A poco più di un mese alle elezioni in Libia, Parigi ospita una conferenza internazionale per raccogliere consensi in vista del voto.
Si apre venerdì 12 novembre a Parigi una nuova Conferenza internazionale sulla Libia. All’incontro – annunciato dal ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre – si arriva in un clima di sfiducia. Il calendario segna un mese e mezzo alle elezioni del 24 dicembre ma, allo stato attuale, non è affatto scontato che il voto si tenga entro la scadenza fissata. Per rafforzare la capacità di pressione dell’Europa sugli attori, locali e regionali, l’Eliseo ha offerto a Germania e Italia di co-presiedere l’evento. Il timore condiviso a Parigi come a Roma è che, se l’Unione Europea continuerà a trascurare la Libia, altri attori provino ad imporre la propria agenda, basata su criteri tutt’altro che trasparenti. A testimoniare le tensioni in corso, in questi giorni, è stato il duro braccio di ferro tra il Consiglio presidenziale e il governo di Tripoli sulla ministra degli Esteri Najla Al-Mangoush, prima sospesa dalle sue funzioni e sottoposta a divieto di viaggio per “violazioni amministrative” e poi reintegrata dal premier Abdul-Hamid Dbeibah. “Le elezioni sono alle porte – ha osservato il presidente francese Emmanuel Macron – ma le forze che vogliono far deragliare il processo sono in agguato. Bisogna tenere la barra dritta. È in gioco la stabilità del paese”.
Presenti e assenti di peso?
All’incontro partecipano una ventina tra capi di stato regionali e internazionali, tra cui la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Saranno presenti anche Tunisia, Niger e Ciad, i tre paesi confinanti che stanno subendo i maggiori contraccolpi della crisi libica, in termini di instabilità, traffico di armi e mercenari. Mentre l’Algeria, protagonista di una crisi diplomatica con Parigi che allarma il Quai d’Orsay, non ha ancora confermato la sua partecipazione. Ma soprattutto, all’incontro mancheranno i presidenti di Turchia e Russia, i due paesi maggiormente coinvolti nel conflitto: per Mosca andrà il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, mentre Ankara ha dichiarato che non intende partecipare a causa della presenza della Grecia, di Israele e dell’amministrazione greco-cipriota, con cui Ankara è in rotta di collisione per il gasdotto East-Med. “Se questi paesi parteciperanno alla conferenza, non è necessario inviare rappresentanti speciali di Turchia”, ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Un’assenza che pesa, considerato che in Libia sono tuttora presenti diverse migliaia di militari turchi o siriani filo-turchi intervenuti a sostegno del governo di Tripoli quando era sotto assedio, oltre a mercenari russi del gruppo privato Wagner, accorsi in aiuto delle forze della Cirenaica guidate dal generale Khalifa Haftar. Entrambe le milizie straniere non hanno mai smobilitato né si sono ritirate dal paese, come era previsto dopo la firma del cessate-il-fuoco e l’approvazione di una road-map mediata dall’Onu per la fine delle ostilità e il ripristino di istituzioni democratiche.
Un condominio di poteri?
A complicare le cose nell’ultimo miglio verso il voto c’è il complesso equilibrio tra le istituzioni che governano la Libia, e che riflettono interessi e centri di potere distanti. Così ad esempio ieri, nel giorno dell’apertura dei registri per le candidature, il capo dell’Alto Consiglio di Stato libico, Khaled al Mishri, ha invitato la popolazione a boicottare il voto, alla luce della candidatura di “criminali”, come il comandante dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), Khalifa Haftar. A detta di al-Mishri, i leader internazionali sanno che le leggi elettorali presentano delle lacune, ma che si vuole dare ad Haftar “un’altra possibilità attraverso le elezioni, dopo che ha perso la guerra sul campo”. Al contrario, la Camera dei Rappresentanti con sede a Tobruk ha sottolineato la necessità di tenere elezioni secondo i tempi concordati e con una base costituzionale consensuale. Un altro punto controverso riguarda infatti la tempistica delle elezioni. Sebbene la comunità internazionale continui a insistere affinché sia le elezioni parlamentari sia quelle legislative si svolgano il 24 dicembre, la Camera dei rappresentanti ha recentemente approvato una legge che stabilisce che le seconde debbano tenersi 30 giorni dopo le presidenziali. L’Alto Consiglio ha annunciato invece che il ballottaggio delle elezioni presidenziali si terrà 45 giorni dopo il primo turno, quindi a metà febbraio. Oltre a Khalifa Haftar e al presidente della Camera dei rappresentanti Aguila Saleh, anche l’ex ministro degli interni Fathi Bashagha – secondo il quotidiano egiziano Al Ahram – dovrebbe presentare la propria candidatura. Inoltre, fonti vicine al primo ministro Dbeibah hanno riferito della sua intenzione di correre per la presidenza. Se confermata, la decisione avverrebbe in violazione degli accordi che hanno sancito la nascita del governo provvisorio, che prevedevano l’uscita di scena di tutti i ministri una volta convocati i comizi elettorali
A un punto di svolta?
Lungi dal rappresentare solo sé stessi, anche i papabili alla presidenza libica rappresentano – sottolinea the Africa Report – interessi particolari e gruppi di potere distinti. Se Dbaibah e Fathi Bashagha sono ritenuti vicini ai Fratelli musulmani, Aguila Saleh è considerato uno dei principali fautori dell’instabilità in Libia dal 2014, mentre Aref Ali Nayed, ex ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti, sarebbe una ‘pedina’ dei paesi del Golfo. Tra i possibili aspiranti alla presidenza, spicca poi il nome di Saif al Islam Gheddafi. Riapparso dal nulla, dopo essere stato liberato dalle stesse milizie che lo hanno tenuto ostaggio per anni, il figlio minore del dittatore libico rovesciato nel 2011 è ora visto da molti come il candidato meno ‘compromesso’ con i poteri stranieri, le milizie armate e le violenze degli ultimi anni. Ma una sua elezione, seppure costituisca ancora un’ipotesi remota, potrebbe contribuire a far saltare il fragile equilibrio garantito finora da un precario condominio istituzionale. Intanto, la popolazione libica attende di recarsi ai seggi per poter eleggere, direttamente, la futura guida del paese e voltare finalmente pagina da una classe politica personalista e corrotta, incapace non solo di traghettare il paese verso la democrazia, ma anche di gestirne le necessità quotidiane. È in questo scenario che la Conferenza di Parigi dovrà cercare di districarsi, per portare la Libia al voto: le elezioni sono un punto di svolta per una nazione che non conosce un vero ‘governo’ da dieci anni, ma che oggi arriva all’appuntamento più divisa che mai.
Il commento
Di Federica Saini Fasanotti, ISPI Senior Associate Research Fellow
Negli ultimi anni, molti sono stati I consessi internazionali a favore della Libia, prevalentemente organizzati dalla Francia. Va detto tuttavia che essi non hanno sortito molti effetti positivi. Nel luglio 2017 si tenne a Parigi il primo, in cui si decise per un cessate-il-fuoco ed elezioni in primavera. Nonostante i buoni propositi, nulla accadde. La conferenza parigina del maggio 2018 fu seguita in agosto da una spaventosa ribellione delle milizie tripoline e le cose non andarono meglio a Palermo a novembre dove l’unico risultato fu una delicata crisi diplomatica tra Italia e Turchia; ad Abu Dhabi nel febbraio 2019 si firmò per tregue, elezioni e quant’altro, nonostante Haftar avesse già mosso le sue truppe che, infatti, due mesi dopo iniziarono ufficialmente ad assediare Tripoli; a Berlino1 nel 2020 non si arrivò a nulla, se non alle dimissioni dell’inviato speciale Ghassan Salamé, mentre meglio andò Berlino2 lo scorso giugno, con una tregua militare – ma non politica – ancora rispettata. Speriamo che i fatti successivi al prossimo 12 novembre non smentiscano il trend del 2021.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)