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Commentary

L'Europa ancora nel mirino di IS

Andrea Plebani
23 marzo 2016

Sebbene sia ancora troppo presto per ricavare alcuna seria indicazione operativa, gli attacchi che nelle ultime ore hanno colpito Bruxelles hanno evidenziato in maniera incontrovertibile un elemento su tutti: la vulnerabilità di una “fortezza Europa” che è sempre stata tale solo nei sogni dei suoi sostenitori. E che, a dispetto delle misure di contenimento adottate negli ultimi mesi, continua a essere esposta a un’ondata di instabilità che ignora barriere e confini.

A pochi mesi dai tragici eventi di Parigi, ci siamo scoperti ancora una volta indifesi di fronte a un nemico difficile da individuare, ma in grado di colpire con tragica regolarità. Un nemico che, a dispetto degli enormi sforzi dei nostri apparati di sicurezza, ha saputo infiltrarsi tra le pieghe di una società smarrita ed esposta a una crisi (politica ed economica in primis, ma anche culturale e valoriale) senza precedenti. Ed è proprio su questi elementi che il sedicente Stato Islamico (Is) pare aver puntato molte delle proprie fiches, contrapponendo la propria solidità alle debolezze e alle paure del vecchio continente. Una solidità, però, più apparente che reale, soprattutto se esaminata alla luce dell’attuale fase storica, che vede Is sulla difensiva proprio nelle stesse aree che ne hanno segnato l’ascesa.

A dispetto degli attacchi lanciati su scala internazionale e della proclamazione di nuove province nei quattro angoli del dar al-islam, le valutazioni sulla sostenibilità dell’offensiva scatenata da Abu Bakr al-Baghdadi appaiono meno positive di quanto fossero solo pochi mesi fa. Sebbene i suoi uomini siano riusciti a mantenere il controllo su Raqqa e Mosul, a dar vita a offensive culminate in vittorie eclatanti (come nel caso di Palmira in Siria e di Ramadi in Iraq nella prima metà del 2015) e a incrementare la pressione esercitata su Baghdad e Damasco, Is ha subito una serie di battute d’arresto che ne hanno pesantemente scalfito l’aura di invincibilità. Questo trend, iniziato nel 2015 con la caduta di Kobane, è poi proseguito con la sconfitta del movimento a Tikrit, città natale di Saddam Hussein divenuta uno dei suoi capisaldi in Iraq, e con la perdita di Tall Abyad, cittadina strategica posta lungo il confine tra Siria e Turchia considerata parte integrante del sistema difensivo di Raqqa.

È negli ultimi mesi, però, che la situazione si è fatta via via sempre più difficile per al-Baghdadi. A novembre, dopo un’offensiva di diversi mesi condotta per terra e per cielo, le forze della coalizione internazionale sostenute da unità curde hanno liberato Sinjar, teatro del dramma che nel 2014 ha investito la comunità yazide e snodo cruciale per i collegamenti tra le province siriane e irachene del “califfato”. È in relazione a questi eventi che molti analisti hanno iniziato a notare una correlazione tra le avverse fortune registrate dal gruppo in “Syraq” e l’incremento delle sue operazioni esterne, dimostrato dai tragici attacchi che hanno colpito senza soluzione di continuità la Turchia, il Libano, l’Egitto e la stessa Francia. La situazione si è fatta ancora più difficile per il Daesh in seguito alla caduta di Ramadi, il capoluogo del governatorato iracheno di al-Anbar reclamato da Baghdad a dicembre, e in coincidenza con l’intensificarsi della campagna aerea di Mosca che, sebbene rivolta principalmente all’opposizione non “in quota Is”, ha inferto colpi significativi allo “Stato Islamico”.

L’aumento del numero e dell’intensità di operazioni esterne fatte registrare dalla formazione di al-Baghdadi negli ultimi mesi potrebbe, quindi, riflettere la necessità di compensare le sconfitte subite da IS nel “cortile di casa” e di salvaguardare l’immagine di un movimento che ha sempre presentato i propri successi come la “prova provata” della correttezza e della superiorità del proprio modello. Un modello che, persino ora, è capace di attirare migliaia di volontari proprio grazie alla sua forza e alla sua alterità rispetto a sistemi percepiti come ostili o non in linea con una visione mitizzata del messaggio islamico.

Anche per questo motivo non esiste una pallottola d’argento in grado di eliminare il mostro che ci troviamo ad affrontare.

Ora più che mai è quindi necessario un approccio multidimensionale, capace di colpire Is tanto sul piano ideologico tanto su quello propagandistico, nella consapevolezza che questo è un nemico difficile da combattere e difronte al quale non possiamo sottrarci.

Andrea Plebani, ISPI Associate Research Fellow e Università Cattolica del Sacro Cuore

 

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