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Focus Mediterraneo Allargato n.12

Libano: le dimensioni di una crisi

Eugenio Dacrema
21 febbraio 2020

Dal 17 ottobre 2019 il Libano sta attraversando una difficile stagione di proteste di piazza che ha messo in discussione l’ordine politico ed economico del paese, così come strutturato a seguito dell’accordo di Taiz del 1990 che mise fine al lungo conflitto civile libanese.

Dopo la rinuncia a formare un nuovo governo da parte di Saad Hariri, leader del Partito Futuro (principale formazione politica sunnita del paese) dimessosi a ottobre, il presidente della Repubblica Michel Aoun ha conferito l’incarico di formare un nuovo esecutivo a Hassan Diab, un accademico non affiliato ai partiti tradizionali seppur considerato vicino alla coalizione guidata dal partito-milizia sciita Hezbollah, considerata politicamente molto vicina ed economicamente sostenuta dall’Iran. Il nuovo governo, annunciato ufficialmente il 24 gennaio, è composto prevalentemente da figure analoghe al premier, professionisti e accademici formalmente indipendenti dalle normali affiliazioni partitiche. Ciò sembra venire incontro, almeno in parte, alle richieste della piazza, mirate a ottenere un ricambio della classe dirigente. Nonostante alcuni importanti cambiamenti (tra cui la forte presenza di donne, 6 su 20, e il taglio di un terzo degli incarichi ministeriali), il governo di Diab resta però sostenuto da una coalizione parlamentare ancora più ristretta rispetto a quella dell’esecutivo Hariri, e dominata da formazioni politiche tradizionali, in particolare l’alleanza politica guidata da Hezbollah. Ciò ha portato gran parte del movimento di protesta a bollare la nuova compagine governativa come insufficiente a venire incontro alle richieste della piazza. Nuove manifestazioni e blocchi stradali si sono registrati soprattutto nella capitale Beirut, e hanno visto la rabbia dei partecipanti riversarsi primariamente contro le banche del paese, fortemente legate al potere politico, accusate di mettere a repentaglio la sopravvivenza economica dei cittadini libanesi avendo limitato dal novembre scorso la possibilità di ritirare contanti dai loro sportelli. Il limite, fino alla fine di gennaio fissato a 200 dollari a settimana, all’inizio di febbraio è stato ulteriormente ristretto a 200 dollari ogni due settimane.

Quadro interno

La recente instabilità politica ha reso evidenti le fragilità strutturali insite nel sistema economico del paese, che dalla fine della guerra civile si è essenzialmente basato sulla commistione tra economia e politica. Negli ultimi trent’anni l’economia libanese è stata infatti dominata dalla stretta cooperazione tra settore bancario – diviso tra istituti vicini ai vari potentati politici – e i settori immobiliare e dei servizi, anch’essi strettamente legati ai partiti tradizionali. Ciò ha comportato, da una parte, il coagularsi di una struttura economica sbilanciata verso settori non-produttivi portando a deficit sempre più ampi di bilancia commerciale e partita corrente compensati, almeno fino a quest’anno, dagli ingenti investimenti stranieri resi attraenti dagli alti tassi di interesse garantiti dalle banche libanesi e dal tasso di cambio della valuta nazionale rispetto al dollaro; dall’altra parte, in mancanza di un settore industriale sviluppato, il sistema politico ha garantito occupazione tramite la distribuzione di posti pubblici su base settario-partitica, andando progressivamente a pesare sul bilancio corrente dello stato e incrementando enormemente il debito pubblico (tra i più alti del mondo in proporzione al Pil). I titoli di debito pubblico sono detenuti in gran parte dalle banche nazionali, le quali hanno lavorato a stretto contatto con la Banca centrale – guidata dal 1993 da Riad Salameh, una delle figure più influenti in Libano – al fine di garantire copertura del debito pubblico attraverso il sistema bancario privato. Un sistema che negli anni ha portato all’esacerbarsi degli squilibri strutturali dell’economia e al coagularsi di quello che diversi commentatori internazionali hanno definito come uno “schema Ponzi” nazionale (ovvero la tecnica di coprire un debito passato incorrendo in nuovi debiti). Un sistema destinato a perdurare solo in presenza di un buon livello di credibilità interna e internazionale, fattori entrati in crisi con l’inizio delle proteste nell’ottobre scorso. Anche se non si hanno stime ufficiali sull’andamento dei flussi finanziari dal e verso il paese da ottobre a oggi, la forte instabilità politica sembra aver portato a una significativa fuga di capitali in grado di minare alla base la stabilità dell’intera economia. Le banche sono corse ai ripari limitando i prelievi agli sportelli, mentre la Banca centrale – pur lasciando ufficialmente intatto il tasso di cambio di 1.500 lire libanesi per un dollaro – ha di fatto avallato la creazione di un mercato di valuta informale in cui la divisa nazionale è ormai scambiata a circa 2.300 lire per un dollaro. Le restrizioni sugli scambi in valuta forte hanno inoltre iniziato a colpire la capacità di aziende e istituzioni libanesi di importare beni dall’estero, compresi generi di prima necessità come cibo e medicine, contribuendo alla rapida crescita dell’inflazione e impattando negativamente sulle condizioni di vita della popolazione. Le misure prese finora dalle istituzioni libanesi sono risultate solo palliative e difficilmente soluzioni di lungo termine potranno concretizzarsi senza interventi consistenti da parte di organizzazioni internazionali e potenze alleate, a cominciare dagli stati europei e dai paesi del Golfo.

Il continuo deterioramento economico e la situazione di precarietà politica sono i fattori principali che hanno impedito una sostanziale interruzione delle proteste, iniziate a ottobre e proseguite, con varie intensità, fino a oggi. Questo nonostante un notevole aumento degli episodi di repressione sia da parte delle forze di sicurezza (intervenute anche con violenza soprattutto per rimuovere i blocchi stradali instituiti dai manifestanti) sia di bande violente afferenti a Hezbollah e Amal (quest’ultima organizzazione politica sciita minore alleata di Hezbollah).

Fin dall’inizio il movimento è apparso composto da diverse anime e mosso da obiettivi politici e socioeconomici non sempre sovrapponibili. Le rivendicazioni più diffuse sono certamente di natura economica, legate al costante deterioramento delle condizioni di vita e al rincaro dei prezzi, che gran parte della popolazione attribuisce in primo luogo alla corruzione e alla cattiva gestione della classe politica tradizionale. A tali rivendicazioni più contingenti si aggiunge una contestazione complessiva del sistema politico-settario instaurato a partire dalla fine della guerra civile e rimasto sostanzialmente intatto fino a oggi, nonostante le profonde trasformazioni avvenute all’interno della popolazione libanese. Mentre infatti il panorama partitico e i meccanismi di distribuzione del potere sono rimasti sostanzialmente fermi agli equilibri emersi dalla Conferenza di Taiz del 1990, la società libanese ha visto la dimensione settaria nella vita pubblica diminuire sensibilmente d’importanza e venire spesso usata per giustificare la sopravvivenza politica di un establishment rivelatosi fallimentare nell’amministrare lo stato. Esiste quindi oggi una distanza netta tra il sistema politico e la società libanese, molto più mista e meno legata alle appartenenze settarie di 30 anni fa, soprattutto se si guarda alle generazioni più giovani nate dopo la fine della guerra civile.

Sarebbe però un errore sottostimare troppo l’importanza che l’appartenenza settaria continua ad avere in molte parti della società e assumere che l’intera classe politica tradizionale sia compromessa agli occhi dell’opinioni pubblica – e delle loro tradizionali basi sociali – nello stesso modo. Hezbollah, per esempio, continua infatti a godere del consenso di gran parte della popolazione sciita, così come di partiti più piccoli ma ben radicati come il Movimento Patriottico, compagine politica cristiana fondata dall’attuale presidente della Repubblica Michel Aoun. Se, da una parte, lo scoppio delle proteste sembra avere per la prima volta messo in discussione l’egemonia culturale di tali formazioni sulle loro rispettive basi sociali, esse sembrano comunque conservare un buon livello di consenso. Negli ultimi mesi ciò ha permesso loro di mettere in campo una strategia di resistenza alle proteste che ha coinvolto sporadiche contro-manifestazioni, campagne di delegittimazione mediatiche del movimento ed episodi di vero e proprio scontro violento. Tale situazione ha portato a una sostanziale polarizzazione tra i simpatizzanti del movimento nato nell’ottobre scorso e i sostenitori residui dei partiti politici tradizionali, in particolare Hezbollah e il Movimento Patriottico. Nel breve termine ciò sembra aver favorito la presa sul potere di questi ultimi, rimasti le uniche organizzazioni dell’establishment ancora investite di considerevole livello di legittimazione popolare, permettendo loro di esprimere la maggioranza parlamentare che ha sostenuto la formazione del nuovo governo. La situazione appare però ancora in piena evoluzione, soprattutto a causa dell’incertezza relativa alla stabilità complessiva dell’economia nazionale. Ulteriori gravi deterioramenti delle condizioni di vita potrebbero infatti concentrare il malcontento popolare sull’attuale governo e sui suoi sostenitori, deprivando quest’ultimi di ulteriori quote di consenso.

Relazioni esterne

La grave delegittimazione del sistema politico a seguito dell’inizio del movimento di protesta ha esacerbato la crisi economica a un livello senza precedenti dalla fine della guerra civile. Difficilmente il paese sarà in grado di uscire da tale situazione in modo autonomo e quasi sicuramente dovrà ricorrere al sostegno finanziario internazionale. Già in passato il Libano è ricorso a interventi del genere, approfittando delle piccole dimensioni della sua economia – e quindi delle cifre relativamente contenute necessarie per salvarla dal collasso – e dell’interesse di molti partner internazionali a evitare una crisi di instabilità nel piccolo paese posto nel cuore del Medio Oriente.

Per far fronte a un deterioramento economico ormai in corso da diversi anni – anche se mai arrivato prima ai livelli odierni – una conferenza internazionale per raccogliere fondi volti a sostenere il Libano era stata organizzata a Parigi alla fine del 2018 e aveva raccolto disponibilità per circa 11 miliardi di dollari in aiuti e prestiti agevolati in cambio di un credibile processo di riforme da parte di un governo che si sarebbe dovuto formare dopo le elezioni parlamentari dello stesso anno. Già l’esecutivo Hariri, entrato in funzione poco dopo l’appuntamento di Parigi, aveva incontrato significativi ostacoli ad attuare gli interventi richiesti per sbloccare gli aiuti internazionali a causa della difficoltà di introdurre misure economiche di austerità su una popolazione già provata da diversi anni di declino economico. La situazione aveva infatti subito un drastico peggioramento a partire dall’inizio del conflitto civile nella vicina Siria che aveva portato nel piccolo paese di 4 milioni di abitanti circa 1,5 milioni di rifugiati. In tale situazione di flussi finanziari declinanti a causa della crescente instabilità regionale e di un budget statale sempre più appesantito dalle spese necessarie a far fronte ai nuovi arrivi di popolazione, il sostegno internazionale coagulatosi in occasione della Conferenza di Parigi appariva come un necessario fondo di ultima istanza in grado, da una parte, di fungere da incentivo cruciale per l’ottenimento di almeno alcune delle molte riforme economiche necessarie a rinnovare l’economia libanese e, dall’altra, di salvare il paese da un tracollo economico difficilmente evitabile ricorrendo solo alle risorse nazionali. La coalizione internazionale riunitasi a Parigi contava però sulla prospettiva di un governo di unità nazionale in grado di unire i due principali blocchi dominanti nella politica libanese dal ritiro delle truppe siriane nel 2005: la coalizione 14 Marzo, guidata dal Partito Futuro di Saad Hariri e la coalizione 8 Marzo, guidata da Hezbollah. Le elezioni del 2018, pur segnando una significativa vittoria per quest’ultima, hanno comunque portato alla formazione di un governo sostenuto da entrambi gli schieramenti, percepito come necessario per garantire la stabilità e la fiducia necessarie a tranquillizzare i partner internazionali, in particolare gli stati occidentali preoccupati per il possibile emergere di un governo dominato unicamente dalla coalizione guidata da Hezbollah.

Quest’ultima prospettiva sembra però essersi realizzata a seguito dello scoppio delle proteste e delle dimissioni di Saad Hariri. Il nuovo governo di Diab è infatti sostenuto quasi esclusivamente da forze politiche vicine a Hezbollah e quindi avente un baricentro decisamente spostato a favore dell’Iran e del regime siriano. Ciò rende assai improbabile che molti dei membri della coalizione internazionale riunitasi a Parigi siano oggi disposti a mantenere le promesse di sostegno economico. Il rischio è quindi quello di un ulteriore isolamento di un governo in grave necessità di sostegno finanziario internazionale.

Il 9 marzo giungeranno a maturazione circa 1,2 miliardi di dollari di titoli di debito pubblico libanese. L’eventuale insolvibilità di tale debito potrebbe portare il Libano in una fase di default finanziario e verso un’ulteriore escalation dell’attuale crisi. Il nuovo esecutivo si troverebbe probabilmente costretto a domandare ai creditori una ristrutturazione del debito e a chiedere sostegno finanziario d’emergenza ad attori esterni. Alla fine di gennaio alcune indiscrezioni davano come possibile l’intervento russo – finora negato ufficialmente dalle autorità di Mosca – con il deposito di circa 1 miliardo di dollari nella Banca centrale libanese. Tale misura avrebbe la conseguenza di evitare l’insolvibilità nel breve termine ma risulterebbe comunque insufficiente per risolvere le criticità finanziarie del Libano. Un’eventuale insolvibilità del debito libanese emerge certamente come lo scenario di breve termine più critico, anche se un possibile intervento esterno emergenziale porrebbe comunque l’attuale esecutivo, e l’intero sistema politico, davanti a scelte molto difficili nei prossimi mesi. Un probabile default, infatti, si concretizzerebbe in una nuova massiccia fuga di capitali accompagnata da un aumento incontrollabile dell’inflazione e quindi ulteriori ostacoli alle importazioni, comprese quelle di generi di prima necessità. La crisi umanitaria conseguente avrebbe effetti drammatici sulla stabilità politica complessiva con alta probabilità di recrudescenze di violenza.

Un intervento finanziario esterno eviterebbe i gravi rischi di destabilizzazione causati da un default ma porrebbe comunque le autorità libanesi davanti alla necessità di operare pesanti riforme al fine di scongiurare il ripetersi degli stessi rischi nel prossimo futuro. Le misure di austerità che ne risulterebbero avrebbero comunque un grave costo politico per l’attuale governo e le forze che lo sostengono, prolungando con ogni probabilità l’attuale movimento di protesta e i rischi di instabilità politica.

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Eugenio Dacrema
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