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Commentary

Libano: A un anno dal primo default

Giovanni Salinaro
05 marzo 2021

È passato un anno dal primo default sovrano del Libano, avvenuto a marzo 2020, quando il Paese non riuscì a ripagare la tranche da 1,2 miliardi di dollari relativa a un Eurobond emesso nel 2010 e che valeva 30 miliardi. A seguito del default il governo libanese impose misure di controllo sui movimenti di capitale e il divieto di accesso ai depositi in valuta, ma espresse anche l’intenzione di implementare un piano di salvataggio del settore finanziario, con l’obiettivo di coprire le perdite (che ammontano a circa 70 miliardi di dollari). Si pensò anche a un intervento del Fondo Monetario Internazionale (FMI), nonostante la prevedibile contrarietà di Hezbollah, prima forza politica del Paese.

Il Libano era giunto alle soglie del default con indicatori macroeconomici insostenibili: un debito pubblico pari a circa il 170% del Pi l(circa 90 miliardi di dollari), un deficit fiscale che oltrepassava l’11% del Pil il 50% delle entrate fiscali destinate al pagamento degli interessi sul debito e il deficit delle partite correnti superiore  al 27% del Pil. Ma le riserve di valuta straniera forte, sebbene in calo, erano cospicue, o almeno apparivano tali (29 miliardi di dollari a gennaio 2020, a copertura di 10 mesi di importazioni).

Figura 1 - Deficit fiscale e di parte corrente (sinistra) e debito pubblico (destra), % del Pil

 

Fonte: WEO ottobre 2020

Persino durante la guerra civile degli anni ’80 del secolo scorso il Paese aveva comunque onorato i propri pagamenti. Quindi cosa ha portato il Libano a dichiarare un default per la prima volta nella sua storia recente? Tra i protagonisti di questa vicenda c’è la Banca Centrale Libanese (Banque du Liban) la quale ha finanziato gli ampi e strutturali deficit di bilancio vendendo al sistema bancario libanese (secondo al mondo per dimensione in relazione al Pil e i cui asset valevano il 420% del Pil del Paese) debito pubblico (e Eurobonds) in cambio di depositi in valuta estera presso la banca centrale, sui quali venivano riconosciuti elevati rendimenti. In questo modo il Paese riusciva a reperire le risorse necessarie dal sistema bancario e ad assicurare il regime di cambio fisso con il dollaro USA (al cambio di 1.505 LBP per USD), mostrando al contempo un discreto livello di riserve internazionali.

 

Le premesse di un fallimento

Già il FMI nel 2017 aveva acceso un primo campanello di allarme su queste operazioni “ingegneristiche” che erano cominciate nel 2016 e dipendevano sostanzialmente dai continui afflussi di capitale estero, di rimesse (la popolazione libanese residente all’estero (circa 14 milioni) è più del doppio di quella residente nel Paese (circa 6 mln). e di investimenti in bond.

Il sistema crolla alla fine del 2019, nel mezzo di proteste popolari che denunciavano la corruzione e il clientelismo della classe politica, l’assenza di servizi essenziali e una disoccupazione giovanile crescente (17% vs 13% del 2014 a dispetto di un tasso di disoccupazione del 6%, secondo la Banca Mondiale). La goccia che fa traboccare il vaso è l’ipotesi di inserire un’imposta sulle chiamate tramite l’applicazione WhatsApp, che getta benzina sul fuoco e porta, nel dicembre 2019, alle dimissioni del primo ministro Saad al-Hariri, il quale era riuscito a formare un esecutivo di unità nazionale nel 2016, non senza difficoltà, dopo un lungo periodo di vuoto istituzionale.

Ma già a partire da ottobre 2019 le banche locali, pur in assenza di direttive formali da parte della banca centrale, hanno cominciato a razionare l’accesso alla valuta forte generando così una corsa agli sportelli a cui è seguita la sospensione del prelievo sui depositi che, col passare dei mesi sono drasticamente calati.

Figura 2 – Depositi totali presso banche commerciali in Libano

 

Fonte: Economena Analytics, Banque du Liban

A gennaio 2020 si insedia il primo ministro Hassad Diab, autore del piano di bail-in seguito al default del 9 marzo 2020. Il piano prevedeva utilizzo di depositi ed equity a copertura delle perdite del settore bancario e l’impossibilità di accedere ai depositi se non per esigenze eccezionali; piano che però non decollerà mai per l’opposizione delle stesse banche libanesi e dei loro azionisti che avrebbero dovuto rinunciare ai profitti accumulati nell’ultima decade. Sfortunatamente il pacchetto era alla base dei colloqui con il FMI per un possibile programma di aiuti.

Ormai era chiaro che il Paese da solo non ce l’avrebbe fatta e necessitava di un supporto esterno. Dopo aver preso atto dell’impossibilità di poter accedere agli aiuti deliberati nel 2018 dalla conferenza CEDRE  - Conférence économique pour le développement, par les réformes et avec les entreprises tenuta a Parigi ad aprile 2018 (per un totale di 11,1 miliardi di dollari destinati a investimenti infrastrutturali) la cui erogazione presupponeva un piano di riforme mai attuate dal governo libanese, il Paese ha fatto ricorso alla soluzione di ultima istanza, il FMI, nonostante gli ostacoli politici interni. Anche questa possibilità, però, appare sfumata in seguito alla sospensione dei colloqui avvenuta a luglio 2020.

La pandemia ha ulteriormente inasprito la già critica situazione: crisi economica, frequenti interruzioni di energia elettrica, il mercato parallelo hanno inflitto una forte svalutazione alla valuta locale (scambiata a luglio 2020 a 9.000 LBP per USD) e l’inflazione ha cominciato ad aumentare velocemente raggiungendo l’85% a dicembre 2020 (sui beni alimentari si è arrivati al 400%), una conseguenza certa in un Paese che importa quasi tutto ciò di cui necessita. Difatti a febbraio 2021 il governo si è trovato costretto ad aumentare del 20% i prezzi sussidiati su pane e farina, a causa di un aumento del costo della materia prima importata (grano) anche per effetto della svalutazione del cambio.

In seguito alla tragica esplosione nel porto di Beirut ad agosto 2020, assurto a simbolo del caos in cui versa il Paese, anche Hassad Diab ha rassegnato le proprie dimissioni, pur restando in carica ad interim fino ad ottobre 2020, mese in cui il presidente Aoun ha richiamato al-Hariri affidandogli l’incarico di formare un nuovo esecutivo, al momento ancora senza successo. L’impasse politica del Libano è il simbolo e il risultato della protezione degli interessi della classe dirigente economica e politica.

 

Il nodo del sistema bancario

È emblematico il comportamento della Banca Centrale che, opponendo il segreto bancario, rifiutò di collaborare con l’attività di audit, messa in campo con il piano Diab, che stava cercando di venire a capo dei problemi del sistema bancario locale. Anzi, lo stesso governatore Salameh – già accusato di aver distratto fondi in valuta estera dai forzieri della banca centrale in favore di broker esteri - ha proposto un suo piano di salvataggio del sistema bancario che prevede una ricapitalizzazione del 20% e la collocazione del 3% dei depositi in valuta forte presso filiali estere delle banche locali. È ipotizzabile l’impossibilità degli istituti minori di far fronte a tali richieste, finendo così sotto l’amministrazione della Banca Centrale. Le principali banche come Bank Audi o Biblos Bank hanno cominciato a vendere le proprie partecipazioni all’estero (in Egitto) per ottenerne liquidità. Ad ogni modo si stima che, anche nell’ipotesi di piena adesione a questo piano di ricapitalizzazione (con scadenza febbraio 2021), si riuscirebbero a coprire solo 4 miliardi di dollari dei circa 70 miliardi di perdita che il sistema bancario deve ripianare (secondo fonti del governo libanese riportate da Reuters); è un sistema che, di fatto, risulta insolvente.

Sono stati fissati dei differenti tassi di cambio che permettano in maniera differenziata il pagamento di importazioni, il prelievo di depositi (pagati in valuta locale anche se il deposito è denominato in valuta estera ) e il finanziamento di alcuni progetti tramite la Banca Mondiale (figura 3). Al momento le riserve a disposizione della Banca Centrale possono coprire, al cambio ufficiale di 1.507 LBP/USD, l’importazione di beni per 5 mesi. Tuttavia, considerata la dinamica del mercato parallelo della valuta, il Paese versa in condizioni critiche ed è probabile che vada incontro all’impossibilità di poter pagare parte delle proprie importazioni.

Anche a giudicare dagli indicatori di mercato, la situazione del Libano appare irreversibile: i CDS sovrani a 5 anni quotano oggi più del doppio rispetto a quelli del Venezuela (figura 4)

Figura 3 - Equivalente in valuta locale per 1 USD

 

Fonte: Oxford Analytica

 

Figura 4 - CDS sovrani a 5 anni

 

Fonte: Eikon

Il Paese continua a non onorare il servizio del debito, il quale nel frattempo è cresciuto e ha raggiunto il 200% del PIL (circa LBP 143 mila mld); il debito estero ammonta a circa $ 36 mld, di cui il 15% composto da ritardi e impagati.

Figura 5 - Debito pubblico in valuta locale ed estera (mld di LBN)

 

Fonte: Ministero delle Finanze del Libano

 

Possibili (ma difficili) vie di uscita

L’ammontare in dollari del debito potrebbe essere ridotto con una svalutazione e un write-off, anche parziale, se accettato dai creditori. Una svalutazione ufficiale che porti il tasso di cambio ai livelli del mercato parallelo, però, implicherebbe una necessità di ricapitalizzazione del sistema bancario che potrebbe arrivare a valere la metà del Pil del Paese (fonte IHS), rendendo insolventi gli istituti libanesi.

Ad ogni modo la possibilità di intervento del FMI è oggi ridotta al minimo, sia a causa dello stallo politico e dell’assenza di un esecutivo sia perché la situazione debitoria del Libano è certamente insostenibile per cui un intervento del Fondo può essere possibile solo a seguito di una ristrutturazione del debito stesso. I colloqui, come già detto in precedenza, hanno già subito uno stop a luglio 2020 quando il FMI, insieme ai donatori ufficiali (Francia, Regno Unito, USA), posero come condizione al rilascio di finanziamenti un ampio piano di riforme del settore pubblico, sgradite a molti politici e alla stessa Banca Centrale. L’opposizione a questo tipo di riforme non è, però, solo interna: se da un lato donatori ufficiali e FMI chiedono al Paese un cambio di passo, c’è chi è più interessato a un mantenimento dello status quo. Si tratta della Russia, che sul fronte siriano ha difeso, insieme a Hezbollah, il regime di Assad e che trova nella componente politica cristiano-maronita un alleato importante (il presidente Aoun e il suo consigliere ed ex ministro della difesa Elias Abu Saab sono esponenti del partito cristiano maronita Free Patriotic Movement - FPM). Gli aiuti e gli investimenti russi nel Paese vanno letti nella più ampia strategia di influenza russa in Medio Oriente, ma gli effetti sulla politica interna sono diretti.

Ad ogni modo un programma di aiuti del FMI varrebbe, in linea di principio, circa 3,8 miliardi di dollari, una cifra comunque insufficiente che andrebbe affiancata ad altri pacchetti di aiuto da parte di donors esterni (ad es. Francia e Gulf Cooperation Council). Ma l’ostacolo principale è formato dall’assenza di un interlocutore: il primo ministro designato al-Hariri, rappresentante sunnita, fatica a formare un governo e ha tensioni personali con il presidente Aoun e con il suo figliastro Gebran Bassil (che guida il partito Free Patriotic Movement – FPM  e che è stato anche sanzionato dagli USA a novembre 2020 nell’ambito del Magnitsky Act per corruzione e legami con Hezbollah) che aspira alla carica di presidente. Questo fa pensare a uno stallo che permarrà per lo meno fino allo scadere del mandato del presidente Aoun (ottobre 2022). Nonostante i colloqui con il presidente francese Macron, principale figura che promuove la formazione di un nuovo esecutivo per trovare una soluzione alla crisi e sbloccare gli aiuti internazionali, l’incontro tra Aoun e al-Hariri del 12 febbraio 2021 si è concluso in un nulla di fatto. Le frizioni politiche interne tra i principali gruppi etnici (e quindi politici) stanno aumentando, con l’ulteriore ostacolo di Hezbollah, la cui presenza e influenza ha portato anche i Paesi arabi del Golfo - in passato intervenuti a supporto del Paese - a non dichiararsi disponibili in questo senso. L’assetto istituzionale libanese su base confessionale non è certamente un elemento facilitatore.

Le tensioni sociali che aumentano e la difficile situazione economico/politica rendono probabili non solo manifestazioni contro l’establishment ma anche scontri settari interni tra diverse fazioni religiose e politiche. Lo spartiacque sta proprio nella formazione di un nuovo esecutivo che riesca a redigere un credibile piano di riforme, il quale permetterebbe lo sblocco dei piani di aiuti già citati, dal FMI al pacchetto CEDRE e di conseguenza all’aiuto bilaterale da parte di Paesi donatori.

 

Un Paese strategico

Il Libano, nonostante le sue difficoltà, resta un Paese altamente strategico soprattutto nella geopolitica della regione. Oltre a ospitare circa un milione di rifugiati siriani, fatto che ha posto una certa pressione economica e sociale sul Paese e sulla sua popolazione (circa 6 milioni di individui), il Libano è da sempre al centro delle attenzioni dei Paesi occidentali: è importante per la Francia, per i suoi legami storico/culturali, ma anche per l’Italia che dal 2006 è stata per molti anni, e lo è ancora oggi, a capo della missione UNIFIL con il dispiegamento di 1.076 uomini. L’Italia è attiva nel Paese anche con diversi progetti in ambito infrastrutturale, sociale e di difesa e conservazione del patrimonio culturale con il supporto della Cooperazione Internazionale.

Le relazioni commerciali dell’Italia con il Libano riflettono le difficoltà del Paese e la forte contrazione della domanda domestica. Si è passati da un interscambio – quasi totalmente composto da export di beni italiani in Libano di cui quasi la metà rappresentati da prodotti dell’industria estrattiva - di 1,6 miliardi di euro del 2017 ai 475 milioni per i primi dieci mesi del 2020. L’Italia resta, in Europa, tra i principali fornitori di prodotti per il Libano, fino al 2019 era anzi il Paese con la maggiore quota di mercato in EU (8%) prima della Germania (5,8%) e Francia (3,5%).

In seguito al default di marzo 2020 le agenzie di rating hanno effettuato un downgrade del Paese (S&P a SD – Selective Default -, Fitch a RD – Restrictive Default -  e Moody’s a C).

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AUTORI

Giovanni Salinaro
SACE

Image credits: pixabay

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