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Commentary

L’empatia di Trump verso gli iraniani è falsa e pericolosa

Stella Morgana
24 luglio 2018

“Ho un messaggio per gli iraniani: gli Stati Uniti vi ascoltano, gli Stati Uniti vi sostengono, gli Stati Uniti sono con voi”. È il 22 luglio, una domenica sera nell’estate californiana. Il Segretario di Stato americano Mike Pompeo pronuncia il suo discorso alla biblioteca Ronald Reagan, Simi Valley. Il nome dell’evento sembra un’eloquente invito all’azione: “Sostenere le voci iraniane”. Pompeo si rivolge per ben 17 volte al “popolo iraniano”. Elogia “l’antica e vibrante civiltà” del passato, prima di parlare per conto degli stessi iraniani e farsi portavoce dei loro desideri: “Gli iraniani vogliono essere governati con dignità, responsabilità e rispetto”. Circa due ore dopo, il presidente americano Donald Trump irrompe nell’arena social con una minaccia all’Iran. L’invettiva consegnata a Twitter è tutta in maiuscolo, la traduzione è la seguente: “Non minacciate mai più gli Stati Uniti o patirete conseguenze quasi mai viste nella storia”. Il tweet di Trump è una risposta alle parole del presidente iraniano, Hassan Rouhani che aveva avvertito Trump a “non giocare con la coda del leone” perché “se ne pentirebbe”, visto che “l’America dovrebbe sapere che la pace con l’Iran è la madre di ogni pace e la guerra con l'Iran è la madre di tutte le guerre”.

Nonostante lo scollamento tra i rilievi compassionevoli di Pompeo nei confronti degli iraniani e la violenza del tweet di Trump sia evidente, entrambi i commenti esprimono l’attuale “politica dell’empatia” statunitense verso quello che sistematicamente viene evocato come “il popolo iraniano”.

Da dicembre 2017, in particolare, l’amministrazione americana si spende in diverse attività finalizzate a fomentare pubblicamente i focolai del malcontento in Iran. Nel tentativo di sabotare l’apparato di potere ed erodere la base di consenso del regime di Teheran, continua a cercare di galvanizzare gli iraniani, sfruttandone le ragioni di frustrazione sociale ed economica. Come? Una ostentata benevolenza verso “la voce – a lungo ignorata – degli iraniani” si mescola alla ferocia di misure e politiche severe che colpiscono in primo luogo la gente comune, gli Iraniani delle classi più basse e della classe media impoverita, in particolare. Il riferimento è: 1) all’abbandono dell’Iran deal – il Joint Comprehensive Plan of Action, ovvero l’accordo firmato nel 2015 tra i Paesi 5+1 (i membri del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania), l’Unione europea e l’Iran per la sospensione delle sanzioni imposte da Ue e Nazioni Unite contro il programma nucleare di Teheran – i cui termini sono stati sempre rispettati dall’Iran; 2) alla nuova tornata di sanzioni, che avranno un duro impatto sull’economia iraniana, già messa in difficoltà dal crollo del rial che ha raggiunto 10,500 toman per un euro. Secondo la roadmap tracciata dal Tesoro Usa, le prossime date chiave sono il 6 agosto e il 4 novembre prossimi [qui maggiori dettagli e tutti i settori coinvolti]; 3) alla rincorsa di un Travel ban punitivo che impedisce de facto agli Iraniani di entrare negli Stati Uniti o ne rende quasi impossibile le pratiche di visto [qui per capire come funziona].

Questa strategia ha lo scopo di minare la base di consenso della Repubblica islamica, allargando il divario tra il governo e i diversi strati della società iraniana. Nonostante il Dipartimento di Stato Usa neghi ogni sua mossa volta a scatenare un processo che porterebbe a un rovesciamento del regime, la guerra di parole avviata da Trump e Pompeo contro Teheran è metodica e precisa. Da un lato, a Washington – rispondendo a una domanda della Reuters – le autorità dicono: “Non stiamo cercando un regime change. Stiamo lavorando affinché il comportamento del governo iraniano cambi”. Dall’altro lato, gli Stati Uniti non perdono occasione per alimentare le frustrazioni degli iraniani e canalizzarle contro il sistema teocratico.

L’ostentata politica dell’empatia di Trump ha avuto un’accelerata a fine 2017, quando nel giro di pochi giorni le proteste contro la deteriorata situazione economica e il regime si sono diffuse in diverse città iraniane. Il 31 dicembre 2017 il presidente Usa ha twittato: “Le persone (gli iraniani) stanno finalmente diventando sagge rispetto al loro denaro rubato e sperperato per il terrorismo”. Il giorno successivo, ha aggiunto: “L’Iran sta fallendo ad ogni livello, nonostante il terribile Iran deal firmato dall’amministrazione Obama. Il grande popolo iraniano è stato represso per molti anni. È affamato di cibo & libertà. Insieme ai diritti umani, la ricchezza è stata saccheggiata. È tempo di cambiare!”. Utilizzando lo stesso registro, Trump avvertiva gli iraniani che l’America è in attesa: “Quanto rispetto per il popolo iraniano che prova a riprendersi il proprio governo corrotto. Vedrete il grande supporto degli Stati Uniti a tempo debito”.

Questi tweet sembrano incarnare quello che George Orwell scriveva nel 1946 riguardo al linguaggio della politica, che spesso si affida a un “miscuglio di vaghezza e pura incompetenza”. Ciò che regolarmente l’amministrazione Trump persegue è un modello di sostegno che prevede de facto lo schiacciamento della capacità d’azione degli iraniani, come se necessitassero di un portavoce che esprima le loro richieste e ne decodifichi i desideri. Agendo come un potere dominante, ignora – dunque – il potenziale ruolo degli iraniani come agenti del loro stesso cambiamento. Inoltre, diffonde notizie non sempre accurate attraverso l’account Twitter del Dipartimento di Stato e il sito ShareAmerica, entrambi in lingua persiana. Allo stesso tempo, finanzia – su diverse piattaforme – media in Farsi come Radio Farda, The Voice of America’s Persian News Network e Broadcasting Board of Governors (BBG), che hanno tutti l’obiettivo di combattere “per la libertà” degli iraniani. In questo contesto già esplosivo, Nikki Haley, l’ambasciatrice statunitense all’Onu, ha recentemente ritwittato un post del MEK, Mojahedin-e Khalq, considerato un gruppo terrorista da Iran e Iraq, fino a poco tempo fa anche nella lista nera Ue.

Così, mentre Trump persevera nell’implementare la sua strategia da bullo, il rischio di generare una realtà molto pericolosa aumenta. E le ragioni sono le seguenti: 1) promuovere l’immagine del Grande Satana Usa – in particolare tra le autorità di Teheran – significa alimentare una polarizzazione ideologica, che fa il gioco dei falchi di entrambe le parti; 2) incitare i manifestanti –  insinuandosi attraverso i social media con notizie inesatte o cercando di manipolare malcontento, contrarietà e rabbia sociale – non porterà nessun vantaggio di lungo periodo per gli iraniani comuni; 3) provocare una (potenziale) e massiccia azione militare distruggerebbe ogni barlume di speranza e stabilità politica in Iran e nell’intera regione.

Dunque, perché gli iraniani dovrebbero essere “salvati” dagli Stati Uniti? Se hanno bisogno di cambiamenti o di riforme, questo processo deve scattare e consumarsi all’interno.

 

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI

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Tags

Iran Donald Trump medio oriente e nord africa
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AUTORI

Stella Morgana
LIAS, Leiden University

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