Libia: conferenza di Berlino, cosa aspettarsi?
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Focus
Il futuro della Libia passa da Berlino
Matteo Colombo
|
Eugenio Dacrema
17 gennaio 2020

La conferenza di Berlino di domenica 19 gennaio riunisce i rappresentanti dei principali paesi e organizzazioni internazionali coinvolti nella crisi libica. L’incontro punta ad avviare il processo di pace che dovrebbe portare ad una soluzione negoziale del conflitto sotto l’egida delle Nazioni Unite. Alla conferenza di Berlino parteciperanno i rappresentanti di Algeria, Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia, Italia, Regno Unito, Repubblica del Congo, Russia, Stati Uniti e Turchia; così come quelli della Lega Araba, Nazioni Unite, Unione Africana e Unione Europea. Saranno inoltre presenti Fayez Al-Serraj, presidente del consiglio presidenziale e primo ministro del governo di accordo nazionale (GNA) riconosciuto dall’ONU, e Khalifa Haftar, leader dell’esercito nazionale libico (LNA) e uomo forte della camera dei rappresentanti di Tobruk. Cosa aspettarsi? Quali sono gli interessi dei principali attori coinvolti nella crisi libica? La conferenza può aiutare a conciliarli? E quale il ruolo dell’Italia?

 

Berlino: quali obiettivi?

L’obiettivo della conferenza è di riunire gli attori esterni, la cui intromissione nella crisi libica ha provocato un’escalation di violenza, perché cessino il loro supporto militare alle due parti in conflitto e lavorino a una soluzione negoziale.  La conferenza di Berlino ha quindi l’ambizione di spingere gli attori internazionali ad assumere un ruolo diverso, ossia quello dei facilitatori di una soluzione negoziale. Gli stati coinvolti dovrebbero perciò accordarsi per convincere Al-Serraj e Haftar a mantenere l’accordo sul cessate il fuoco. Le negoziazioni puntano inoltre a creare le condizioni per un dialogo complessivo tra i principali attori locali libici sui temi centrali per il paese. Nelle scorse settimane era già stato aperto un tavolo di confronto sulle questioni economiche, ma un successo della conferenza consentirebbe anche di aprire un negoziato sulle questioni di sicurezza e politiche. Tra i temi che dovrebbero essere discussi in queste sedi ci sono il disarmo delle milizie e la distribuzione della rendita dagli idrocarburi. Qualora il cessate il fuoco si consolidasse in una tregua, dopo la conferenza di Berlino l’ONU punterebbe dunque a continuare e rafforzare la fase negoziale a un livello locale.

 

Chi sono i grandi protagonisti della crisi libica?

Nel corso del tempo la crisi libica ha visto il sovrapporsi di interessi e interventi da parte di numerosi attori regionali e internazionali mossi spesso da logiche assai differenti. Da una parte, vi sono i paesi occidentali, protagonisti dell’intervento militare che nel 2011 portò alla fine del regime di Muammar Gheddafi, al potere per oltre quarant’anni. Mentre Stati Uniti e Regno Unito si sono progressivamente disinteressati ai successivi sviluppi politici, Italia e Francia hanno continuato a giocare un ruolo di primo piano, ma contrapposto. L’Italia ha infatti sostenuto l’attività delle Nazioni Unite che nel 2015 ha portato alla formazione del GNA mentre Parigi è apparsa più vicina al parlamento di Tobruk e al suo leader, il generale Haftar. Nel farlo Parigi ha però sempre conservato un certo livello di plausible deniability, ovvero ha cercato di tenere i propri interventi sul campo a sostegno di Haftar sotto copertura, tentando allo stesso tempo di mantenere a livello diplomatico un ruolo super partes.

Più che l’intervento francese, però, a dare a Haftar un notevole vantaggio militare rispetto al governo di Tripoli è stato l’ingente sostegno economico e militare da parte di Emirati Arabi Uniti (EAU) e, in misura minore, Arabia Saudita. Il loro intervento si colloca all’interno di una più ampia competizione per espandere la loro influenza su scala regionale e contrastare i movimenti politici afferenti alla Fratellanza Musulmana e una loro eventuale ascesa al potere. Il successo più lampante di tale intervenzionismo da parte di emiratini e sauditi è stata la deposizione nel 2013 del primo presidente democraticamente eletto in Egitto, Mohamed Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana, a cui è seguito il ritorno al potere del generale Al-Sisi. Il favore accordato ad Haftar è quindi spiegabile con la forte presenza di gruppi politici più o meno legati all’islamismo politico della Fratellanza a sostegno del governo tripolitano. In tale quadro si spiega anche il forte sostegno accordato al generale da parte del presidente egiziano Al-Sisi, il quale, in seguito al colpo di stato del 2013, ha portato avanti una lunga campagna repressiva nei confronti della Fratellanza Musulmana nel suo paese.

 

Russia e Turchia: quale (nuovo) ruolo in Libia? 

A complicare ulteriormente la fitta rete di interessi internazionali coinvolti nella crisi libica – che fino a pochi mesi fa vedeva Italia, Francia, EAU ed Egitto in prima fila nella sua gestione – si sono di recente aggiunti gli interventi di due protagonisti che in precedenza avevano avuto solo un ruolo più defilato nella vicenda libica, ma che negli ultimi mesi hanno rapidamente acquisito un ruolo centrale in tale scacchiere: Turchia e Russia. A gennaio Ankara ha infatti approvato una missione militare a sostegno del governo di Al-Serraj, mandando nel paese alcuni soldati e alcune migliaia di combattenti siriani da essa controllati, mentre la Russia, dopo aver sostenuto Haftar per diversi anni in modo discreto, avrebbe rapidamente incrementato la propria presenza in Libia al fianco del generale inviando anche reparti di mercenari.

Da parte sua Ankara gioca ormai da diversi anni un ruolo speculare a quello saudita ed emiratino all’interno dei nuovi equilibri del Medio Oriente. Il governo di Recep Tayyip Erdogan è infatti assurto, insieme al Qatar, a principale sponsor dei movimenti afferenti all’Islam politico (perlopiù vicino alla Fratellanza Musulmana) nella regione. L’intervento a favore di Al-Serraj è quindi spiegabile, almeno in parte, con la affinità ideologica che lega il governo turco e alcune milizie che lo sostengono. A questa però è necessario aggiungere anche motivazioni più contingenti legate ad altre partite geopolitiche che Ankara sta attualmente giocando in altri quadranti, a cominciare dalla disputa sullo sfruttamento dei giacimenti di gas del Mediterraneo orientale, che la vedono contrapposta ad alcuni paesi europei e della regione. Al centro di tale disputa vi sono i diritti di sfruttamento dei giacimenti al largo di Cipro. In buona parte Ankara li reclama per sé applicando un principio secondo il quale la Turchia avrebbe il diritto di sfruttamento su tutti i giacimenti posti all’interno della sua piattaforma continentale. Tale interpretazione non è però riconosciuta dal diritto internazionale, il quale pone gran parte dei giacimenti nell’area all’interno delle acquee territoriali di Cipro.

C’è poi la questione del gasdotto EastMed, che potrebbe collegare questi giacimenti alla Grecia (e dalla Grecia all’Italia). Per quanto ci siano serie perplessità sulla fattibilità economica e politica del progetto allo stato attuale, la Turchia punterebbe ad impedire la realizzazione di questa infrastruttura per proporre la realizzazione di un gasdotto che colleghi i giacimenti di Cipro al territorio turco e al TANAP, che già porta il gas azero nel nostro paese. Il TANAP potrebbe in futuro trasportare una quantità più alta di gas rispetto agli attuali 16 miliardi di metri cubi di gas all'anno (10 in Europa e 6 in Turchia). Prima di approvare il proprio intervento militare a favore di Al-Serraj, Erdogan ha infatti preteso che il governo di Tripoli sottoscrivesse un accordo per la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive in cui si riconoscono i diritti della Turchia su quella parte di Mediterraneo orientale, secondo il principio legale da essa applicato. In ultima analisi, quindi, la strategia turca di ritagliarsi un ruolo da protagonista nella crisi libica rientra nella logica di acquisire capacità negoziale in uno scenario di grande importanza per alcune potenze europee per poi sfruttarlo al fine di ottenere concessioni su altri fronti, come appunto la partita per le risorse del Mediterraneo orientale.

A introdurre la tattica di ricercare leverage su scenari alternativi è stata proprio la Russia, il cui intervento in Siria nel 2015 aveva anche lo scopo di ritagliarsi uno spazio in una crisi sensibile per gli interessi europei (soprattutto in termini di ondate migratorie) da poter poi spendere su altre questioni, come le sanzioni e, in generale, la crisi ucraina. L’intervento russo nel conflitto libico segue una logica simile, soprattutto tenendo conto che la Libia ha un peso relativo assai più consistente per gli interessi europei di quanto non ne abbia la Siria. A questa logica è però necessario aggiungere anche la generale strategia perseguita dalla Russia nell’intero Medio Oriente. Ovvero una strategia che si potrebbe definire del “esserci per esserci”, mirata primariamente a garantire alla Russia un posto da protagonista in tutte le principali crisi regionali, a prescindere che coinvolgano interessi concreti per l’economia, assai modesta, della Russia.

Seguendo tali logiche Turchia e Russia si sono rapidamente ritagliate ruoli di primo piano nella crisi libica, anche sfruttando la possibilità che hanno di fare un uso assai disinvolto delle proprie risorse militari rispetto ai paesi europee. A prima vista hanno riprodotto uno schema di interazione che ha funzionato molto bene negli ultimi tre anni all’interno della crisi siriana, dove il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo turco hanno usato il loro controllo pressoché totale sulle parti coinvolte sul campo (Putin sul regime di Assad e Erdogan sull’opposizione armata) per modellare e concordare tutti i principali passi dell’evoluzione del conflitto. Il raffronto col caso siriano non deve però essere sovrastimato. Mentre, da una parte, è vero che Erdogan rappresenta per Al-Serraj l’unica fonte significativa di sostegno militare, dall’altra il sostegno di Putin, al contrario di quanto accade in Siria con Assad, non è così determinante per Haftar, che può contare sul sostegno massiccio da parte di egiziani ed emiratini.

Proprio questa relativa indipendenza di Haftar dal controllo di Putin è da considerarsi il fattore principale del parziale fallimento del vertice di Mosca del 13 gennaio che avrebbe dovuto portare alla firma di un accordo di cessate-il-fuoco tra il generale e Al-Serraj, sotto gli auspici dell’intesa stretta pochi giorni prima proprio da Putin ed Erdogan.

 

Quale ruolo per l’Italia?

L’Italia ha deciso di ritagliarsi un ruolo di supporto alla mediazione tra i due contendenti. In particolare, il nostro paese sostiene il dialogo di Berlino per arrivare a una soluzione diplomatica della crisi. L’obiettivo più urgente per Roma, che è stata tra i principali sostenitori di Fayez Al-Serraj, è di impedire che le forze del generale Haftar entrino nella zona urbana di Tripoli. Tale scenario avrebbe conseguenze disastrose per più di un milione di libici che vivono nella capitale, che dovrebbero cercare di sopravvivere in un contesto di combattimenti strada per strada. Inoltre, un conflitto prolungato avrebbe come conseguenza l’impossibilità per le principali istituzioni del paese di operare in mancanza delle condizioni minime di sicurezza, provocando la paralisi politica e finanziaria del paese. Inoltre, un drammatico incremento della violenza porterebbe ad un completo blocco dell’estrazione di risorse energetiche. Tale interruzione avrebbe come conseguenza un drastico calo dei proventi della rendita da idrocarburi, che rappresentava nel 2018 circa il 90% delle entrate statali. In questo scenario sarebbe molto difficile per lo stato pagare gli stipendi dei lavoratori pubblici. Infine, tale blocco della produzione avrebbe gravi contraccolpi per ENI, la principale compagnia energetica internazionale presente nel paese.

L’Italia sta valutando diverse opzioni per trasformare il cessate il fuoco in un inizio di negoziato per il futuro della Libia. Prima di tutto, Roma è impegnata in un’ampia azione diplomatica per coinvolgere i paesi dell’area e i più importanti stati europei nella risoluzione della crisi. Tale iniziativa dovrebbe inserire il negoziato sulla questione libica in un’ottica più ampia di condivisione degli interessi nel Mediterraneo orientale, anche a livello energetico. Una discussione del genere, che allarghi il focus della negoziazione a tutti i principali nodi contesi della regione, potrebbe coinvolgere tutti i paesi attualmente coinvolti nella crisi libica, come Egitto, Turchia e Francia. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha parlato inoltre della possibilità di incrementare l’attuale presenza militare italiana, che già conta circa 500 uomini a difesa dell’ospedale militare di Misurata. Tra le misure che il governo è pronto a prendere a sostegno della negoziazione in Libia ci sono anche la partecipazione italiana ad una missione navale per implementare l’embargo di armi nel paese. L’ipotesi più complessa è invece di organizzare con altri paesi una missione di interposizione sotto forma di mandato ONU o di iniziativa europea per preservare la tregua e facilitare il negoziato. Quest’ultime due ipotesi sono le più complesse da realizzare, comportando entrambe la necessità di formare un ampio consenso diplomatico e politico che appare oggi difficile.

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AUTORI

Matteo Colombo
ISPI Associate Research Fellow
Eugenio Dacrema
ISPI Associate Research Fellow

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