Il governo libico di unità del premier Dbeibah ottiene la fiducia e riaccende le speranze per una stabilizzazione del paese ma le sfide che dovrà affrontare, da qui al voto di dicembre, sono numerose.
Arriva da Sirte, lungo la linea del fronte che divide Tripolitania e Cirenaica e le rispettive sfere d’influenza turca e russa, il via libera al governo di unità nazionale che dovrà traghettare la Libia alle prossime elezioni. Con 121 voti favorevoli e qualche astenuto, la Camera dei rappresentanti di Tobruk, riunitasi per la prima volta nella città costiera, ha approvato la squadra di governo proposta dal premier Abdul Hamid Dbeibah. Il nuovo esecutivo, che comprende 27 ministri, 6 sottosegretari di stato e 2 vice-primi ministri, e un numero di donne pari al 30% del totale, inclusi per la prima volta nella storia del paese i ministeri della Giustizia e degli Affari Esteri, giurerà a Benghazi il prossimo 15 marzo. In vista dell’insediamento, i due esecutivi finora presenti nel paese, quello tripolino del premier Fayez al-Serraj e quello di Abdallah al-Thinni, si sono detti pronti al passaggio di poteri a Dbeibah. Al premier, che si è impegnato a non ricandidarsi alle elezioni di dicembre, sono giunti gli auguri di numerose cancellerie internazionali, dei paesi arabi e della missione Onu in Libia Unsmil: "La Libia ha ora una reale opportunità per andare avanti verso l'unità, la stabilità, la prosperità, la riconciliazione e per ripristinare completamente la sua sovranità” scrive. Che sia davvero la volta buona?
Vera svolta?
Il nuovo primo ministro ad interim è Abdelhamid Dbeibah, uomo d'affari di 61 anni di Misurata. Ha accolto il voto di fiducia del parlamento, riunito a Sirte, dicendo che “è giunto il momento per la Libia di voltare pagina su guerre e divisioni e operare per la riconciliazione e la costruzione. È tempo di risolvere le divergenze in parlamento e non sul campo di battaglia”. Durante un’interrogazione parlamentare, precedente al voto, Dbeibah ha affermato di essere stato “vittima di una campagna diffamatoria” sui social media. Il riferimento è alle accuse contenute in un’inchiesta dell’Onu, secondo cui il premier incaricato avrebbe corrotto alcuni esponenti del forum politico di dialogo libico di 75 membri, selezionato dalla missione delle Nazioni Unite, per ottenere i voti necessari ad eleggerlo. Riunitosi il mese scorso a Ginevra il Forum aveva eletto Mohamed Ahmed al-Manfi e Abdul Hamid Dbeibah alla guida, rispettivamente, del Consiglio Presidenziale e del nuovo esecutivo di unità nazionale, le due istituzioni che avranno il compito di condurre il paese verso le elezioni. Il rapporto conclusivo sull’indagine sarà pubblicato solo dopo l’insediamento del nuovo governo ma già pesa come una spada di Damocle sulla credibilità del nuovo esecutivo. Dbeibah ha ammesso che le dimensioni del suo governo sono frutto del tentativo di garantire ampia rappresentanza geografica, riconoscendo di non aver mai incontrato molti dei ministri che ha nominato. In teoria il nuovo governo ad interim rimarrà in carica solo fino al 24 dicembre, data fissata per le elezioni presidenziali e legislative nazionali. Molti sono scettici e alcuni prevedono che il presidente dell'attuale parlamento, Aguila Saleh, uscito sconfitto nella votazione del Forum di dialogo libico, possa tentare di intralciarne il cammino.
Una ‘pugnalata alle spalle’?
A complicare ulteriormente lo scenario libico, come ormai noto, è la presenza sul terreno di attori non libici, milizie tribali e gruppi armati stranieri. Per questi ultimi, in particolare, l’ultimatum per un ritiro – previsto il 23 gennaio nel quadro di accordi tra le due controparti libiche – è di fatto passato inosservato. E questo evidenzia la discrasia tra i discorsi politici di questi giorni e la situazione sul campo, dove militari turchi, inviati da Ankara nel gennaio 2020 a sostegno del governo assediato di Fayez al Serraj, oggi controllano la base aerea di al-Watiya, quella navale di Misurata e che lo scorso agosto hanno firmato con Libia e Qatar un Protocollo Trilaterale per la creazione di un centro di addestramento militare. Dall’altra parte della linea del fronte, i circa 2000 mercenari russi della compagnia Wagner inviati in Libia per sostenere il generale Khalifa Haftar, restano trincerati intorno a Sirte continuando ad operare nella Libia orientale e meridionale, sostenuti da aerei da combattimento inviati da Mosca. È qui che – come riportato a gennaio da CNN – le milizie del generale e della Wagner hanno eretto una trincea lunga oltre 70 chilometri. Un muro nel deserto che non lascia ben sperare sulle intenzioni degli attori esterni coinvolti, a smobilitare e ritirarsi dal paese. “I mercenari sono una pugnalata alle spalle del nostro paese e devono andarsene. La nostra sovranità è violata dalla loro presenza” ha detto Dbeibah al parlamento riunito a Sirte, annunciando la volontà di contattare i paesi da cui le forze armate provengono, per chiederne il ritiro. Secondo le Nazioni Unite, a dicembre 2020 erano circa 20mila le unità di mercenari e combattenti stranieri presenti sul territorio libico.
Investimento a lungo termine?
Se il voto a favore del governo ad interim – il primo esecutivo unitario negli ultimi sette anni – è un passo avanti importante per il futuro di una Libia unita, il rischio è che senza il sostegno dei principali attori stranieri coinvolti sul terreno, nessun processo politico potrà riuscire a riportare la stabilità. “Ci sono potenze straniere, tra cui Russia, Turchia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, che stazionano le loro forze in Libia da anni – osserva Anas El Gomati del Sadeq Institute – e difficilmente saranno disposti a rinunciare a un investimento ‘a lungo termine’ come quello fatto finora, senza avere garanzie reali che i loro obiettivi geostrategici siano stati raggiunti”. Alle sfide sul terreno, il governo ad interim deve aggiungere quelle, tutt’altro che semplici, sul piano legislativo. Tra le prime all’orizzonte la modifica della Carta costituzionale, per ridurre da nove a tre i componenti del Consiglio presidenziale e l’approvazione di nuove norme sulla legge elettorale. Il tutto in un paese in cui ci sono circa 300mila sfollati interni e un milione di persone (su circa 6,7 milioni) ha bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere. Dal cessate il fuoco mediato dall'Onu nell'agosto scorso le armi tacciono, e se la situazione continua ad essere estremamente precaria, sono pur sempre barlumi di speranza, dopo anni di guerra e delusioni. Da lunedì la Libia potrà dirsi finalmente unita sotto un unico governo. Almeno sulla carta.
Il Commento
Di Federica Saini Fasanotti, ISPI Senior Associate Research Fellow e Brookings Institution
Gli ultimi sviluppi politici in Libia possono essere letti, senza ombra di dubbio, in maniera positiva. Tuttavia alcuni dubbi permangono. Ciò che preoccupa maggiormente è la presenza sempre più radicata sul suolo libico di attori internazionali come Russia e Turchia, prevalentemente attraverso truppe mercenarie che non accennano ad abbandonare il paese, nonostante i proclami della classe politica libica. Al momento sembra, infatti, mancare una chiara e univoca volontà in questo senso. È evidente però che la dimensione politica si stia evolvendo separatamente da quella militare, e questa discrasia non è destinata a risolversi in breve tempo, gettando un’ombra sinistra sul processo di pace.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)