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Op-ed
L’Europa oltre il COVID
Clément Beaune
08 ottobre 2020

I leader europei hanno raggiunto un accordo storico il 21 luglio scorso a Bruxelles, creando un debito comune per finanziare la ripresa delle nostre economie di fronte alla crisi COVID. Come aspirazione comune, questo "cambio di paradigma" europeo non avrebbe potuto vedere la luce senza lo slancio dato in primavera da Francia e Italia, scrivendo una lettera congiunta di 9 paesi. Insieme, siamo riusciti a reintrodurre questa solidarietà che è il fondamento stesso del progetto di sovranità europea. L'Italia, membro fondatore dell'Unione Europea, al bivio della sua diversità, è un partner essenziale del progetto europeo di "indipendenza, potenza e identità", portato avanti dal presidente francese.

Oggi, la coppia franco-italiana è un motore indispensabile affinché l'Unione europea sia all’altezza delle sfide che dobbiamo affrontare. Ma possiamo ancora rafforzarla. È questo spirito che ha animato il vertice bilaterale tra Francia e Italia a Napoli il 27 febbraio scorso, con l'avvio di nuove cooperazioni in materia giudiziaria, migratoria, educativa e/o economica, tutte pietre miliari per consolidarne le dinamiche europee.

Lo scorso agosto, ho fatto visita al mio omologo italiano, Vincenzo Amendola, a Roma, per preparare con lui le prossime tappe della ripresa. Insieme, stiamo lavorando per scrivere l'Europa di oggi e di domani, che si tratti di migrazione, autonomia strategica e industriale, ambizione ecologica o di adesione cittadina all’Europa. Sono felice di poterlo fare, in piena fiducia e in stretto coordinamento con il nostro vicino italiano. È con questo spirito che desidero ringraziare l'ISPI per pubblicare questo contributo personale rilasciato nella rivista “Politique Etrangère”, testimonianza del mio impegno a lavorare con l'Italia per soddisfare le aspettative dei nostri cittadini e delle nostre imprese.

 

Qualche settimana dopo l’adozione, al Consiglio europeo del 21 luglio 2020, di un accordo di bilancio contraddistinto da un’ambizione senza precedenti, verrebbe da dire che il COVID-19 abbia cambiato tutto nell’Unione europea, secondo il celebre adagio che recita “L'Europa va avanti soltanto attraverso le crisi”. Come per qualsiasi luogo comune, in questa semplificazione c'è del vero. Il salto di integrazione compiuto con il debito comune dell'Unione costituisce la più importante tappa di integrazione europea dall’adozione dell’euro; senza questa crisi, essa sarebbe stata impossibile. Ma è ancor più vero, quanto meno visibile, che questo importante passo avanti deve molto al ritorno di un triangolo aureo il cui vigore non era più stato tale dagli inizi degli anni Novanta: la coppia franco-tedesca, strettamente associata a una Commissione europea ambiziosa.

Vi è un elemento di continuità sottovalutato e combinato a un’autentica novità, anch’essa minimizzata: le aspettative dei cittadini nei confronti dell’Europa sono aumentate. Le critiche sono dirette, piuttosto che all’intrusione dell’Europa nelle competenze nazionali, all’inazione nelle sfide comuni: ieri le migrazioni, oggi la salute, dall’assenza di armonizzazione nei provvedimenti di quarantena alla ricerca comune di un vaccino. Ci si aspetta oggi che l'Europa agisca e la si critica quando non lo fa, o quando lo fa poco o tardi.

La crisi ha d’altronde dimostrato che l’efficacia dell’Europa sembrava correlata alle sue competenze: reattiva nell’ambito economico (sospensione delle regole di bilancio o di aiuti di Stato, forte sostegno monetario), in gran parte impotente nel coordinamento delle restrizioni alle frontiere e quasi inesistente nell’ambito sanitario al centro della crisi. Non è infine accessorio notare, con la prudenza dovuta in ogni finzione politica, che se il Regno Unito fosse stato ancora membro dell'Unione, l'accordo sul bilancio e un simile piano per la ripresa sarebbero stati certamente inaccessibili.

Questi tre elementi – la necessità di un modus operandi europeo, le crescenti aspettative dei cittadini e la rinnovata pertinenza del motore franco-tedesco – delineano la matrice di un progetto europeo che deve rivedere tanto i metodi quanto la sostanza per incarnare una potenza salda, rapida e udibile in un mondo brutale che gli europei riscoprono, come l'imperatore della Cina nelle Novelle orientali di Marguerite Yourcenar, quando capisce con ira che il mondo reale non è quello ideale che il vecchio pittore Wang-Fô gli ha ritratto nei suoi splendidi dipinti.

 

Quale progetto europeo per Emmanuel Macron?

Cominciamo dal metodo europeo del presidente della Repubblica, non soltanto perché ciò ci dice molto della sostanza, ma anche perché costituisce la maggiore novità nell’azione europea dei presidenti francesi dai tempi di François Mitterrand. Questa rottura metodologica, che è stata percepita o commentata ancora poco, poggia sulla combinazione continua di tre elementi.

Innanzitutto, la base franco-tedesca

Nulla di molto originale, si dirà. Senz'altro, ma Emmanuel Macron ha evitato la tentazione dei suoi predecessori di cercare un'alternativa. La storia dell'Unione europea ci insegna che questa tentazione è destinata al fallimento per due motivi: non offre mai la stessa efficacia della coppia franco-tedesca e, una volta constatata l’impasse, obbliga a ricostruire la fiducia con Berlino dopo aver cercato soluzioni altrove. L'alleato britannico non era comunque in grado di offrire una soluzione alternativa nel contesto della Brexit e il sogno romantico di un'alleanza latina, mai tradottosi in una qualsivoglia realtà, non è perciò mai apparso nella politica europea di Emmanuel Macron.

L’autentica innovazione franco-tedesca del presidente della Repubblica è di respingere contemporaneamente i due poli classici della relazione Parigi-Berlino: la celebrazione e il confronto. Il confronto è la tentazione permanente di una classe politica francese che rigetta su Bruxelles o Berlino le difficoltà incontrate, confondendo spesso il male e la sua causa – riforme economiche, risanamento dei nostri conti pubblici… L'idea di rivoluzionare le cose è particolarmente impellente a sinistra, oggi all'estrema sinistra: è un’idea ancor più deludente perché è soltanto retorica giacché, quando giunge al potere, la sinistra coopera con la Germania e non rivoluziona le cose. Per il semplice motivo che le condizioni per giungere al cambiamento in Europa sono tre: costanza nelle proposte e nella “battaglia europea”, impegno con la Germania proprio e soprattutto laddove vi sono grandi dissensi iniziali, credibilità politica ed economia interna. L'altro ostacolo franco-tedesco, quasi altrettanto nefasto, consiste in una forma di celebrazione permanente; è la diplomazia della foto ricordo che cerca di imitare Mitterrand et Kohl a Verdun. A scanso di equivoci: questa dimensione simbolica è indispensabile e il presidente l'ha riconosciuto perfettamente, completando il trattato dell'Eliseo con il trattato di Aquisgrana e commemorando il centenario dell'armistizio del 1918 insieme ad Angela Merkel a Rethondes.

Tuttavia essa non è mai sufficiente e non esime da ciò che costituisce da sessant'anni la forza insostituibile della relazione franco-tedesca: un rapporto di lavoro, organizzato a ogni livello della nostra vita politica e amministrativa, la cui potenza viene dal fatto che per l’appunto i nostri due paesi hanno spesso posizioni divergenti ma, nei momenti chiave, sanno superarle trascinando gli altri – così è stato, dall’euro al recente accordo sul debito comune.

Nascondere le divergenze significa condannare la coppia franco-tedesca all’impotenza e l'Europa all’immobilismo. Questa è ragione per cui la Francia di Emmanuel Macron, in ogni momento importante, individuato con parsimoniosa gravità, ha scelto di mostrare la propria iniziale divergenza con la Germania in merito a questioni come: la riforma della zona euro, l'obiettivo di neutralità carbonica entro il 2050, il progetto energetico Nord Stream 2, la necessaria solidarietà europea nella primavera 2020. Pur non avendo sempre avuto successo, la forza di quest’azione è di avere poi saputo lavorare per superare le posizioni e giungere a un accordo.

Riassumiamo allora in poche parole la fase che ha condotto al piano per la ripresa: è di fine marzo la lettera pubblica recante le firme di nove paesi – Francia inclusa, ma Germania esclusa – contraria all’allora posizione tedesca, mediante la quale si richiede un debito europeo comune; si tratta con la Germania per superare il dissenso prima che inizi la presidenza tedesca dell’UE; il 18 maggio si raggiunge un accordo in merito a un’iniziativa comune per la ripresa; il 27 maggio la proposta della Commissione riprende e aumenta l’ambizione franco-tedesca; il 21 luglio vi è l’accordo dei 27 Stati membri.

L’efficacia franco-tedesca poggia su altri due parametri spesso trascurati nel modello francese accentrato. Per coinvolgere la Germania, occorrono pazienza e costanza. L'accordo franco-tedesco del 18 maggio non si basa soltanto su tre settimane di negoziato, ma su tre anni di lavoro, su incontri tecnici e politici, sulla fiducia instauratasi tra la cancelliera Merkel e il presidente Macron. Per coinvolgere la Germania non bisogna puntare soltanto a Berlino o alla cancelliera: bisogna parlare a tutte le parti, conoscere i presidenti dei Länder, discutere con i partner della coalizione, discutere con i sindacati e le organizzazioni professionali, parlare all’opinione pubblica e ai grandi media. Emmanuel Macron ha costruito questa rete tedesca al servizio del proprio progetto europeo, già da quando era al ministero dell’Economia, avendo capito che lo schema della V Repubblica francese non è trasferibile in Germania.

«Parlare con tutti»

La formula non è valsa soltanto per la Germania. Dal 2017 questo è stato il criterio applicato a tutti i nostri partner dell’UE, perché la base franco-tedesca è sempre necessaria, ma mai sufficiente. È qualcosa di ovvio? Dovrebbe esserlo. Ma la Francia ha rifiutato di ammettere l’esistenza di un’Europa a 27. Sottolineando giustamente le gravi carenze di un’Unione pensata male per tali dimensioni e per tale eterogeneità, i dirigenti francesi si sono comportati come se fossimo ancora in sei o in dodici. Non si cambia la realtà negandola. Per questo motivo il presidente della Repubblica ha avviato un ampio lavoro bilaterale, soprattutto con i paesi con posizioni di partenza più contrarie alle nostre: dieci incontri dal 2017 con il primo ministro dei Paesi Bassi, una tournée europea nei paesi dell’Est europeo già a partire dall’estate 2017 – senza la quale non si sarebbe mai ottenuta la riforma del lavoro distaccato – nei paesi del Nord l’estate successiva, oltre venti visite bilaterali in totale, la partecipazione a molteplici formati di cooperazione o la loro riattivazione, dal gruppo di Austerlitz a quello dei paesi mediterranei.

Quest’ampliamento è la condizione per un motore franco-tedesco efficace, in cui la Francia ha peso perché ha altri alleati, di regioni, dimensioni e colori politici diversi. Senza questo impegno punto per punto, la Germania non avrebbe aderito alle nostre posizioni sul piano di rilancio a maggio 2020; senza questo previo spiegamento di forze non si sarebbe strappata l’unanimità sul piano per la ripresa soltanto due mesi dopo. Questa rete europea a tutto campo sarà ancora indispensabile per raccogliere le prossime sfide: rafforzamento dei nostri impegni climatici, unità e fermezza dinanzi al Regno Unito per attuare la Brexit, definizione di una politica migratoria europea segnatamente.

L’ultimo tassello del puzzle delinea le istituzioni europee

Anche in questo caso, un reinvestimento da parte francese si è rivelato indispensabile. Quando Emmanuel Macron – che non aveva partecipato alla scelta della Commissione europea di Jean-Claude Juncker – è arrivato al potere, nessun rappresentante della sua famiglia politica al Parlamento europeo poteva sostenere le nostre posizioni e le delegazioni esistenti erano deboli, per dimensioni, nei gruppi parlamentari. Tradizionalmente la Francia tende a considerare che un intervento del commissario francese, o una telefonata al presidente della Commissione possano risolvere qualsiasi questione che tocchi la sensibilità nazionale. Trascurare la complessità di un sistema suddiviso tra un collegio di 27 commissari, un Parlamento europeo il quale è lungi dall’avere il ruolo di comparsa che tuttora gli si attribuisce a Parigi, e famiglie politiche europee misconosciute ma influenti, può soltanto ridurre drammaticamente il peso della Francia e delle sue idee.

La preparazione delle elezioni europee e del rinnovamento istituzionale del 2019 è quindi stata fondamentale nel modus operandi del presidente della Repubblica: evitando prima che tutte le famiglie politiche sostenessero il principio fuorviato dello Spitzenkandidat (come si può difendere un capolista comune senza una lista europea comune?); sottolineando l’importanza di queste elezioni, il che ha permesso di ritrovare un’affluenza alle urne senza precedenti dal 1994, con una delegazione “Renaissance” in appoggio al progetto presidenziale che rappresenta la forza maggiore di un nuovo gruppo politico centrale indispensabile alla nuova Commissione; impegnandosi soprattutto nella scelta dei posti chiave: successo franco-tedesco senza precedenti con la collocazione, a capo della Commissione, di una tedesca francofila e, a capo della Banca centrale europea, di una francese molto rispettata in Germania, un duo completato da un presidente del Consiglio europeo francofono della famiglia politica di Emmanuel Macron e un’Alto rappresentante per la politica estera spagnolo vicino alle preoccupazioni francesi sul Mediterraneo e sull’Africa. Senza questa cornice istituzionale fondamentale, la reazione economica alla crisi del COVID-19, sul piano del bilancio e monetario, sarebbe rimasta, ripetiamolo, un sogno francese.

Una strategia di cambiamento

È opportuno sottolineare o chiarire un ultimo punto metodologico, che riflette anche questa sostanza che risale in superficie. Fare il gioco della cooperazione europea rispecchia una strategia di cambiamento e non una volontà di conservazione del sistema. Per questo l’azione europea della Francia da tre anni coniuga cooperazione quotidiana e appelli regolari. Il discorso della Sorbona a settembre 2017, quello pronunciato dinanzi alla cancelliera Merkel ad Aquisgrana nel maggio 2018, la Lettera agli europei del marzo 2019, l’intervista di Emmanuel Macron a The Economist a novembre dello stesso anno, oltre a contenere proposte concrete per non limitarsi a essere un discorso di prospettiva o da tribuna, puntano ad aprire gli occhi agli europei sull’esigenza di avere un’Europa potente, la quale non si scusi di esistere e comprenda che il proprio destino non può e non deve essere delegato a potenze esterne.

Questo approccio esprime precisamente il modus operandi europeo che Emmanuel Macron difende dalla campagna presidenziale del 2017. “I veri sovranisti sono i pro-europei” scriveva il candidato[1]. Ciò riflette due convinzioni fondamentali: l’Europa non è la diluizione ma la condizione della sovranità francese nel mondo attuale; e se essa non soddisfa questa promessa oggi, può essere riformata. In altre parole: rifiutiamo di scegliere tra un’Europa debole e il ripiegamento nazionale, perché la Francia può far cambiare l’Europa. Questo riformismo europeo non è riconducibile ai concetti classici, tanto mutevoli quanto vaghi di europeismo, di federalismo; nessuno saprebbe definirli oggi, a eccezione di alcuni radicali entusiasti o accusatori. Questo riformismo, che è in fondo la migliore dimostrazione del gaullo-mitterrandismo difeso da Emmanuel Macron, si fonda su di un trittico: indipendenza, potenza, identità.

Indipendenza, potenza, identità

La prima convinzione è che l’indipendenza francese nel mondo abbia una dimensione europea imprescindibile. È d’altronde l’ossessione gaullista, nonché mitterrandiana, fondata sul ricordo del 1940: gli strumenti diplomatici, militari, economici, scientifici e morali dell’indipendenza sono la prima condizione per tutelarsi da un nuovo crollo. È questo il motivo per cui De Gaulle, fedele alla sua gestione pragmatica della grandeur, pur avendo annunciato che avrebbe “strappato” il trattato di Roma del 1957 se fosse tornato al potere, l’ha infine conservato e sostenuto giacché consentiva, mediante una concorrenza controllata e un mercato ampliato, di modernizzare l’industria francese. Con abilità De Gaulle ha compensato questa concessione con l’attuazione della Politica agricola comune, sostenendo così contemporaneamente i due settori della trasformazione economica del dopoguerra. La medesima logica ha portato Mitterrand e Delors a caldeggiare la creazione del mercato unico negli anni Ottanta, accompagnandola con una politica di solidarietà per le regioni più povere. Sia Mitterrand che De Gaulle hanno inoltre visto nella cornice europea l’unica maniera per riabilitare il partner tedesco senza umiliazione e ingenuità, così da rafforzarne la potenza necessaria alla Francia, inquadrandola in maniera altrettanto indispensabile. Costruzione europea e interesse francese si confondevano agevolmente, e questa matrice rimane.

Questo rafforzamento della Francia attraverso l’Europa assume oggi una dimensione mondiale: come si possono infatti sviluppare le filiere industriali strategiche, dalla batteria elettrica ai medicinali essenziali, ricorrendo all’autarchia nazionale invece che all’autonomia europea? Come si possono, a livello di singolo paese, ottenere accordi commerciali che regolamentino la globalizzazione? Il Regno Unito lo sta imparando a proprie spese. Sarebbe altrettanto ingenuo credere all’impotenza degli Stati nazione quanto all’inutilità del livello europeo. Dopo tutto, Singapore, Israele o la Corea del Sud registrano un successo notevole nel concerto globalizzato delle nazioni. Si rischia però di dimenticare un po’ in fretta quanto siano immense la loro apertura e la loro dipendenza dall’esterno, economicamente o geopoliticamente. È dunque paradossale difendere una Francia sovrana e prendere come riferimento paesi che non potrebbero sopravvivere senza un mercato mondiale aperto e una protezione strategica (assai spesso americana) esistenziale. Da De Gaulle in poi c’è proprio una complementarità tra gli strumenti nazionali (dissuasione nucleare, seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite…) ed europei (mercato ampliato, politica commerciale unificata, moneta comune…), garanti di una medesima indipendenza.

Se l’indipendenza punta alla protezione sia contro i rischi interni che contro quelli esterni all’Europa, mediante la cooperazione in seno all’UE, la potenza riguarda la proiezione esterna. Più di qualsiasi altro paese europeo, la Francia vuole pesare sul corso del mondo, per interesse e per convinzione. Dal 1950 la Francia vede l’Europa come un moltiplicatore di potenza. La delusione francese rispetto all'Europa viene da questa posizione intervallare di cui riparleremo: la Francia da sola non può dispiegare la potenza del livello continentale, ma l’UE non ha ancora sviluppato la potenza auspicata dai nostri concittadini. Resta il fatto che le sei dimensioni della potenza contemporanea presentate dal presidente della Repubblica nel suo discorso alla Sorbona richiedono un’ambizione europea: sicurezza e difesa, migrazioni e frontiere, transizione ecologica, trasformazione digitale, sovranità alimentare, potere economico e industriale.

Infine, come per la nozione di sovranità, neanche il concetto di identità va lasciato agli anti-europei. Emmanuel Macron non ha riscoperto l’una o l’altra nozione alla luce della crisi del COVID-19, giacché entrambi i temi sono al centro del suo primo discorso europeo di insieme, pronunciato a Lione nel settembre 2016. Perché l’Europa non risale al 1950; non è un’invenzione tecnocratica o una semplice costruzione razionale. È cultura, storia, diversità e identità. Interrogarsi sul destino europeo della Francia non ha quindi molto senso: chi può infatti pretendere, dall’Impero Romano alla rivoluzione industriale, che il nostro paese sia una terra isolata dal continente? Nel bene e nel male, la nostra storia è intrinsecamente europea. Il modello europeo consiste per l’appunto nel ricercare l’equilibrio sempre instabile tra apertura verso gli altri e protezione di sé: l’Europa ha inventato il trattato e la frontiera, il mercato e la norma. L’equilibrio è la definizione stessa di questo modello unico al mondo: una combinazione in dosi eguali di libertà individuale e solidarietà di gruppo, di unità culturale e diversità locale. In complesso vi sono più punti comuni tra Stoccolma e Napoli che tra Berlino e Pechino (o Mosca, o Washington). Oggi questa identità si arricchisce di una sensibilità analoga di fronte ai cambiamenti climatici o alle implicazioni della rivoluzione digitale (in materia di imposizione o protezione dei dati personali, ad esempio).

Questi elementi – indipendenza, potenza e identità – si riuniscono nella nozione di sovranità europea, talvolta fraintesa dai nostri partner dell’Unione ma sempre più ripresa. In fondo la sovranità è la capacità di difendere o promuovere i propri interessi e i propri valori, ciò che l’Europa non osa ancora né fare, né pensare senza qualche pudore legato al proprio errore coloniale, al crollo delle guerre mondiali, alle sue esperienze totalitarie. Tuttavia, l’Europa “geopolitica”, auspicata particolarmente da Ursula von der Leyen, è l’autentica sfida del decennio a venire: esistere davvero sulla cartina o subire la legge degli altri.

 

Quali constatazioni fare sull’Europa del 2020?

La dialettica potenza/cooperazione

L’Europa del 2020 non è esente da difetti che occorrerà correggere. Il primo mi sembra la difficoltà nel conciliare potenza e cooperazione. Mai, limitandosi agli ultimi due secoli, i paesi d’Europa hanno saputo combinarle. Chiedendo indulgenza agli storici per tale semplificazione, diciamo che l’Europa ha attraversato due fasi: la potenza senza cooperazione – la dominazione economica e industriale, poi coloniale, è diventata così marcata nell’Ottocento che i paesi europei, lungi dal doversi intendere, potevano competere per l’egemonia continentale e mondiale. Questo periodo di superpotenza si arresta con la Prima guerra mondiale e si conclude definitivamente con la Seconda, che segna il culmine e la fine della guerra civile europea.

Si apre allora una fase radicalmente opposta: vaccinata contro la potenza, l’Europa se ne allontana per forza e per volontà. È questa la cooperazione senza potenza. Il progetto europeo è il figlio di questo trauma. Lo slancio di alcune menti genialmente lucide ha permesso di costruire, già a partire dal 1950, un progetto di cooperazione europea sulle macerie della guerra. Tale progetto – che in ciò è già grandioso – è un’opera di riconciliazione. È rivolto all’Europa stessa, che intende ricucire, non al grande mondo di cui l’Europa non può e non vuole più occuparsi. Riavvicinare la Francia e la Germania, creare un mercato pacificatore, unire attraverso la norma e il diritto coloro che si sono uccisi con una violenza senza limiti: tutto è destinato all’interno. La potenza esterna, in particolare la difesa e la sicurezza, non riguarda le comunità europee. Tale potenza va delegata: agli Stati Uniti e alla NATO in una guerra fredda in cui l’Europa politica è ancorata (e ridotta) all’Ovest; e, per quel che rimane agli europei, allo Stato che resta il quadro rigoroso di una potenza ridotta. Per la Francia, unico grande paese continentale riconosciuto nell’ordine mondiale del dopoguerra, l’Europa è senz’altro riconciliazione ma è anche un moltiplicatore di potenza su cui spera di far leva. Da qui viene l’ambiguità fondatrice che oggi potrebbe finalmente essere superata.

Tutte le sfide europee sono esterne ormai e le crescenti aspettative dei cittadini, non solo francesi, riguardano il rapporto dell’Europa con il mondo: migrazioni, protezione delle frontiere, sicurezza e difesa (in particolare contro il terrorismo), cambiamenti climatici, sconvolgimento digitale, globalizzazione commerciale… Lo attestano le azioni dei protagonisti: l’Europa non è più all’ombra o al riparo di una benevolenza americana garante della sicurezza, data totalmente per scontata; essa non riesce ad accettare il suo rapporto di crescente dipendenza dalla Cina; e deve infine fronteggiare da sola i turbolenti imperi vicini – Russia, Turchia. Gli europei sanno che debbono nuovamente parlare la lingua della potenza senza perdere la grammatica della cooperazione. Sono presi dalla vertigine di chi sa di dover saltare.

Un luogo vuoto di potere?

Il secondo difetto, corollario del primo, è il vuoto di potere: non vi è né un luogo, né un momento che incarni il potere di agire nell’UE. La rinuncia alla potenza, amplificata dalla volontà parallela di non provocare le strutture statali, si è incarnata nel lessico europeo a partire dagli anni Cinquanta: “Alta autorità” per non dire “governo”, “commissario” per non azzardare “ministro”, “collegio” per non avere un capo, “direttiva o regolamento” (di condominio?) per non pronunciare il termine sacro di “legge”… In proposito si potrebbe scrivere un volume intero[2], ma persino l’architettura degli edifici delle istituzioni europee riflette l’allergia alla potenza e alla rappresentazione del potere.

Questa constatazione ha richiesto provvedimenti via via che l’Europa si è (pre)occupata del mondo circostante. È stato così creato un primo luogo di potere con l’istituzione del Consiglio europeo nel 1974. Con le elezioni europee a suffragio universale diretto a partire dal 1979 si è poi puntato a dare la necessaria dimensione democratica a un’Europa con competenze e bilancio ampliati. Dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Duemila, fino al muro della “Costituzione” europea, la modifica del trattato è divenuta il mezzo dell’espansione organizzata del potere europeo, dimostrando così la natura intrinsecamente giuridica della costruzione europea.

Questa stessa logica ha portato l’UE a moltiplicare i presidenti: alla presidenza della Commissione e del Parlamento europeo è stata aggiunta dieci anni fa quella del Consiglio europeo, quella dell’eurogruppo per la zona euro, un Alto rappresentante per la politica estera. Ma non è bastato: il Consiglio europeo gestisce principalmente le crisi senza svolgere funzioni previsionali e l’inflazione delle cariche è una confessione paradossale della difficoltà di incarnare un potere forte. L’Europa ha diversi numeri telefonici, ma non ha una linea diretta, potrebbe dire oggi Henry Kissinger. La pluralità di interlocutori è più difficile da accettare per il cittadino francese immerso nella Quinta repubblica che per qualsiasi altro europeo.

E l’Europa non ha nemmeno un momento decisivo, come ha invece la Francia con le elezioni presidenziali, o gli altri paesi europei con le elezioni politiche, in cui si definisca un programma d’azione per quattro o cinque anni. Le elezioni europee ne costituiscono un elemento, ma la verità obbliga a dire che esse non possono delineare un orientamento collettivo chiaro per la natura stessa del sistema europeo – assenza di liste comuni transnazionali, scarsa conoscenza delle famiglie politiche europee, assenza di legame diretto con la scelta dell’esecutivo europeo, e, da un punto di vista più strutturale, diversità delle lingue e delle culture politiche, comprensione lontana dei temi europei senza spazio comune di dibattito… L’incremento di affluenza registrato alle elezioni del 2019 indica tuttavia che l’Europa è in grado di mobilitare quando le sfide sono percepite meglio (preoccupazione per il clima, crescita dei nazionalismi…).

Non vi è dunque fatalità nel disinteresse politico europeo. Il vuoto di potere si può colmare, purché non si imitino maldestramente gli ordinamenti statali: non è affatto intenzione dell’UE replicarli. Una soluzione tutta europea sarebbe di aggiungere un “presidente dei presidenti” ai diversi capi che rappresentano l’Europa; in realtà il capo spicca dalla fila quando le circostanze si prestano: Angela Merkel ha delineato una leadership del giudizio in periodo di crisi, riluttando tuttavia a incarnare una leadership della lungimiranza una volta passata la tempesta; Emmanuel Macron ha assunto questo ruolo, seppur con attriti inevitabili, dal 2017. L’esistenza di politiche più ambiziose, se del caso in formati ristretti, farà emergere naturalmente dei leader, anche a costo di moltiplicarli. Per trovare un foro europeo adeguato, al contempo luogo e momento di orientamento politico, bisognerà innovare: le conferenze diplomatiche non costituiscono più un quadro sufficiente e apprezzato per cambiare il corso dell’Europa; il tentativo di ampliamento e democratizzazione dei dibattiti mediante la Convenzione del 2001-2003 è stata un’esperienza utile ma, per il futuro, squalificata dal fallimento dei referendum del 2005. Occorre immaginare qualcos’altro, che risponda all’esigenza contemporanea di deliberazioni aperte: questo è il senso della Conferenza sul futuro dell’Europa proposta dalla Francia.

La passione europea dell’allargamento

Questa passione è dovuta in primis al fatto che l’allargamento provoca l’allargamento, dal momento che ogni nuovo arrivato ha una zona di vicinato e di influenza propria, che ritiene sia la nuova frontiera da superare; ogni paese vuole evitare di essere ai confini dell’impero. L’Europa, a causa delle sue origini, è concentrata su sé stessa: non concepisce il proprio rapporto con l’esterno in termini di frontiere, interfaccia necessaria per gestire cooperazione e tensioni. L’Europa percepisce sé stessa come uno spazio di prosperità che sarebbe opportuno ampliare. In origine la Comunità europea non ha una politica estera. Oltre agli accordi commerciali, che l’Unione ha tardato a percepire come strumenti di influenza o di pressione al servizio dei propri interessi e valori, l’Europa ha due mezzi di intervento fondamentali: il denaro e il mercato (unico), che possono aumentare senza grandi difficoltà. A essi si aggiunge una dimensione più profonda: per i paesi detti dell’Est, che oggi costituiscono la metà dei membri dell’UE, nonché per i paesi dei Balcani che bussano alla porta, l’Europa politica ha rappresentato una prospettiva di libertà, pace e prosperità dalla quale la storia li aveva arbitrariamente e ingiustamente esclusi. Essi meritano pertanto una dovuta riparazione che sarebbe egoistico rifiutare.

La Francia ha sempre diffidato dell’allargamento, considerandolo intuitivamente come una diluizione che ritardasse l’unione politica; l’entusiasmo britannico per questa espansione ci rendeva giustamente ancor più reticenti. È qui opportuno constatare un fallimento francese: dai tempi di Mitterrand abbiamo giustamente messo in guardia sui rischi derivanti da un’espansione rapida, non accompagnata da riforme istituzionali ambiziose, attuata in pratica con aggiustamenti o sovrapposizioni (cosi è stato con il principio di un commissario per paese), con l’eccezione del salutare regresso del voto all’unanimità; ma non abbiamo saputo né spiegare le ragioni valide delle nostre prevenzioni, né proporre alternative credibili. Abbiamo anzi accentuato il divario, ignorando i nuovi arrivati, invece di farne alleati preziosi. All’inizio del 2020, su iniziativa della Francia, si è compiuto un passo utile inasprendo i negoziati di adesione. Ma l’UE già nelle attuali condizioni, a 27, non può più soddisfare le sue nuove ambizioni; e dovendo ormai concepire il proprio rapporto con l’esterno, deve anche dotarsi di frontiere chiare. Solo allora gli europei, non soltanto i francesi, percepiranno l’appartenenza a una comunità politica e la protezione che quest’ultima può dare loro.

Superando i difetti di costruzione del progetto politico, ritroviamo infine un immaginario europeo radicato, costituito da un duplice sentimento paradossale. Da un lato, una paura forse un po’ depressiva del declino che nessuno ha descritto meglio di George Steiner[3]: i nomi dati alle nostre strade sono la testimonianza della nostra ossessione per le glorie e per le ferite del passato, laddove come Henry Ford gli americani pensano che “la storia sia una sciocchezza”. Dall’altro, un sentimento gradevole di vivere in pace in una bolla protettiva, vicino a una certa idea di “fine della storia”. Questi due sentimenti riuniti insieme hanno un nome: il fascino discreto della decadenza. Ogni periodo in cui l’Europa si è compiaciuta ha portato alla sua rovina. Occorre pertanto che l’Europa ritrovi il senso del mondo e il gusto del futuro.

 

Ritrovare il senso del mondo e il gusto del futuro

Concepita come un progetto di riconciliazione interna, l’Europa politica deve dotarsi oggi dei quattro attributi indispensabili a qualsiasi comunità politica che dura e si afferma: frontiere, istituzioni adeguate, un’agenda di potenza e un senso di appartenenza.

Rivolta verso la propria ricostruzione politica ed economica, delimitata di fatto dalla guerra fredda, l’Europa non ha mai dovuto affrontare la questione delle frontiere. Tre elementi hanno reso la questione imprescindibile: le dimensioni ormai raggiunte e la scarsa agilità di funzionamento indotta da tali dimensioni; le crescenti tensioni con la Turchia; la crisi migratoria, che ha dimostrato che la gestione delle frontiere non poteva essere una competenza accessoria dell’Unione.

Definire delle frontiere non significa chiudere una società, ma organizzarne il rapporto con il mondo: proprio ciò che serve agli europei. Per l’UE, ciò costituisce anche la condizione per avere una politica estera solida, che si differenzi da una politica di allargamento. È importante dire, come il presidente della Repubblica alla Sorbona, che l’allargamento ai Balcani occidentali costituisce l’ultima fase: l’ampliamento dell’Unione deve cioè fermarsi lì. Va per di più precisato che questo allargamento non è garantito. Questo è il motivo per cui il metodo negoziale è stato riformato, su richiesta della Francia, per i paesi che avviano le discussioni (Macedonia del Nord, Albania), come per quelli, allineati a questo nuovo approccio, che sono già in fase negoziale: il metodo consente di rendere il processo reversibile, con un controllo politico lungi dall’attuale automaticità. Questo allargamento deve soprattutto essere rigorosamente condizionato a una riforma del funzionamento dell’Unione. Frontiere e istituzioni vanno di pari passo.

Quale relazione costruire pertanto con i nostri grandi vicini? Cominciamo con la Turchia, impegnata dal 1963 in un processo negoziale di cui va detto che si fondava allora su un progetto profondamente diverso, molto meno integrato, e che è stato oggetto di una comoda ipocrisia reciproca – gli europei non hanno mai osato troncare il negoziato per timore di rompere il dialogo, riattivato periodicamente ogni qualvolta avevamo bisogno di Ankara; recentemente i turchi hanno trovato nelle esitazioni europee un pretesto efficace per gli sfoghi nazionalisti. Bisogna invece essere chiari e lavorare su un partenariato diverso che non sarà l’adesione all’UE. Emmanuel Macron l’ha indicato con franchezza in occasione della visita del presidente turco a Parigi nel gennaio 2018. Si potrà tuttavia portare avanti detto partenariato (la cui denominazione può cambiare giacché in Turchia essa viene talvolta percepita come una ferita nell’orgoglio), sulle questioni economiche, energetiche, di sicurezza, migratorie e culturali, soltanto se cessano le attuali provocazioni nel Mediterraneo orientale.

Trattasi di un modello trasferibile ad altri? Con i nostri vicini in realtà abbiamo bisogno, come ogni grande potenza, di accordi su misura. Possiamo utilizzare i quadri già esistenti per alcuni di essi: il Partenariato orientale con l'Ucraina, la Bielorussia, l’Armenia, l'Azerbaigian, la Georgia e la Moldova; un partenariato mediterraneo al Sud, tuttora insufficiente nonostante gli sforzi da parte francese, profusi prima da Nicolas Sarkozy, rilanciati poi da Emmanuel Macron. La Russia pone una difficoltà del tutto diversa, ma rifiutare il dialogo ci renderebbe impotenti: questo è il senso dell’iniziativa avviata dal presidente della Repubblica ad agosto 2019. Essa ha creato forti agitazioni a est dell’Unione, dove la Francia è talvolta percepita come pro-russa: non vi è però nessuna ingenuità in questa iniziativa; ad esempio, mai la Francia ha rimesso in discussione le sanzioni europee comuni contro la Russia, nessun responsabile politico francese di primo piano sa meglio di Emmanuel Macron ciò che possano essere i ciberattacchi e la disinformazione; senza dimenticare che la Francia ha rafforzato le regole europee a cui è subordinato il progetto di gasdotto Nord Stream 2, che potrebbe aumentare la nostra dipendenza energetica dalla Russia. Se si potessero rifare le cose, bisognerebbe probabilmente invertire l’ordine dei fattori: occorrerebbe cioè prima dibatterne collettivamente al Consiglio europeo, recarsi in Polonia e nei paesi baltici, poi avviare un dialogo nuovo con Mosca.

L’incognita principale di questa equazione frontaliera riguarda ovviamente il Regno Unito. I negoziati sul rapporto futuro, attualmente bloccati, dimostrano la pertinenza dei parametri indicati: l’impossibilità di concepire il nostro vicinato in semplici termini di allargamento (visto che il Regno Unito “restringe” l’Europa…) e la necessità di partenariati ad hoc. Sollevano ancor più la questione fondamentale della frontiera: in una comunità politica, l’interno e l’esterno non sono identici. Per questo la Francia ritiene, con una fermezza non punitiva ma vitale, che il Regno Unito non possa ottenere il meglio di entrambi i mondi, ossia il libero accesso al nostro mercato senza il completo rispetto delle nostre regole. In caso contrario, i nazionalisti avranno gioco facile nel presentare l’Unione come una scatola vuota o una mucca da mungere. Ma sarebbe un po’ paradossale se parlassimo con Mosca, rafforzassimo i legami con Kiev, negoziassimo con Belgrado e ignorassimo ciò che ci lega al Regno Unito. Se riusciamo a equilibrare l’accesso al mercato europeo e il rispetto di regole di concorrenza equa, aggiungendovi un partenariato per la sicurezza, avremo costruito per l’Europa un nuovo modello di vicinato e di influenza. In sostanza, l’accesso regolamentato al mercato unico sommato all’appartenenza al Consiglio d’Europa costituirebbe un quadro europeo di cooperazione economica e politica utile per il futuro e trasferibile, mutatis mutandis, ad altri paesi vicini.

Un quadro istituzionale unico. Formati differenziati

Una volta delimitato, un progetto politico va anche diretto. Non si può rimproverare all’Europa di disinteressarsi delle istituzioni, perché sono la sua passione. I dibattiti sui trattati e i “circoli” animano la vita di Bruxelles da settant’anni. Ma la sfida è riconsiderare il tema in maniera pragmatica, seguendo una linea semplice: un quadro istituzionale unico; formati differenziati.

Regolarmente in Germania e ancor più in Francia si ripresenta l’idea di definire club o circoli di paesi europei, non senza una certa nostalgia per un’Europa più ridotta e più omogenea. Un “nocciolo duro” incarnerebbe lo spirito europeo e l’ambizione originale. Potrebbe essere il circolo dei sei membri fondatori o dei dodici che hanno segnato l’era Delors. Quell’Europa però non si ritroverà. Si costruirà l’armonizzazione fiscale necessaria con i Paesi Bassi e il Lussemburgo? In quest’ambito, la Francia non è forse più vicina a Varsavia che a Dublino? I formati storici, le fratture Est-Ovest o Nord-Sud non riassumono l’UE. Ciò costituisce d’altronde la possibilità e la condizione di sopravvivenza dell’UE, perché se due o tre club si opponessero su tutti i temi, giungerebbero rapidamente a una scissione.

In un’Europa a 27 occorre costituire dei gruppi di progetto in funzione dei temi. Da qui deriva l’assoluta necessità di “parlare con tutti”. Questo può significare costruire semplici alleanze temporanee per portare avanti un’idea: nella primavera 2019 ad esempio, la Francia ha riunito quattro, poi nove paesi, prima senza la Germania poi insieme a essa, affinché venisse adottato a livello europeo l’obiettivo di neutralità carbonica entro il 2050. Questa differenziazione può comportare anche cooperazioni più durevoli, che d’altronde esistono nella storia europea, da Schengen all’euro, sino ad oggi con la difesa.

Secondo un apparente paradosso, la condizione per giungere a una simile differenziazione senza provocare uno smembramento è conservare un quadro istituzionale unico: una sola Commissione, un solo Consiglio, un solo Parlamento, una sola Corte di giustizia e una sola Banca centrale. Il quadro stesso dovrebbe però essere più flessibile per consentire una differenziazione giusta ed efficace. Il Parlamento europeo dovrebbe pertanto riunirsi come “Parlamento della zona euro” soltanto con i deputati dei paesi interessati, così da poter votare, un domani, un bilancio specifico per i paesi che condividono la stessa moneta. Allo stesso modo il Consiglio potrebbe cambiare ulteriormente il proprio formato in funzione dei temi discussi. Per organizzare questa unità differenziata sarà necessaria una modifica del trattato; nel frattempo esistono soluzioni pragmatiche come quella dell’Eurogruppo che consentono di andare avanti.

Vi sono altri due cambiamenti di ordine istituzionale che appaiono indispensabili per aumentare l’efficacia decisionale dell’Unione in una famiglia di 27 membri. Da un lato, occorre ridurre le dimensioni della Commissione, poiché il principio di un commissario per paese non consente oggi né di garantire la necessaria coesione in un esecutivo atipico e pertanto fragile, né di far emergere lo spirito europeo indispensabile per definire un interesse comune, giacché ogni capitale vede il proprio commissario come il proprio portavoce o protettore. Dall’altro, occorre porre fine al voto all’unanimità negli ambiti in cui esso è tuttora previsto, segnatamente la fiscalità, poiché questa procedura decisionale è giustificata soltanto per i temi di natura costituzionale, o costitutiva, come l’allargamento, la modifica dei trattati e, tema più discutibile, il bilancio e le sue risorse.

Tre Europe?

Nei grandi ambiti di cooperazione, si delineano in pratica tre Europe all’interno dell’UE. Emerge in primis un’Europa dei valori e del mercato, che costituiscono il fondamento delle comunità europee sin dal 1950: si tratta dell’Unione a 27, la quale talvolta include il proprio vicinato secondo la logica dei partenariati a cui ci si è riferiti sopra. In essa si riuniscono, o si riuniranno, in una sovrapposizione sempre più netta, lo stesso mercato unico, lo spazio Schengen che si amplia (non essendo in realtà possibile distinguere tra la logica del mercato interno e della libera circolazione), e la zona euro che si estende e copre una parte immensa dell’Unione post-Brexit. Al suo interno sta nascendo poco a poco un’Europa della difesa e della sicurezza, grazie all’Iniziativa europea d'intervento lanciata nel 2017 dal presidente della Repubblica; essa andrà ripensata alla luce della Brexit, perché proprio in quest’ambito il legame europeo del Regno Unito costituisce un interesse strategico comune essenziale. Questo è il senso della proposta che Emmanuel Macron ha rivolto ad Angela Merkel: quella di costituire un Consiglio di sicurezza europeo, un organo di coordinamento che associ Londra al settore della politica estera e di sicurezza (posizioni condivise, sanzioni comuni…).

In altri ambiti, segnatamente in quello delle cooperazioni industriali, predominerà la cooperazione pragmatica, il formato ad hoc, con un sostegno dell’UE (in particolare finanziario): così è per i “progetti rilevanti d’interesse comune europeo” lanciati dalla Francia e dalla Germania nel campo delle batterie elettriche, con il sostegno della Commissione europea e una deroga alle norme sugli aiuti di Stato. Non tutte le cooperazioni europee sono destinate ad avere un trattato proprio e istituzioni proprie; non tutti i progetti europei debbono attendere di essere accettati da tutti. L’Europa deve ritrovare il gusto dell’intraprendere e del desiderio: coloro che andranno avanti trascineranno coloro che aspettano; è una legge europea ben consolidata. Le istituzioni debbono alleggerire e facilitare il progetto europeo, invece di volerlo incarnare da sole in ogni punto. Una sola avanguardia rimane necessaria in fondo e deve assumersi le proprie responsabilità: si tratta sempre della base franco-tedesca.

È proprio questo lo spirito della Conferenza sul futuro dell’Europa, che dovrebbe partire ad autunno 2020, durante la presidenza tedesca dell’UE, e concludersi a primavera 2022, durante la presidenza francese. Visto che l’UE manca di luoghi e di momenti di potere, visto che il cambiamento mediante la spinta istituzionale non funziona più, è essenziale avviare un lungo periodo di riflessione sul merito delle politiche e degli interventi condotti. Associando le istituzioni europee e nazionali, ma soprattutto i cittadini mediante esercizi deliberativi approfonditi – analogamente a quanto fatto con la recente Convention citoyenne pour le climat (convenzione dei cittadini per il clima) – questa iniziativa senza precedenti costituirà l’occasione di interrogarsi in merito a questioni mai dibattute insieme, contemporaneamente, a livello europeo: quale politica migratoria, quale politica alimentare, quale politica sanitaria, quale politica commerciale? Ad alcuni questo esercizio farà sorridere, come succede per ogni esperienza di questo tipo; è una scommessa, ma negli ultimi dieci mesi, dalle elezioni europee alle marce per il clima, si è visto quanto gli europei sentano il bisogno di un progetto comune e desiderino ardentemente impegnarsi. Per garantire questa mobilitazione, una condizione essenziale è indispensabile: che gli Stati e le istituzioni europee si impegnino a riprendere al più presto gran parte delle proposte che produrrà la Conferenza.

Un’agenda di potenza

La maggiore novità per l’Europa è predisporre un’agenda di potenza. L’idea si è fatta rapidamente strada negli ultimi tre anni, sotto l’impulso delle proposte francesi, di un progressivo rinnovamento tedesco e delle scosse provocate dallo scontro cino-americano.

Gli ambiti in cui si esplica la potenza, che qui ricordiamo seguendo le linee presentate da Emmanuel Macron a settembre 2017, sono ben definiti. La crisi provocata dal COVID-19 ne ha accentuato la consapevolezza, in particolare nell’ambito dell’indipendenza industriale e della protezione dei settori economici strategici, fra i quali figura quello sanitario. Meritano un po’ di attenzione tre punti evidenziati meno spesso.

Dimostrando una forma di riserbo o di apertura benevolente che segna la sua storia recente, l’UE tende negli ultimi anni a partecipare al gioco internazionale come un honest broker (onesto mediatore), collocandosi in posizione di equidistanza dai grandi protagonisti, in particolare dagli Stati Uniti e dalla Cina. È un po’ paradossale che fra questi figurino vari paesi a est dell’Europa che tengono molto al rapporto transatlantico e che in materia economica o tecnologica rifiutano qualsiasi confronto con la Cina. La scelta sistematica dell’equidistanza è la scelta delle non potenze. E in tal senso il migliore esempio è dato dall’ambito commerciale: durante il mandato della precedente Commissione, l’UE avrebbe dovuto, sin dall’inizio della presidenza Trump, cercare di fissare un’agenda comune per la riforma dell’Organizzazione mondiale del commercio e riconoscere che, pur non condividendo stile e metodi, a Bruxelles come a Washington si svolgeva la medesima analisi dei comportamenti anticoncorrenziali aggressivi di Pechino. L’Unione ha preferito evitare di affrontare l’argomento, subendo al contempo la rivalità commerciale cinese e i dazi doganali americani, moltiplicando nel frattempo gli accordi commerciali con qualsiasi altro partner disponibile (Canada, Vietnam, Mercosur…). L’Unione non deve invece vergognarsi se collabora strettamente con la Cina in ambito climatico, visto che gli americani si sono autoesclusi dall’accordo di Parigi. Scegliere le proprie battaglie e i propri partner, collocandosi al contempo in un quadro concettualmente chiaro (autonomia europea, rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, cooperazione di circostanza con altri soggetti), costituisce l’essenza stessa di una politica di potenza, il cui punto fermo in ogni momento è la difesa dei propri valori e dei propri interessi.

Per condurre questa azione, innanzitutto l’Unione deve calcolare le proprie forze. La sua risorsa principale rimane il mercato interno, il più grande mercato aperto del mondo, con 450 milioni di persone. È un elemento di forza all’interno e di potenza all’esterno su cui far leva, al quale sono associate le grandi politiche europee integrate, la concorrenza e il commercio internazionale. Questo è il motivo per cui il rafforzamento del mercato interno – ad esempio mediante l’unificazione del diritto commerciale, della regolamentazione del settore bancario e finanziario o delle norme relative alle grandi piattaforme digitali – non è un progetto superato, concluso, ma sommamente attuale per la nostra crescita e la nostra competitività.

La sua potenza e persino la sua sopravvivenza richiedono adeguamenti fondamentali. Da un lato, la lotta contro il dumping interno in Europa, che ne mina l’accettazione durevole da parte dei cittadini: questo è il senso della riforma del lavoro distaccato entrata in vigore il 30 luglio 2020, che deve essere sostenuta da una lotta senza quartiere contro le frodi e le società di comodo; questo è anche l’imperativo della convergenza fiscale, ancora agli inizi, segnatamente in materia di imposta sulle società e nel settore digitale. Dall’altro, la politica di concorrenza – in principio giustamente concepita come una regolamentazione interna per consentire una concorrenza non falsata, che stimoli l’innovazione – ormai inadeguata a una concorrenza mondiale che esige di lottare ad armi pari contro grandi imprese straniere fortemente sovvenzionate o captive dei mercati strategici. È infine indispensabile cambiare il modus operandi in ambito commerciale: esso può svolgere una funzione essenziale nel difendere i nostri interessi e promuovere i nostri standard, in materia alimentare, ambientale o sanitaria, ma gli accordi attuali, che non impongono la piena osservanza dell’accordo di Parigi o delle clausole ambientali in essi contenute, saranno presto non più accettabili per i cittadini europei e non rendono giustizia al peso reale dell’UE nel commercio internazionale.

Una sfida di potenza spesso ignorata o trascurata riguarda la demografia. Da oggi al 2050, l’Unione europea sarebbe l’unico blocco regionale a registrare un declino della propria popolazione rispetto ai valori attuali. È forse obsoleto usare la demografia come moltiplicatore di potenza? Certo che no, perché il declino demografico, oltre al peso diretto conferito dalla ricchezza creata collettivamente, rinchiude in un ripiegamento quasi inevitabile le società, le quali sono private del dinamismo della gioventù e si concentrano su di una paura di essere cancellate che ha già lasciato tracce in Europa. Una parte del successo di nazionalisti e ultraconservatori nell’Est dell’Unione è dovuta alla fuga dei giovani. Le politiche per la famiglia sono nazionali ed è auspicabile che lo restino, in quanto si inseriscono in modelli locali sensibili. Tuttavia, come sottolineato dal presidente della Repubblica a Cracovia il 5 febbraio scorso, l’UE potrebbe sostenere finanziariamente le politiche demografiche degli Stati membri, nel rigoroso rispetto dei nostri valori comuni, in particolare dell’uguaglianza tra donne e uomini.

Nessun progetto politico e nessuna comunità perdura e crede nel proprio futuro senza un senso di appartenenza condiviso. Non è né un lusso, né un capriccio “europeista”, anche perché le basi di questa identità comune sono solidamente radicate nella nostra architettura, nella nostra letteratura, nelle nostre lingue e nei nostri paesaggi. Ignorando questa eredità, la costruzione europea è rimasta un oggetto freddo, facile bersaglio di detrattori che denunciano la sua macchina burocratica. Nessun europeo convinto lo è grazie a una dimostrazione economica dei benefici dell’euro. Personalmente lo sono diventato grazie alla politica e alla storia, nel corso di un viaggio compiuto a Berlino qualche settimana dopo il crollo del muro: l’Europa incarnava la speranza. Altri ci credono per la loro storia familiare, perché sono lavoratori transfrontalieri, per la letteratura, per il finanziamento europeo di un progetto o per il sentimento diffuso che il mondo non può ragionevolmente essere dominato da un condominio di Stati Uniti e Cina.

Il programma Erasmus potrebbe essere generalizzato entro il decennio: procediamo in questa direzione ma non celermente quanto avremmo voluto. Visto che ciascun paese cerca nuove soluzioni per riunire insieme i propri giovani, perché non istituire un servizio civile europeo? La battaglia per la democrazia pluralistica e lo stato di diritto è importante perché è un elemento costitutivo della nostra identità comune. Spesso balza in mente un’idea che riflette quel bisogno di rappresentazione – ancor più rafforzato quando si percorrono i corridoi tristemente bianchi o terribilmente multicolori degli edifici di Bruxelles: è l’idea di mettere luoghi e volti celebri sulle nostre banconote. L’euro non può essere soltanto ponti e finestre, come se troppe e troppi fossero le grandi donne e i grandi uomini d’Europa per farne una scelta. L’Europa è il continente capace di andare avanti soltanto essendo orgoglioso del suo passato: diamo allora corpo ai nostri oggetti comuni. L’appartenenza si manifesta in molteplici forme e questi sono soltanto alcuni esempi, i quali non hanno però nulla di accessorio. Che si concluda con un’ultima considerazione: visto che in fondo dobbiamo essere orgogliosi insieme per continuare quest’avventura, gli europei hanno bisogno di un grande progetto condiviso. Nel settore spaziale, abbiamo tuttora l’industria più avanzata del mondo, ma se i cinesi e gli americani evocano una nuova conquista spaziale, gli europei non osano farlo. Dovremmo invece proclamare che il primo essere umano su Marte sarà europeo. L’ambizione e il sogno non sono l’appannaggio degli altri.

***

La battaglia condotta dalla Francia per non lasciare la nozione di sovranità a chi non la difende veramente e per far sì che l’Europa non lasci gli altri parlare il linguaggio della potenza al suo posto sta dando i suoi frutti. Grazie a un impegno europeo costante – innanzitutto franco-tedesco, ma non soltanto – a riforme che ripristinano la nostra credibilità, a una difesa continua degli interessi dell’Europa nel mondo, ché sono quelli della Francia, Emmanuel Macron ha ottenuto risultati, almeno sulla base di tre criteri.

Oltre la metà delle proposte contenute nel discorso della Sorbona sono messe in atto, dalle università europee alla tutela dei diritti d’autore, dalla riforma del lavoro distaccato all’Intelligence College in Europe, da una forza europea di protezione civile all’Iniziativa europea d'intervento: non tutte sono visibili e talvolta lo sono ma la loro dimensione europea non viene percepita; dobbiamo farle nostre, spiegarle, svilupparle.

Tra queste proposte, alcuni grandi cambiamenti sono stati adottati e vengono preparati: fra questi vi è soprattutto l’accordo di bilancio del luglio 2020 che crea per la prima volta un debito comune europeo destinato a finanziare la ripresa delle nostre economie. Si assiste specialmente a un cambiamento nel modus operandi europeo: vi sono paesi detti liberali, del Nord Europa ad esempio, che difendono la protezione di settori strategici contro gli investimenti esteri; nessuno Stato rifiuta di rispondere agli attacchi commerciali che colpiscono l’Unione, anche quando vengono da oltreoceano; la Germania si assume maggiori responsabilità in materia di sicurezza e di difesa; non vi è alcun dubbio in merito alla necessità di un’azione comune e decisa nei confronti della Cina; e l’unità europea nei negoziati sulla Brexit costituisce il più chiaro test di sovranità che superiamo insieme.

L’Europa che ha sopravvissuto a un decennio di crisi ha capito l’inevitabilità della propria trasformazione da spazio a potenza. Certamente non si tratta di farne un “super-Stato” o di negare le differenze nazionali: l’Europa troverà anzi in una differenziazione consapevole la propria forza e la propria leadership. Che sia la Francia a guidare l’aiuto europeo in Libano, è del tutto normale; che sia la Spagna a dare il tono riguardo alla crisi in Venezuela, è anche questa un’opportunità per l’affermazione europea… Questo è il modello originale in cui – se saprà ricostruire il proprio quadrato magico fatto di frontiere chiare, istituzioni efficaci, agenda di potenza e senso di appartenenza – l’Europa troverà la forza di brillare nuovamente. Occorrerà aggiungerci ciò che costituisce il sale di qualsiasi potenza: sapere che durerà. Questa proiezione sul lungo termine deve cominciare proprio con la Conferenza sul futuro dell’Europa.

 

Note

[1] E. Macron, Rivoluzione, La nave di Teseo, 2017 (p. 207)

[2] Si veda lo studio: L. Lamant, Bruxelles Chantiers, une critique architecturale de l’Europe, Lux Editeur, 2018

[3] G. Steiner, Una certa idea di Europa, Garzanti, 2006

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo non riflettono necessariamente quelle dell'ISPI.

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AUTORI

Clément Beaune
Segretario di Stato della Repubblica Francese incaricato agli Affari Europei

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