- A giugno, l’inflazione in Eurozona ha fatto segnare l’8,6% su base annua. È un ennesimo record da quando esiste l’Unione economia monetaria, che infrange quello di maggio (+8,1%). E che eguaglia i livelli di inflazione americani di maggio, a loro volta mai così alti da 40 anni.
- È per questo che le Banche centrali delle due grandi aree valutarie, la Federal Reserve e la Banca centrale europea (BCE), sono più che mai attive. La Fed ha già cominciato da mesi a stringere i cordoni, mentre le maglie della BCE dovrebbero cominciare a farsi più strette tra due settimane, il 21 luglio.
- Dietro a tassi di inflazione così simili, si nascondono cause che solo in parte sono sovrapposte. L’inflazione europea sembra infatti essere ancora molto più “importata” rispetto a quella americana, che sembra essere molto più “diffusa” e, forse, più duratura.
- Nel frattempo, le economie di entrambe le sponde dell’Atlantico stanno frenando bruscamente. Ci avviciniamo davvero a quel periodo di stagflazione che paventavamo su queste pagine solo lo scorso marzo?
A giugno, l’inflazione in Eurozona ha fatto segnare l’8,6% su base annua. È un ennesimo record da quando esiste l’Unione economia monetaria, che infrange quello di maggio (+8,1%). E che eguaglia i livelli di inflazione americani di maggio, a loro volta a +8,6%, e a mai così alti da 40 anni.
Tuttavia a spiegare tassi d’inflazione così simili sulle due sponde dell’Atlantico sono componenti anche nettamente diverse. Al primo posto per entrambe le zone valutarie c’è ovviamente la componente energia, che a maggio faceva segnare un +39% in Eurozona e un +34% negli USA (sempre su base annua). Ma negli USA l’inflazione di gran parte delle componenti meno volatili tende a essere più alta rispetto a quella fatta segnare in Eurozona, e anche di molto.
È sufficiente confrontare l’inflazione sui beni industriali (+4,2% in zona euro, +11,4% in USA), quella sui servizi (+3,5% vs +5,7%) e quella sui capi d’abbigliamento (+1,7% vs +5,0%) per notare differenze significative.
Cosa significa? È un indizio che negli USA l’inflazione sembra stare diventando sempre più radicata nelle aspettative di imprese e consumatori, e che non si tratti di un fenomeno tanto passeggero come sarebbe stato possibile pensare a inizio anno. Ciò non significa che lo stesso non stia accadendo in Europa. Ma, se lo sta facendo, siamo ancora nelle fasi iniziali del ciclo di “radicamento”.
Per catturare in maniera sintetica la differenza tra le due inflazioni, quella europea e quella americana, vi proponiamo il grafico qui sopra. Si tratta di un grafico che potrebbe a prima vista trarre in inganno, perché sembrerebbe rappresentare proprio l’inflazione in Eurozona e negli Stati Uniti. Ciò che è raffigurato, invece, è qualcosa di diverso: la differenza, per entrambe le aree monetarie, tra l’indice di inflazione complessiva (che include l’intero paniere di prodotti preso in considerazione dagli istituti di statistica) e l’inflazione core (che esclude prodotti i cui prezzi tendono a essere fortemente volatili – come i beni energetici, alimentari, l'alcool e il tabacco).
L’inflazione core tende a essere maggiormente rappresentativa di quanto dell’inflazione registrata in un’area valutaria sia destinato a “radicarsi”, cioè a diventare duraturo. Naturalmente, anche i prezzi dei prodotti inclusi nel paniere core possono risentire dell’innalzamento dei prezzi di prodotti volatili come quelli energetici. Ma, di solito, lo faranno meno.
Cosa ci dice il grafico qui sopra? Essenzialmente, che le inflazioni simili fatte registrare in Eurozona e negli Stati Uniti in questi mesi sembrano avere origini non identiche. E che forse anche la loro durata potrebbe essere diversa. Come si può notare, infatti, da un lato è vero che gli spread tra inflazione complessiva e inflazione core fatti registrare in Eurozona e negli USA sono a livelli tra i più alti di sempre, e in crescita. Questo suggerisce che i prodotti molto volatili (come gli energetici) stiano avendo una grande influenza nel “trascinare” verso l’alto l’inflazione.
D’altra parte, si può anche notare che i valori europei staccano ormai nettamente quelli americani, dopo aver viaggiato praticamente appaiati per anni. Ciò suggerisce che negli USA la tendenza a “incorporare” l’inflazione in tutti i prodotti, anche quelli di solito meno volatili, sia molto più alta. E questo a sua volta fa pensare che l’inflazione americana sia generata in parte maggiore da cause interne e a dinamiche di domanda, come per esempio il fatto che il tasso di disoccupazione sia molto basso e che per compensare la forte domanda di lavoro i salari negli Usa siano cresciuti a ritmi sostenuti. Al contrario, in Eurozona sembra che gli alti tassi d’inflazione dipendano in misura maggiore alla variazione dei prezzi dei prodotti volatili, e dunque più a dinamiche di offerta che di domanda.
Come vedremo, questo suggerisce ricette diverse perché Eurozona e Usa possano uscire da questo periodo di forte crescita dei prezzi.
Quello di oggi è un dejà vu? Sì e no. L'elevata inflazione odierna evoca il ricordo della Grande Inflazione degli anni Settanta. In questo grafico ci limitiamo a osservare l’inflazione statunitense. Le similitudini fra i due periodi di inflazione elevata, anni Settanta e oggi, sono effettivamente molteplici: entrambiiniziarono dopo un periodo di bassa inflazione e di grandi spese pubbliche (negli anni Sessanta per la guerra in Vietnam e per il programma di Great Society di Lyndon Johnson; oggigiorno per far fronte alla pandemia di Covid-19) ed entrambi coincidono con importanti shock nei prezzi globali dell'energia e dei generi alimentari.
Queste somiglianze non devono però ingannare. Fra le maggiori differenze troviamo infatti il ruolo giocato dalla Fed. Negli anni Settanta, la banca centrale americana non aveva l'indipendenza necessaria per prendere decisioni autonome ed era troppo influenzata dalla politica per agire in maniera tempestiva. Quando divenne chiaro che la Fed non avrebbe agito rapidamente, alzando i tassi d’interesse, imprenditori e consumatori cominciarono ad aspettarsi tassi di inflazione elevati e ad agire di conseguenza: le imprese iniziarono ad alzare i prezzi e i lavoratori a chiedere aumenti salariali. Legna sul fuoco dell’inflazione, che venne spenta solo dalla decisa azione della Fed di Paul Volcker dal 1979 in avanti.
Oggi però le cose sono cambiate, e sia la consapevolezza che l’inflazione dipenda strettamente dalla politica monetaria e non da altri interventi (come per esempio l’imposizione di controlli sui prezzi), sia l’evoluzione dei loro mandati danno alla Fed e alla BCE la consapevolezza di avere tra le mani gli strumenti corretti per combattere l’inflazione, e la possibilità di concentrarsi sull'interesse economico nazionale di lungo periodo, anziché sulle richieste dei governi in carica – che quasi mai vorrebbero rischiare un rallentamento economico nel corso del loro mandato, anche a fronte di tassi di inflazione molto elevati.
Di fronte a un periodo di alta inflazione, c’è una sola cosa che dovrebbe fare una banca centrale: alzare i tassi d’interesse, costringendo la crescita economica a rallentare ma, al contempo, nella speranza che in questo modo rallenti anche la crescita dei prezzi.
Per Fed e BCE si tratta di una situazione tecnicamente più gestibile rispetto ai periodi di bassa crescita e bassa inflazione (o addirittura deflazione) vissuti dopo la Grande recessione del 2009, nel corso della crisi dell’euro nella sola Europa (2011-2014), e poi ancora durante il primo anno di pandemia. Allora, per stimolare l’economia i tassi d’interesse dovevano calare, e in quel caso ci si scontrava con la cosiddetta “zero lower bound” (ZLB): un tasso d’interesse non può (almeno in teoria) diventare negativo, perché significherebbe essere pagati un certo tasso d’interesse per prendere a prestito dei soldi, anziché pagarlo. Anche per questo, una volta portati i tassi d’interesse a zero e raggiunta la ZLB, le banche centrali hanno dovuto adottare politiche monetarie non convenzionali, tra le quali il più famoso quantitative easing, per continuare a stimolare ulteriormente economie ancora anemiche. Portando di fatto i tassi di interesse reali in territorio negativo, ma consapevoli che non ci si potesse spingere troppo oltre in questo territorio inesplorato e dalle conseguenze paradossali.
In casi di inflazione elevata, invece, il limite per le banche centrali non esiste: i tassi possono essere alzati all’infinito. Ciò tuttavia non significa che non esistano pericoli. Alzare i tassi troppo presto, o troppo in fretta, rischia infatti di provocare una frenata economica troppo brusca o profonda, e dunque di causare una evitabile recessione.
Nel nostro caso, la Fed ha ormai da mesi già deciso di tornare ad alzare i propri tassi d’interesse e lo sta facendo in maniera molto più rapida del previsto. Diversamente, la BCE ha deciso di mantenere i propri tassi a zero fino a questo momento, di riassorbire il proprio quantitative easing pandemico, e di iniziare ad alzare i tassi solo a fine luglio.
Per spiegare le diverse scelte dalle due parti dell’Atlantico, a fronte di tassi di inflazione praticamente identici, bisogna tornare al primo grafico di questo DataLab. La BCE scommette infatti che l’inflazione europea sia meno “strutturale” e duratura rispetto a quella americana, e che dunque il rischio di alzare i tassi troppo presto sia più concreto rispetto alla propria controparte d’oltreoceano. Come mostrato nel nostro grafico, la diagnosi appare corretta. Ma se la scommessa sarà vinta o persa (cioè, che l’inflazione elevata sia un fenomeno passeggero o più duraturo) è qualcosa che potremo verificare solo nei prossimi mesi.
Quali effetti stanno avendo i rialzi (attuali e previsti) dei tassi di interesse negli USA e in Europa? Innanzitutto, un rallentamento della domanda occidentale, che sta finalmente cominciando a moderare la crescita dei prezzi delle materie prime. Lo si vede bene considerando l’andamento dei prezzi dei metalli: dai livelli record di marzo sono scesi del 18%, e sono inferiori del 7% rispetto a un anno fa. Una vera eccezione in tempi di iperinflazione. Tuttavia trend simili, anche se meno marcati, si osservano anche nei prezzi del cibo (-5% nell’ultimo mese) e dei fertilizzanti (-13% da aprile), che sembrano aver superato il loro picco e avviarsi verso una fase di discesa.
Che il peggio sia passato? Non proprio. Alcuni dei principali fattori dietro questo calo sono infatti transitori. Sui prezzi dei metalli influiscono ad esempio i lockdown in Cina, che ne hanno ridotte fortemente le importazioni (Pechino è il primo importatore al mondo di queste materie prime). Mentre la ciclicità dei raccolti spiega la dinamica dei prezzi dei fertilizzanti, la cui domanda è diminuita visto che è ormai trascorsa la stagione della semina. In favore di quella del raccolto di grano e mais nell'emisfero settentrionale, la cui offerta sta quindi aumentando.
Eppure, malgrado la progressiva riduzione delle restrizioni all’export imposte negli scorsi mesi su materie prime alimentari (olio di palma indonesiano) e fertilizzanti (dalla Russia), i loro prezzi restano rispettivamente superiori del 23% e dell’85% rispetto a giugno 2021. E forse solo una recessione globale potrebbe riportarli giù, sotto ai livelli di guardia.
Considerando la situazione economica attuale, viene da chiedersi quali siano le aspettative degli operatori di mercato. Per farlo utilizziamo il Purchasing Managers' Index (PMI), un indice che misura il livello di attività dei responsabili degli acquisti nel settore manifatturiero rispetto al mese precedente.
Quando il suo valore è superiore al 50, come dopo la prima ondata pandemica nel giugno 2020, significa che il mercato si aspetta una fase di espansione economica. Per converso, quando il valore dell’indice scende sotto i 50, le aspettative sono al ribasso.
Anche se i valori ufficiali di luglio non sono ancora disponibili, i dati mostrano un trend chiaramente in discesa – e in forte discesa proprio dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina alla fine del febbraio scorso. Gli operatori di mercato non sembrano aspettarsi ancora una recessione (il valore è infatti ancora superiore al 50), ma molti di loro dichiarano di stare riducendo gli acquisti rispetto ai mesi precedenti. Sintomo di una strategia più cauta in vista di una possibile recessione.
Di fronte a questi segnali di rallentamento economico, la parola sulla bocca di tutti gli economisti è stagflazione. Ovvero una combinazione di bassa crescita economica, elevata inflazione e alto livello di disoccupazione. Da cui non è facile uscire: misure per ridurre l’inflazione rischiano di abbattere completamente la crescita economica, viceversa politiche pro-crescita produrranno ancora più inflazione.
A guardare l’aggiornamento delle previsioni su crescita del PIL e tasso di inflazione relativi ai paesi europei, tali prospettive non sembrano poi così remote. Rispetto a dicembre 2021, mediamente in Europa le prospettive di inflazione per il 2022 sono state riviste al rialzo di 5,1 punti percentuali (p.p). Mentre quelle di crescita sono state riviste al ribasso di 1,8 punti percentuali. Con picchi negativi per Germania (-2,2 p.p.) e Italia (-2,1).
Ma mancano ancora due ingredienti fondamentali prima che sia stagflazione. La disoccupazione è ancora molto bassa: in Europa sotto i livelli pre-pandemici. E l’inflazione dovrebbe diventare persistente, tollerata dalle banche centrali per un periodo sufficientemente lungo da modificare le aspettative di lavoratori, imprese e investitori.
Oggi, per fortuna, non sembra questo il caso, viste le politiche monetarie di Fed e BCE. Che, come detto, stanno già alzando i tassi d’interesse o si preparano a farlo. Ma che però potrebbero essere arrivate troppo in ritardo rispetto agli eventi macroeconomici. In tal caso un atterraggio morbido dell’economia sarebbe difficile. E il rischio è di trovarsi con una recessione sincronizzata in Europa, USA e Cina. Meglio della stagflazione?