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Commentary

L’intervento turco in Libia: un game-changer nel conflitto?

Federica Saini Fasanotti
10 gennaio 2020

Che in Libia ci siano più potenze straniere (e le loro armi) che libici è ormai un dato di fatto, volendo usare un macabro sarcasmo. Lo ha detto anche lo stesso inviato speciale delle Nazioni Unite, Ghassan Salamé. La motivazione è duplice: innanzitutto la debolezza intrinseca delle parti libiche e la mancanza di istituzioni in grado di reggere la transizione post-gheddafiana; in secondo luogo la posizione di assoluto rilievo strategico della Libia all'interno dello scacchiere nord-africano e le sue straordinarie risorse energetiche.

In Libia le potenze che oggi vediamo premere sull'acceleratore sono in realtà presenti dal 2011, dall'anno della rivolta contro Gheddafi, ma oggi esse appaiono molto più coinvolte di nove anni fa, in un crescendo che ha la sua origine nella seconda guerra civile del 2014.

In uno scenario confuso e assai fosco, è ultimamente emersa con decisione la Turchia. I fatti parlano chiaro: dal 4 aprile 2019, quando il maresciallo di campo Haftar ha iniziato la sua battaglia contro gli "islamisti" di Tripoli – dimenticandosi di quello che invece quelle stesse milizie avevano sofferto nel combattere la presenza di ISIS a Sirte, mentre lui stava a guardare – il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha iniziato ad appoggiare anche coi fatti il Governo di Accordo Nazionale (GNA) nato nel 2015 per volontà della comunità internazionale e sotto la bandiera di UNSMIL, differenziandosi da tutti i leader europei che, invece, hanno speso tante belle parole "nella necessità di trovare una soluzione diplomatica" e tanti danari in conferenze altrettanto inutili. Dopo aver mandato droni e mezzi corazzati, il 27 novembre 2019, Ankara ha firmato con il GNA un memorandum riguardo a uno spicchio di sovranità su aree marittime del Mediterraneo per la ricerca di gas e petrolio e che in pratica si dovrebbe realizzare con una sostanziale collaborazione militare e marittima.

La reazione del governo di Cirenaica, e ovviamente di Haftar, è stata rabbiosa, e non sono mancate le proteste di Cipro, Grecia (che ha espulso l'ambasciatore libico immediatamente), Israele ed Egitto, tutti paesi interessati a quell'area. Senza entrare nello specifico di questo accordo, si può dire che esso ha segnato una svolta nel coinvolgimento della Turchia all'interno della guerra civile libica, ponendosi in netto contrasto ovviamente con gli egiziani, ma anche con i russi, preziosi alleati su altri scacchieri.

A tale proposito l'incontro dell'8 gennaio fra Putin ed Erdogan, proprio a Instanbul, ha indubbiamente rappresentato un momento topico per quanto concerne la dinamica sul terreno libico. E non solo: non va dimenticato che proprio in quell'occasione è stato inaugurato il TurkStream pipeline che porterà gas russo all'Europa attraverso la Turchia.

La motivazione per cui Erdogan – a sua detta – ha fatto approvare l'intervento dal suo parlamento non è tanto quella di combattere su suolo libico, quanto quella di facilitare una seria tregua, controbilanciando quel supporto reale – e non solo retorico – che Haftar ha avuto negli anni da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e, in maniera trasversale, dalla Russia. La risposta a questa azione di deterrenza, tuttavia, non è stata positiva: Haftar, dopo aver bombardato il 3 gennaio l'aeroporto di Mitiga per impedire qualunque sbarco di armi o soldati, ha rilanciato la posta in gioco, compiendo un'operazione a tenaglia su Sirte, dove proprio in queste ore si sta combattendo. È evidente che il generale spera di espandersi il più possibile per evitare qualunque tipo di pressione da parte di Mosca, interessata non solo ai contratti di lunga data firmati con Gheddafi e in parte ancora non ottemperati dai libici, ma anche ad avere un buon rapporto con Ankara in vista di importanti accordi diplomatici ed economici. L'obiettivo, di Putin ma anche di Erdogan, è senza dubbio quello di limitare considerevolmente l'influenza statunitense ed europea in Libia, raggiungendo in un futuro assai prossimo una maggiore capacità contrattuale con l’Europa, sia a livello diplomatico sia economico. La straordinaria posizione strategica della Libia per quanto concerne tre problematiche molto care all'Europa (terrorismo, energia e migrazioni) non va poi dimenticata.     

Per correre ai ripari, dopo anni di inconcludenza, le amministrazioni europee, guidate dal nostro neo-ministro degli Esteri Luigi Di Maio, hanno attivato un’iniziativa diplomatica. Sarà però molto difficile che questa possa ottenere qualche risultato: soprattutto perché i libici della Tripolitania si sentono ormai traditi dall'Europa che molto ha detto, ma poco ha fatto, anche di fronte a una vera e propria aggressione come quella di Haftar. Qualunque tipo di negoziazione politica al momento è molto difficile, sia perché i “pesi massimi” stranieri hanno i propri interessi da perseguire sia perché gli stessi protagonisti libici dei due schieramenti opposti – dai leader Fayez al-Serraj e Khalifa Haftar alle diverse milizie combattenti – non sembrano minimamente interessati ad alcuna risoluzione politica. A questo punto l'unica risposta plausibile potrebbe essere quella militare.

 

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AUTORI

Federica Saini Fasanotti
Brookings Institution e ISPI

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