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Focus

Libia: la posta in gioco al vertice di Palermo

12 novembre 2018

Si è aperta ieri a Palermo la Conferenza per la Libia organizzata dal governo italiano in collaborazione con la Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL). Obiettivo del vertice (12-13 novembre), che rappresenta finora una delle più importanti iniziative di politica estera del governo Conte, è quello di riunire attorno a un tavolo i principali esponenti del panorama politico-militare libico, insieme ai rappresentanti delle Nazioni Unite e delle potenze straniere coinvolte nel Paese nordafricano. I partecipanti saranno chiamati a definire insieme i prossimi passi di una roadmap che possa spianare la strada a una risoluzione negoziata e condivisa della crisi libica. Chi parteciperà al summit? Con quali obiettivi? Qual è oggi la situazione sul terreno e cosa è stato fatto sinora per affrontare la crisi del Paese? Quale ruolo per l’Italia?

Perché questo vertice e con chi?

L’idea di una conferenza internazionale sulla Libia organizzata dall’italia è nata  in occasione della visita del premier Giuseppe Conte a Washington lo scorso luglio e, nell’immediato, ha trovato l’appoggio del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, favorevole a un rinnovato impegno del nostro Paese nel teatro di crisi del paese nordafricano. Al summit di Palermo, cominciato la sera del 12 novembre nella suggestiva sede di Villa Igiea e proseguito nella mattinata di martedì 13 novembre, partecipano alcuni dei i leader libici più influenti: tra questi il presidente del Governo di Accordo Nazionale (GNA) riconosciuto dall’ONU Fayez al-Serraj, il presidente del Parlamento di Tobruk Aguila Saleh Issa, il presidente dell’Alto consiglio di Stato libico Khaled al-Mishri.

Nelle ore precedenti all’avvio della conferenza non era stata invece confermata la presenza di Khalifa Haftar, che però è arrivato a Palermo nella serata del 12 novembre: dopo aver incontrato il premier Conte in un colloquio bilaterale, il generale ha avuto un colloquio informale con il presidente del GNA Fayez al-Serraj, ma ha poi abbandonato il summit. La partecipazione del potente generale appoggiato da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia e Russia che controlla la Cirenaica e l’Esercito nazionale libico è particolarmente rilevante. Il leader militare rappresenta infatti il principale competitor del GNA di Tripoli e una possibile soluzione della crisi libica deve ormai necessariamente passare anche da un suo coinvolgimento nella roadmap per la stabilizzazione del Paese, oltre a quello delle potenti milizie armate che dalla caduta di Gheddafi nel 2011 controllano ampie fette del territorio libico. Alla conferenza di Palermo non partecipano neanche il Presidente Francese Emmanuel Macron - che a sua volta aveva organizzato un vertice sulla Libia a Parigi lo scorso maggio - e la Cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha ritirato la sua adesione all’ultimo momento. I due Paesi sono però rappresentati rispettivamente dal Ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian e dal sottosegretario tedesco agli Esteri Niels Annen. A confermare l’appoggio dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite all’iniziativa italiana ci sono invece l’Alto rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini, il Presidente del Consiglio UE Donald Tusk e l’inviato speciale dell’ONU per la Libia Ghassan Salamé, con il quale il premier Conte ha avuto un colloquio bilaterale. Solo pochi giorni fa Salamé ha presentato al Consiglio di Sicurezza ONU le sue proposte per una nuova roadmap per la risoluzione della crisi libica; proposte che saranno oggetto di discussione proprio in questi giorni a Palermo.

Oltre alle delegazioni di FMI, Banca Mondiale e Lega Araba, sono coinvolti anche i principali attori regionali, con le delegazioni di Marocco, Qatar e la partecipazione del vicepresidente turco Fuat Oktay, che però ha abbandonato la conferenza vedendo la Turchia esclusa dal vertice informale tra Haftar e al-Serraj. Al summit di Palermo hanno partecipato anche il Presidente tunisino Beji Caid Essebsi, del premier algerino Ahmed Ouyahia e del Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Infine, Stati Uniti e Russia: entrambi i Paesi, decisi a difendere i propri interessi in Libia, hanno dichiarato in più occasioni il proprio sostegno allo sforzo del governo italiano, anche se la loro partecipazione fisica al vertice di Palermo non è stata garantita al livello delle rispettive presidenze. Né Donald Trump né Vladimir Putin, che si sono incontrati brevemente a Parigi l'11 novembre per le celebrazioni del centesimo anniversario della fine della Prima guerra mondiale, hanno aggiunto la “tappa” palermitana alla loro visita europea: da parte russa è stat assicurata la presenza del premier Dmitry Medvedev e del viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov, mentre gli Stati Uniti sono rappresentati dal consigliere speciale del Dipartimento di Stato per il Medio Oriente David Satterfield, in sostituzione della partecipazione precedentemente annunciata del Segretario di Stato Mike Pompeo.

 

Gestione della crisi libica: a che punto siamo

Negli ultimi mesi del 2017 l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salamé ha cercato di riportare l’azione delle Nazioni Unite al centro dello scenario politico libico nel tentativo di rilanciare il processo di transizione democratica, così come era stato inizialmente progettato nel “Libyan Political Agreement” firmato a Skhirat, in Marocco, nel dicembre 2015. Il piano d’azione di Salamé era basato su tre punti:

  1. Rivedere il Libyan Political Agreement con particolare riferimento al controllo dell’esercito da parte dell’autorità civile;
  2. Organizzare una conferenza nazionale che fosse inclusiva delle forze politiche, etniche e locali che sono rimaste escluse sinora;
  3.  Preparare le elezioni generali del 2018.

Tuttavia i vincoli da superare si sono dimostrati molteplici e difficili e il processo si è arenato. Il primo vincolo riguarda la smobilitazione delle milizie. Il processo politico non può vivere nella finzione che il coinvolgimento delle forze politiche libiche sia sufficiente alla stabilizzazione del Paese. Il secondo vincolo è relativo alla figura del generale Haftar e alla sua reale intenzione di una piena adesione al processo democratico, considerato che ha alternato dichiarazioni distensive ad azioni di disturbo. Un terzo vincolo riguarda invece la questione economica: la Libia è un Paese che basa le proprie entrate economiche in via quasi esclusiva sulla produzione e vendita degli idrocarburi. Per continuare a finanziarsi e avere la speranza di avviare una fase di ricostruzione economica, ma anche istituzionale, ha necessità di tenere in funzione i propri impianti estrattivi e le infrastrutture energetiche. La rendita petrolifera potrebbe avere una funzione calmierante e stabilizzante anche all’interno del Paese se questa fosse redistribuita adeguatamente limitando malversazioni e corruzione.

Più in generale, l’obiettivo di Salamé era quello di mobilitare nuovamente gli attori politici attorno all’obiettivo di nuove elezioni attraverso un processo inclusivo. Tuttavia, questa iniziativa si è tradotta in un nulla di fatto – a fine marzo 2018 il processo si poteva considerare fallito – e l’impasse non è stato superato. Il Paese resta in balìa di gruppi di miliziani coalizzati precariamente attorno ad alcune alleanze e leadership, in particolare quelle di Khalifa Haftar e quelle del GNA.

A oggi, la comunità internazionale resta piuttosto divisa, incapace di esercitare una pressione risolutiva sulle parti in causa, essendo del resto essa stessa corresponsabile delle divisioni interne nella misura in cui continua ad alimentare le velleità egemoniche delle varie fazioni. Indicativa dello scarso livello di coordinamento tra attori internazionali è stata la Conferenza di Parigi dello scorso maggio, in cui non solo Italia, Stati Uniti e Gran Bretagna non sono stati coinvolti, ma anche a livello libico non vi è stata un’adeguata rappresentanza degli attori interni. Mentre il presidente francese Macron ha insistito sul rispetto della scadenza elettorale del 10 dicembre da lui voluta e fissata durante la conferenza di Parigi e riaffermata anche di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre, Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia sono apparsi decisamente contrari. Già a settembre, le stesse Nazioni Unite hanno cominciato a pensare a un possibile “Piano B” per cercare di ridare credibilità all’azione diplomatica di Salamé, che al contempo è stato affiancato a un vice statunitense, l’ambasciatrice Stephanie Williams. Le linee guida di questa nuova roadmap sono state parzialmente rivelate pochi giorni fa dallo stesso Salamé e saranno oggetto di ulteriori chiarimenti proprio a Palermo (si veda sotto).

 

La situazione sul terreno

La situazione in Libia è oggi caratterizzata da una cristallizzazione delle posizioni militari tenute dai vari contendenti, in particolare dalle forze di Khalifa Haftar, leader militare in Cirenaica, e da quelle coalizzate attorno al GNA, che risiede a Tripoli sotto la guida di Fayez al-Sarraj.

Negli scorsi mesi Tripoli è stata teatro di nuove violenze tra i diversi gruppi armati che si contendono il controllo del paese. Il casus belli è stato l’attacco sferrato dalla Settima brigata di Tarhuna, un raggruppamento di milizie che già in passato aveva provato a prendere la capitale, contro milizie rivali, fedeli al GNA di Fayez al-Sarraj. Gli scontri hanno registrato innumerevoli vittime e si sono arrestati solo il 4 settembre dopo la tregua ottenuta dall'ONU. Tregua che è stata però in seguito violata con il lancio di alcuni razzi sull’aeroporto di Tripoli. Queste violenze sembrano testimoniare come la situazione di ingovernabilità derivante dalla mancata ricostituzione del monopolio dell’uso della forza sia difficile da modificare nel breve periodo.

Nonostante la presenza del Governo di Accordo Nazionale nella capitale da più di due anni, le istituzioni statali restano deboli e confinate ad una piccola porzione del territorio libico. Le appartenenze sub-nazionali, che impediscono la ricostruzione di una legittimità e di un senso di identità estesi su tutto il territorio nazionale, continuano infatti a dominare il quadro politico interno. L’instabilità è ormai cronica e alimentata, oltre che dalla identità multipla (regionalismi, localismi, tribalismi), anche da altri fattori come la progressiva polarizzazione politica seguita al fallimento delle Primavere arabe (islamisti vs militari/nazionalisti), e il  ruolo disgregante degli attori internazionali, che hanno cercato di favorire gruppi particolari per aumentare la propria influenza sul Paese.

La Libia continua a essere una frastagliata composizione di decine di milizie, alleate principalmente ma non esclusivamente, in un paio di coalizioni: la prima attorno al Governo di unità nazionale; la seconda attorno al generale Haftar e al parlamento che risiede a Tobruk. La situazione sul terreno è ulteriormente complicata dal fatto che, più che ricevere ed eseguire ordini da parte delle rispettive autorità, spesso sono proprio le milizie stesse a imporre condizioni ai propri “vertici” politici attraverso un sistema di controllo territoriale paragonabile a quello delle organizzazioni mafiose. Infatti, esse esercitano un’influenza su diverse istituzioni e controllano snodi importanti, arrivando anche a depredare l’economia statale e quella locale, o compiendo estorsioni e frodi per finanziarsi.

Verso un nuovo piano ONU?

Nonostante le innumerevoli difficoltà di mettere attorno a un tavolo i numerosi attori locali e internazionali coinvolti nella crisi libica e la persistente instabilità del quadro politico e securitario del Paese, solo pochi giorni fa è stata rilanciato in sede ONU il processo negoziale promosso dall’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salamé. L’idea portata avanti da Salamé sarebbe quella di spostare le elezioni parlamentari e presidenziali inizialmente previste il 10 dicembre alla primavera dell’anno prossimo. L’obiettivo di questo rinvio è quello di consentire l’adeguata preparazione del processo elettorale, sinora resa impossibile non solo dalla ripresa delle violenze e dalla frammentazione del panorama politico libico, ma anche - a detta dello stesso Salamé - dalla strenua opposizione di entrambi i parlamenti libici (quello di Tripoli e quello di Tobruk).  Per questi ultimi, secondo Salamé, le “elezioni rappresentano una minaccia alla quale bisogna resistere ad ogni costo”, mentre per i cittadini libici (l’80% secondo lo stesso Salamé) potrebbero essere un mezzo “per liberarsi da autorità inefficienti e sempre più illegittime”. A patto, naturalmente, che lo stesso processo elettorale sia definito chiaramente nei suoi obiettivi e nelle tappe intermedie da percorrere; sforzo necessario che nel lancio della data del 10 dicembre sembrava essere stato sottovalutato, tanto che questa è risultata sempre meno realistica con l’avvicinarsi della scadenza elettorale. Questo il messaggio di Ghassan Salamé al Consiglio di Sicurezza ONU la scorsa settimana, in quella che è stata la prima richiesta ufficiale di rinvio delle elezioni di alcuni mesi. Secondo l’inviato speciale, è necessario che le elezioni siano precedute da una riunione, nelle prime settimane del 2019, del Congresso Nazionale, un esercizio di nation-building che riunisce le istanze delle comunità locali e della società civile libica, e che ha già dato luogo a 77 incontri preparatori nella primavera del 2018. Il Congresso dovrebbe infatti fungere da piattaforma per dare voce ai libici nel portare avanti il processo politico e per consentire a questi ultimi di interagire con le istituzioni del Libyan Political Agreement.

Pur non soffermandosi sui dettagli - che potrebbero però emergere proprio dalla conferenza di Palermo - Salamé ha anche sottolineato che l’azione ONU in Libia dovrà essere rilanciata seguendo tre direttrici: politica, economica e sicurezza. Sul piano economico, l’inviato speciale ha posto l’accento sull’importanza e sul successo delle riforme economiche che sono state adottate a settembre per migliorare le condizioni di vita della popolazione libica, facendo fronte alla crisi di liquidità del paese e all’innalzamento dei prezzi di diversi beni di consumo, ma anche per sottrarre terreno alle milizie che prosperavano nell’economia sommersa. In prospettiva ci sarebbe anche l’ipotesi di riunificazione delle istituzioni finanziarie a cominciare dalla Banca centrale. Infine - rivolgendosi in particolare alla comunità internazionale e agli Stati coinvolti nella conferenza di Palermo - l’inviato ONU ha richiamato l’attenzione sulla necessità di dare un sostegno tangibile a un processo di disarmo e reintegrazione delle milizie armate e alla creazione di un esercito nazionale libico professionalizzato e unitario. Tema che però potrebbe essere al centro di un incontro ad hoc, da tenere successivamente alla conferenza di Palermo.

Quale ruolo per l’Italia?

Per l’Italia, la Libia rappresenta una priorità di politica estera: la sua instabilità ha infatti ricadute importanti per il nostro Paese, in particolare per quanto concerne i flussi migratori e gli approvvigionamenti energetici. Per questo motivo, lo sforzo del governo italiano nel farsi promotore di un’iniziativa inclusiva sulla Libia, pensata con l’obiettivo di coinvolgere tutti gli attori che (come specificato sin dall’inizio dal premier Conte) “a qualunque titolo possono dare un contributo” alla soluzione della crisi, deve essere considerato come un impegno coerente alle esigenze del nostro interesse nazionale. La conferenza di Palermo risponde alla necessità di ritagliare all’Italia un ruolo da protagonista, e non da comprimaria, nella stabilizzazione di un teatro di conflitto che ormai da troppi anni infuria a pochi chilometri dalle nostre coste con incalcolabili costi umani e materiali, in un Paese in cui per di più i nostri interessi economici e politici sono strategici e non immuni dalla competizione con quelli dei numerosi attori stranieri coinvolti a diverso titolo nello scenario libico.

In questo contesto, il tentativo italiano - perseguito almeno sin dallo scorso luglio con l’incontro tra Conte e Trump - di riportare gli Stati Uniti dentro la gestione politica della crisi libica era tutt’altro che immotivato. Washington dispone infatti più di altri del leverage necessario per mediare tra gli interessi, spesso divergenti, degli attori internazionali coinvolti nella crisi libica (quelli europei, ma anche la Russia), così come di un’influenza significativa su molti degli attori regionali che hanno agito da battitori liberi fomentando il caos libico. Naturalmente, però, anche l’Italia deve oggi fare i conti con la riluttanza dell’amministrazione Trump a impegnarsi in nuovi teatri di crisi internazionali, riluttanza che nel caso della Libia aveva in realtà caratterizzato anche l’atteggiamento dell’amministrazione Obama. Non a caso, questi aveva infatti voluto limitare l’impegno USA nel teatro libico a un “leading from behind”. Malgrado il sostegno espresso da Trump all’iniziativa italiana, il fatto che né lui né il Segretario di Stato Mike Pompeo siano oggi a Palermo e abbiano invece scelto di delegare il consigliere speciale del Dipartimento di Stato per il Medio Oriente David Satterfield, mette oggi l’Italia nella condizione di dover procedere nel proprio impegno diplomatico a prescindere dalla reale volontà USA di impegnarsi nella soluzione della crisi libica.

Seppure l’esposizione diplomatica dell’Italia in questi mesi rispetto al sostegno convinto di Washington ai propri sforzi faccia sì che la “defezione” dei più alti vertici USA da Palermo metta il nostro Paese in una condizione di possibile imbarazzo, è importante sottolineare che in realtà la situazione venutasi a creare non è del tutto priva di opportunità per l’Italia. Il governo italiano potrebbe ora infatti trasformare la volontà espressa in più occasioni di promuovere un’iniziativa il più possibile inclusiva in un rilancio risoluto della missione delle Nazioni Unite in Libia e in un impegno multilaterale e congiunto tra comunità internazionale e attori locali. Andrebbe così oltre le iniziative “bilaterali”, spesso frettolose, promosse in questi anni da singoli Paesi a scapito di soluzioni realistiche e veramente condivise che possano preparare il terreno a una stabilizzazione a lungo termine della Libia.

Indubbiamente, la prima tappa di questo impegno - nel solco delle raccomandazioni già avanzate in queste settimane in sede ONU da Ghassan Salamé - potrebbe essere la definizione, proprio a partire dalla conferenza di Palermo, di un percorso di avvicinamento chiaro e condiviso alle elezioni libiche che con ogni probabilità saranno rimandate alla prossima primavera. Se dalla Conferenza di Palermo emergesse dunque una chiara definizione delle tappe necessarie all’avvio in Libia di un processo elettorale partecipato e percepito come legittimo da tutti gli attori in gioco, l’Italia potrà dire di aver ottenuto un risultato di notevole importanza.

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