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Commentary
L’esternalizzazione delle politiche migratorie UE in Africa: conseguenze e rischi
Lorenzo Gabrielli
30 Agosto 2019

Quando in Europa si discute di mobilità africane è sempre necessario fare alcune precisazioni: in primo luogo, i movimenti interafricani sono largamente maggioritari rispetto ai movimenti orientati verso l’Europa; secondo, le migrazioni dei cittadini dei paesi dell’Africa a sud del Sahara in Europa sono abbastanza marginali nei numeri totali. Il peso politico, mediatico e simbolico dei flussi migratori dall’Africa sugli equilibri del vecchio continente è assolutamente sproporzionato rispetto alla dimensione dell’immigrazione africana in Europa. Ciò si deve a molteplici fattori, tra cui una iper-visibilizzazione del fenomeno e un utilizzo strumentale della presenza di migranti africani da parte di diversi attori politici, al fine di perseguire cinici obiettivi elettorali e favorire le lobby dell’industria della sicurezza.

Che impatto produce l’ossessione europea di controllare questi arrivi sui movimenti che si sviluppano all’interno del continente africano? A prima vista, potremmo pensare a due contesti sconnessi, ma se approfondiamo l’analisi ci rendiamo rapidamente conto che non è così. Quest’ossessione europea si traduce in un’esternalizzazione del controllo migratorio che ha cominciato a svilupparsi negli anni novanta: paradigmatici sono i casi degli accordi, formali o informali, tra Spagna e Marocco, o tra Italia e Tunisia o Libia. Il processo di esternalizzazione si è concretizzato principalmente in una collaborazione con i paesi di “transito” o di origine delle migrazioni per accettare i ritorni forzati, filtrare le mobilità, controllare i tentativi di migrazione informale (tanto marittima che terrestre), scambiare informazioni e autorizzare la presenza di ufficiali di collegamento europei.

Il concetto di “migrante in transito” è però estremamente problematico, visto che ex ante, cioè prima di tentare di arrivare in Europa, è praticamente impossibile definire in tal modo una persona su basi solide, tenuto conto del fatto che spesso la volontà migratoria non si concretizza. Ciò provoca un’applicazione estesa e indiscriminata dei controlli e la repressione delle mobilità, che investe anche i rifugiati ed i migranti che non hanno intenzione di uscire dall’Africa.

La delocalizzazione europea del controllo dei movimenti umani si è intensificata a partire dalla seconda metà degli anni 2000 in Africa del Nord, a causa dell’azione spagnola in Africa occidentale, accompagnata poi da quella di altri paesi Europei, tra cui l’Italia, e infine estesa alla zona orientale del Sahel, attraverso l’intervento dell’UE dopo il summit di La Valletta del 2015 e la creazione del Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa. Appare decisamente paradossale come lo strumento scelto per lottare contro le cause profonde, e quindi strutturali, delle migrazioni africane – EU Trust Fund – sia in realtà uno strumento previsto dall’UE per fronteggiare le emergenze. Questo ci dice molto sull’approccio europeo, sempre reattivo e costruito sulla base di presunte “crisi migratorie” legate agli arrivi di migranti e irregolari alle frontiere marittime o terrestri; crisi che in realtà si ripetono ciclicamente dagli anni novanta.

La progressiva esternalizzazione del controllo dei flussi migratori negli spazi di transito del continente africano genera conseguenze rilevanti per la libertà di circolazione esistente non solo in Africa occidentale, nel contesto del protocollo di libera circolazione dell’ECOWAS, ma anche nell’area saharo-saheliana, grazie a regimi di visti molto differenti rispetto a quelli europei. Sebbene il protocollo ECOWAS sia stato violato varie volte in passato dai paesi della regione per interessi politici congiunturali, con conseguenze spesso drammatiche per le persone migranti, è tuttavia necessario considerare che, in linea generale, le mobilità spontanee che attraversano le frontiere nazionali sono un fenomeno molto esteso e largamente tollerato dalla maggioranza degli paesi dell’Africa occidentale.

Paradossalmente, l’Europa dichiara di voler appoggiare un approfondimento della libera circolazione in Africa Occidentale, nel contesto dell’ECOWAS, ma in realtà lo fa spingendo i paesi africani a sviluppare una politica migratoria e di controllo delle frontiere sempre più repressiva. Il Fondo fiduciario prevede la definizione di progetti come WAPIS (West African Police Integration System) e GARSI-Sahel (Groupes d’Action Rapide – Surveillance et Intervention au Sahel), gestiti rispettivamente da Interpol e dalla Guardia Civil spagnola, insieme ad altri vari progetti indirizzati chiaramente al controllo delle frontiere e delle mobilità. È il caso anche dei programmi d’appoggio alla riforma dello stato civile[1] in Senegal ed in Niger attraverso l’introduzione di sistemi biometrici, che sembrano rispondere più al desiderio europeo di aumentare i ritorni e le deportazioni che a reali priorità di sviluppo umano ed economico di tali paesi. In linea generale, bisogna comunque sottolineare che i progetti del trust-fund si fondano su una visione negativa delle migrazioni, visto che tutti cercano in qualche modo di ridurle, attraverso il controllo, la creazione di posti di lavoro o la resilienza, e nessuno di questi progetti si concentra sui movimenti regolari o formali di lavoratori.

Ci troviamo quindi di fronte a una situazione in cui una regionalizzazione preesistente, bottom-up, prodotta dai movimenti autonomi delle persone nel continente, in un tessuto denso di flussi commerciali più o meno informali, si scontra con un progetto di libera circolazione imposto dall’alto, con una chiara logica di regionalismo top-down, che cerca di istituzionalizzare e regolamentare questo regime di libera circolazione in maniera chiaramente esogena, assecondando gli interessi europei.

L’esternalizzazione europea produce effetti molto gravi anche sulle persone in movimento. La ri-frontierizzazione (re-bordering) che de facto si definisce a causa dell’azione europea, provoca un cambio delle rotte terrestri e allo stesso tempo favorisce gli intermediari, più o meno strutturati ed organizzati, che si occupano di facilitare l’attraversamento delle frontiere. Il business frontaliero cresce: a maggior controllo, e con una domanda che resta per lo meno stabile, le tariffe richieste lievitano. Allo stesso modo, crescono le possibilità per i migranti ed i rifugiati di subire violenze di qualsiasi tipo ed estorsioni, tanto da parte di tali intermediari che dai vari agenti statali addetti al controllo delle frontiere o dell’ordine pubblico.

Le conseguenze per le persone in movimento nel continente africano sono drammatiche. Aumentano, in primis, le morti dovute alla riorganizzazione delle rotte migratorie: se le rotte meno pericolose sono più controllate, i flussi si spostano verso rotte meno battute ma molto più rischiose. Senza riconoscerlo chiaramente, l’Europa usa quindi la violenza fisica come un presunto elemento di dissuasione delle mobilità verso l’Europa. Allo stesso modo, la violenza e la violazione di diritti dei migranti negli spazi di transito aumentano esponenzialmente. Numerosi esempi vengono dal Marocco, dalla Libia, ma anche dall’Egitto, o dal Niger, che, per convincere i soci europei del loro buon lavoro nel filtrare le migrazioni “in transito”, realizzano retate indiscriminate nei confronti di qualsiasi cittadino dei paesi dell’Africa a Sud del Sahara, indipendentemente dal fatto che disponga di un accredito della condizione di rifugiato emesso da UNHCR o che sia stabilmente nel paese da molto tempo e non abbia alcuna intenzione di recarsi in Europa. Per le autorità locali, ma anche per quelle europee, il fatto di avere la pelle nera sembra sottintendere in modo automatico la volontà migrare in Europa, dimenticando così l’esistenza storicamente consolidata di circuiti migratori e di mobilità diverse tra i due lati del Sahara. Dopo le retate, queste persone vengono deportate verso altri paesi del continente, incarcerate o abbandonate alla frontiera con i paesi vicini, molto spesso in situazioni estremamente rischiose per la loro vita.

Le conseguenze dell’esternalizzazione incidono però anche sulle popolazioni locali. L’Europa garantisce appoggio a regimi autoritari o totalitari, come nel caso della Tunisia di Ben Ali, della Libia di Gheddafi, del Sudan di Omar al-Bashir, o come succede ancora con Eritrea o Egitto, ottenendo in cambio il controllo migratorio o l’accettazione dei ritorni forzati. Accanto alla legittimazione che questi regimi ottengono attraverso la cooperazione migratoria con l’Europa, la condizionalità democratica, già malridotta, è ulteriormente sacrificata. La nuova condizionalità migratoria, tra l’altro, approfitta dei fondi per lo sviluppo non solo come moneta di scambio per imporre l’esternalizzazione, come succedeva abitualmente fino a pochi anni fa, ma anche per finanziare l’istallazione di strumenti di controllo delle mobilità e delle frontiere suscettibili di alterare progressivamente il panorama delle mobilità nel continente, interferendo nei sistemi di mobilità inter-africani esistenti o generando nuove destinazioni.

 

 

[1] Questi progetti sono finalizzati a dotare gli Stati di un sistema anagrafico informatizzato legato a una banca dati biometrica.

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Africa migrazioni
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AUTORI

Lorenzo Gabrielli
GRITIM e Centre Emile Durkheim

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