C’è una battuta che circola in questi giorni nelle piazze ribelli d’Egitto. «Del primo presidente ci siamo liberati in diciassette giorni, del secondo in quattro, per il terzo basterà un tweet» scherzano i giovani protagonisti dello tzunami politico che loro chiamano rivoluzione contro i Fratelli Musulmani e molti, all’estero, colpo di stato militare.
Nell’umorismo consolatorio che i cairoti non abbandonano mai c’è un po’ la sintesi di quanto accaduto negli ultimi due anni e mezzo e la prospettiva fatta di luci e ombre di quanto potrebbe accadere. Quando nel febbraio 2011 il faraone Hosni Mubarak abbandonò lo scettro trentennale cedendo alle pressioni del popolo (e dell’esercito) si aprì una stagione nuova di potenziali opportunità ma anche di caos. A gestirla s’imposero immediatamente i due più muscolosi attori d’Egitto, i moloch che si erano già sfidati per oltre sessant’anni, i generali e gli islamisti. La terza grande forza emersa nei giorni di Tahrir, i giovani, erano troppo ingenui, impreparati, in qualche modo addirittura stupiti della propria poderosa massa critica per ritagliarsi un ruolo politico. La cronaca ci ha raccontato il day by day di quella transizione che a sorpresa si sarebbe ribaltata in questi ultimi giorni prima ancora che la Storia avesse avuto modo di sistematizzarla.
Oggi, dopo aver abbracciato tanto i militari che gli islamisti nell’entusiasmo cieco per la fine del regime, dopo aver combattuto contro il governo temporaneo ma molto autoritario del Consiglio Superiore delle Forze Armate (il famigerato SCAF) insieme ai Fratelli Musulmani, al punto da votare il loro presidente pur di non fare un passo indietro, dopo aver manifestato per mesi contro il presidente Morsi rivelatosi rapidamente incapace di raddrizzare la disastrosa situazione economica e interessato solo ad accaparrarsi poltrone per i suoi compagni, piazza Tahrir, simbolo degli irriducibili giovani ribelli egiziani, è tornata ad acclamare l’esercito come il solo possibile argine al dilagare islamista, l’unico alleato in grado di trasformare il malcontento rappresentato dagli oltre 22 milioni di firme anti-governo raccolte dal movimento Tamarod nella spallata che ha tramortito i Fratelli Musulmani (il presidente democraticamente eletto un anno fa è stato deposto, i leader politici sono stati arrestati e le tv del gruppo sono state oscurate) e che ha disorientato l’intera galassia islamista regionale.
E adesso? Analisti e rivoluzionari citano continuamente il paradosso del Comma 22, dall’omonimo romanzo di Joseph Heller, quello che fotografa un’apparente possibilità di scelta laddove in realtà, per motivi logici nascosti o poco evidenti, la strada praticabile è una sola. In pratica un circolo vizioso.
Piazza Tahrir rivendica la propria identità liberale e tollerante rispetto ai Fratelli Musulmani anche se per affermarla è disposta ad accettare strumenti non democratici. I Fratelli hanno vinto in modo democratico, con il voto di moltissimi loro avversari politici che volevano sbarrare la strada al candidato dell’ex regime Shafiq, ma si sono comportati come aspiranti dittatori illiberali spartendosi il potere tra affiliati devoti quanto scadenti (nell’occupare le poltrone a capo di 17 governatorati hanno nominato a Luxor un esponente di quella Jihamya Islamya responsabile degli attacchi terroristici alla valle dei templi). L’esercito da una parte non ha mai digerito lo scacco di essere stato messo da parte dalla piazza nel 2012 e aspettava da tempo la rivincita, dall’altro ha parecchio a cuore la stabilità del paese da cui dipende il mantenimento dei suoi privilegi (i militari controllano oltre un terzo dell’economia egiziana). Non a caso dopo l’elezione di Morsi i generali non trovarono sconveniente accordarsi con i nuovi potenti da cui ottennero il controllo del budget della difesa e molta autonomia, compresa la possibilità d’intervenire in casi d’emergenza senza consultare il presidente (la prerogativa con cui l’hanno deposto).
Il problema è che i Fratelli Musulmani si sono rivelati assai meno capaci e preparati di quanto la leggenda costruita in clandestinità li ritraeva. L’economia è crollata a picco, la disoccupazione è balzata al 13%, il pound egiziano è precipitato mentre la valuta straniera fuggiva: gli analisti danno al paese sei mesi di tempo prima della bancarotta. E l’esercito aspettava, aspettava, aspettava. Quando la genuina rabbia popolare è montata (le motivazioni sono assai più variegate della rivoluzione contro Mubarak, c’è chi lamenta l’islamizzazione del paese e chi il caro-vita, chi le infrastrutture da terzo mondo e chi l’ossessione per la politica estera a scapito di quella interna) l’ha cavalcata. In fondo anche quando lo SCAF era il nemico in piazza Tahrir c’erano le foto del generalissimo presidente Nasser (non esattamente un democratico).
Il futuro è un grande punto interrogativo, considerando che il mondo sta a guardare confuso capitanato dagli Stati Uniti oscillanti tra il difendere il governo democraticamente eletto degli islamisti e pesare e ripesare il golpe dei militari, a cui passano 1,3 miliardi di dollari l'anno. Anche perché difficilmente i militari egiziani, che hanno preso in mano la situazione, vorranno poi davvero governare un paese sul baratro del fallimento rischiando a quel punto di dover esprimere il prossimo presidente potenzialmente silurato da un tweet.