I recenti sviluppi della crisi libica sembrano implicare un ulteriore escalation di violenze in Libia, mentre l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, tenta faticosamente di avviare un dialogo tra le varie fazioni in gioco. Il paese è ora governato da due autorità, l’una a Tobruk, l’altra a Tripoli, che in realtà non hanno vero controllo sul paese. Milizie si fronteggiano sia in Tripolitania, a Kikla e vicino al confine tunisino, sia in Cirenaica attorno a Bengasi, mentre forze radicali islamiche di varia matrice e ispirazione sono in possesso di diverse aree del paese, prima fra tutte la città di Derna, dove miliziani jihadisti hanno stabilito una sorta di città-califfato su ispirazione dello Stato Islamico. La comunità internazionale rimane sostanzialmente divisa tra le tentazioni di un intervento militare guidato dall’Egitto di Al Sisi, sempre più coinvolto in Libia, e un reale e molto più faticoso tentativo di accordo politico derivante da una mediazione tra le parti.
Leon è alle prese in questi giorni con il tentativo disperato di mettere attorno a un tavolo i due Parlamenti ma anche tribù, milizie e partiti politici che rappresentano una parte decisiva del potere in Libia, un’area che sia i Parlamenti che i due Governi rappresentano con difficoltà. Nelle ultime giornate, per quanto possibile, la situazione sembra essersi ulteriormente deteriorata con il tentativo delle forze di Misurata/Tripoli di prendere uno dei maggiori hub petroliferi del paese. Le due principali fazioni e i rispettivi alleati, spesso descritti troppo semplicisticamente come islamisti e anti-islamisti, non sembrano essere pronti a una vera mediazione, non riconoscendosi reciprocamente come attori legittimi della nuova Libia. Una nuova guerra civile sembra aprire le porte a una nuova e ancor più intensa campagna di violenza rispetto al triste passato recente del paese.
È una Libia a pezzi il pronostico più facile sul paese nel 2015. Una Libia nella quale nessuna delle fazioni, supportata dai corrispettivi alleati internazionali, intenti a continuare a condurre nel paese una battaglia che costituisce solo una parte di una più ampia guerra regionale, sembra poter entrare in controllo del paese in breve tempo. Ed è da questo contesto che i motivi di pessimismo non sembrano mancare: l’Egitto di Al Sisi, con il supporto costante di Arabia Saudita ed Emirati, sembra stringere le proprie maglie sulla Libia incoraggiando in nome della lotta al terrorismo, il generale Haftar e il governo di Tobruk; sulla sponda opposta Turchia e un sempre ambiguo Qatar, nonostante i recenti passi di riconciliazione tra monarchie del Golfo, continuano a supportare le forze di Misurata. Dietro a ciò si nasconde anche la lotta pro e contro la Fratellanza musulmana e, mai ultimi, i desideri di avere un'influenza sulle ricche risorse energetiche del paese.
Al di là di altre decine di chiavi di lettura, lo scenario internazionale avrà una influenza decisiva nei prossimi mesi. Fu così nel 2011, con un intervento internazionale che ebbe un ruolo fondamentale nella caduta del regime, ed è stato così nei mesi successivi quando la comunità internazionale non ha mostrato interesse nello sponsorizzare un processo di riconciliazione guidato che probabilmente avrebbe mantenuto la transizione libica in ambiti ben diversi.
In sostanza non si può chiedere ai libici sforzi unitari mentre si offrono loro diverse scappatoie a una vera via del dialogo. E neppure ci si si può trincerare dietro a un supporto a parole dell’inviato Onu, senza contribuire a elaborare una vera strategia. Questo in realtà è il modo più facile per avere un prossimo capro espiatorio a giustificazione del fallimento di mediazione. L’Occidente nel suo complesso appare troppo titubante tra un pieno appoggio al tentativo di Leon e la scorciatoia della “pax egiziana”. Bisognerebbe essere chiari per una volta: i fondamentalismi islamici proliferano nel vuoto di potere e nel fallimento degli stati, se si vuole realmente arginarli in maniera duratura bisogna aiutare a ricostruire gli stati. Se invece si vuole agitare lo spauracchio dei terroristi per altri interessi siamo sulla buona strada.