: figlio di un immigrato pakistano impiegato nell’agenzia dei trasporti pubblici, è stato il primo politico britannico di fede musulmana a occupare una posizione di governo di primo piano (in quanto Minister of State for Communities and Local Government nel gabinetto di Brown). Pur presentandosi come il candidato che meglio rappresenta la popolazione londinese, Khan è tuttavia percepito da molti come un politico che deve i suoi successi più al supporto fornito dal suo partito (ed in particolare dalla sua attuale corrente di maggioranza) che da forti qualità personali. Dall’altro lato, il candidato Tory, Zac Goldsmith, è un backbencher che ha assunto più volte posizioni indipendenti rispetto agli orientamenti del proprio partito, ma che è stato più volte accusato da media e avversari di essere in scarsa sincronia con la popolazione della città, dato il contesto familiare e sociale estremamente privilegiato da cui proviene. Goldsmith ha forti credenziali per quanto riguarda le politiche ambientali (tema assolutamente non secondario nel governo della città di Londra), ma i toni pacati (se non eccessivamente timidi, come sostenuto da alcuni compagni di partito) che hanno caratterizzato la sua campagna non hanno impedito lo scoppio di polemiche che ha occupato buona parte del dibattito nelle ultime settimane. L’accusa mossa a Goldsmith è di aver cercato di aumentare i propri consensi alimentando la strisciante “islamofobia” con allusioni a presunti legami di Khan con estremisti musulmani – e addirittura ad un suo sostegno dell’IS –  sulla base dei soli contatti professionali intrattenuti da questo nella sua veste di avvocato specializzato in casi inerenti la tutela dei diritti umani. Inoltre, hanno destato scalpore le email inviate dallo staff elettorale Tory a cittadini londinesi con cognomi (almeno apparentemente) Hindu, Sikh o Tamil, nelle quali li si metteva in guardia dai futuri effetti nocivi, in termini di sicurezza e di tasse più elevate, degli “esperimenti sociali” di Khan e Corbyn sulle loro comunità. D’altro canto, lo stesso partito labourista è stato oggetto della sua parte di controversie, a causa di alcune dichiarazioni giudicate antisemite da parte di figure di primo piano fra le quali lo stesso Livingston.

A parte le questioni contingenti di ordine politico ed etico sollevate dal profiling elettorale e del ruolo degli spin-doctor, l’appello alle comunità nazionali/etniche/religiose londinesi (ri)produce il “fallimento” del melting pot di blairiana memoria ufficialmente dichiarato da Cameron qualche anno fa. Quella che emerge è l’immagine di una pluralità di comunità separate che possono tollerarsi, e magari convivere in maniera armoniosa, ma che non formano però un’unica comunità cittadina. Il rischio immediato, tuttavia, non deriva da un’eventuale sovrimposizione di tale immagine alla realtà sociale; peraltro, la comunità cosmopolitica londinese ha reagito alla pratica del messaggio mirato facendone una questione centrale del dibattito pubblico. Il vero pericolo pare invece sussistere a livello strutturale, poiché tale reazione rende palese la profonda discrepanza fra i valori e le condizioni socio-economiche “metropolitani” della capitale da una parte e quelle della “periferia” dall’altra. Non stupisce troppo che i livelli delle medie di reddito, di istruzione della forza lavoro o di qualità dell’insegnamento di Londra siano imparagonabili con quelli rilevabili altrove nel Regno Unito; eppure, ciò che rileva non sono gli squilibri in sé, bensì l’apparente incapacità del sistema politico-istituzionale – e in particolare dei partiti mainstream – di gestirli in maniera efficace, creando uno spazio di opportunità occupato dalle istanze populiste, solo apparentemente marginali nella corsa per la sindacatura. A questo riguardo è significativo che la differenza fra gli alti livelli di tolleranza e sostegno dell’immigrazione a Londra e l’insofferenza diffusa nel resto del paese hanno permesso a Nigel Farage di accusare la politica del governo britannico di essere ideata “da londinesi per londinesi”, e di aggiungere alla piattaforma politica del suo UK Independence Party il tema del conflitto fra le priorità metro(cosmo)politane (ad esempio diritti civili e tutela dell’ambiente) e quelle nazionali come sicurezza e occupazione. Ovviamente, anche i londinesi hanno fra le loro priorità questioni molto “pragmatiche” – alloggi, criminalità, traffico – ma l’immagine del cittadino affettato e insensibile ai valori custoditi nella Britannia profonda è potente, e potrebbe diventare in futuro sempre più determinante nelle dinamiche della raccolta del consenso. D’altronde, nemmeno le considerazioni più ragionevoli sulle opportunità di crescita e sviluppo offerte dal trasferimento di una parte della ricchezza creata a Londra possono compensare del tutto l’indebolimento di un dibattito autenticamente nazionale e del sistema politico in generale, causato dalle rivendicazioni e dalle frustrazioni delle parti del paese che si percepiscono come emarginate. A essere in pericolo non è quindi solo il sistema Westminster o l’integrità del Regno Unito, ma addirittura il nesso fra rappresentanza democratica e dimensione territoriale nazionale, scardinato da una sovrapposizione del conflitto fra centro e periferia con quello fra “élite” e “popolo”.

In questo senso, a prescindere dal suo vincitore, la competizione per la carica di sindaco di Londra presenta una rappresentazione non tanto degli equilibri di forza del sistema politico nazionale, quanto piuttosto le distorsioni di quest’ultimo dovute alle forti asimmetrie esistenti fra la capitale e il resto del paese. Seppure solo a titolo di suggestione, vale la pena ricordare che la relativamente recente carica di Mayor of London convive con quella più antica di Lord Mayor of London. Sebbene oggi tale figura sia per lo più cerimoniale, essa continua ad esercitare una funzione di promozione delle attività della City of London Corporation (ovvero dei soggetti organizzati all’interno del solo Square Mile finanziario della città, il cui rendimento economico è pari a quello di Glasgow ed Edimburgo messe insieme). Coerentemente con i principi corporativi, ad esercitare il diritto di voto nell’elezione del Lord Mayor sono non solo le (pochissime) persone fisiche residenti nella minuscola contea, ma anche da tutte le (numerosissime) imprese e organizzazioni che hanno sede in essa. IL principio di rappresentanza alternativo contenuto in questa “istituzione fossile” è al contempo arcaico e post-moderno, e in un’epoca di così forti tensioni che incombono sulla rappresentanza democratica su base territoriale può rappresentare un valido motivo di riflessione (o di preoccupazione) rispetto a ciò cui siamo risposti a rinunciare o a sperimentare per reagire alle inadeguatezze della politica “tradizionale”.

 

 

Antonio Zotti, ISPI Associate Research Fellow e Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

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