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Commentary

L'Intesa tra tuareg e governo maliano: prossimi la fine delle ostilità e il via alle elezioni

19 giugno 2013

La storia recente del Mali è costellata di accordi fra potere centrale e ribelli tuareg del nord. È successo nel ’91, nel ’95, nel ’96, nel 2006 e nel 2008. Minimo comun denominatore è che la pace al nord non è mai durata un granché. Ma questa volta, secondo molti, sarà diverso. Martedì 18 giugno a Ouagadougou, capitale del confinante Burkina Faso, dopo undici giorni di aspre concertazioni è stato firmato l’Accordo-quadro fra i ribelli del Mnla (il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) e del Hcua (l’Alto Consiglio per l’Unità dell’Azawad) e il governo del Mali che decreta un importante cessate-il-fuoco nel nord del paese in vista delle elezioni presidenziali previste il prossimo 28 luglio. Blaise Compaoré, eclettico dittatore del Burkina Faso, dopo aver convinto il presidente ad interim Dioncounda Traoré a sedersi al tavolo con i leader della rivolta tuareg (che dall’inizio della guerra hanno scelto Ouagadougou come quartier generale, oltre alla storica Parigi) incassa l’ennesima vittoria in veste di mediatore dei più recenti conflitti regionali.

Alla presenza del ministro degli Esteri burkinabè e di emissari dell’Onu e dell’Ue, Bilal Ag Acherif (Mnla), Algabass Ag Intalla (Hcua) e Tiébilé Dramé (capo della delegazione di Bamako) hanno firmato l’accordo, che verte soprattutto sul ritorno in tempi brevi dell’esercito maliano a Kidal, città del nord ancora sotto controllo armato dei ribelli tuareg, per permettere l’organizzazione in tutto il territorio nazionale delle elezioni presidenziali. I punti caldi di tale patto – come ad esempio i tempi e le modalità del ritorno delle forze armate a Kidal, del disarmo e della reintegrazione nazionale dei gruppi tuareg – non sono ancora stati resi pubblici. Ma dalle prime indiscrezioni trapela che il Mnla avrebbe ottenuto la sospensione dei processi ad alcuni capi del movimento (sulla testa della maggior parte dei tuareg presenti al tavolo delle trattative pende un mandato di cattura) e la garanzia della funzione di “arbitro imparziale” dell’Onu nella regione di Kidal.  

La firma dell’accordo-quadro di Ouagadougou è l’ennesima prova che il conflitto in Mali non è finito, ma sta cambiando volto. L’Operazione Serval che ha visto impegnati circa 4000 soldati di Hollande nella riconquista delle tre regioni settentrionali di Timbuctu, Gao e Kidal, volge al termine. Il ritiro graduale del contingente francese, con i primi mille militari già rientrati in patria, è cominciato. Mentre i jihadisti, provati dall’offensiva subita, si leccano le ferite in qualche grotta dell’Adrar Des Ifoghas e si preparano al contrattacco, i francesi lasciano (ben volentieri) la prima linea alla missione di peacekeeping dell’Onu (Minusma), circa diecimila soldati africani riciclati dal contingente della Cedeao/Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) e dell’Unione Africana (Misma) già presente in Mali. Il prossimo 25 giugno il Consiglio di Sicurezza deve approvare la risoluzione che renderà operativo il dispiegamento nel nord del paese dei caschi blu in vista delle elezioni. Un funzionario francese che chiede l’anonimato spiega così la situazione attuale: «La sicurezza del nord del Mali ora è compito dell’Onu. Ma siamo sicuri che alla fine verranno a chiedere aiuto ancora a noi». Parigi, infatti, insieme al ritiro graduale del contingente ha deciso anche lo stanziamento perenne di un nucleo rapido d’intervento antiterrorismo formato da mille uomini. 

Nonostante la consapevolezza delle oggettive difficoltà non solo logistiche che presenta una tornata elettorale da organizzare in un vasto territorio in parte ancora in guerra e con più di 500mila profughi sparsi nei paesi limitrofi, le presidenziali sono la priorità assoluta dell’attuale fascicolo maliano della comunità internazionale. Riavviare il processo democratico in Mali (che oltre a sei mesi di guerra ha conosciuto anche un colpo di stato militare nel marzo 2012) chiamando i cittadini alle urne per dare un segnale di piena riconquista della sovranità nazionale ed evitare l’ “effetto-pantano”. Ma questo progetto di rinascita, oltre alla minaccia costante del narco-jihadismo, ha un’altra falla: la città di Kidal. 

Terzo capoluogo di regione del nord del Mali dopo Timbuctu e Gao, Kidal è da sempre la capitale dell’irredentismo tuareg. A due passi dalle frontiere d’Algeria e Niger, questa antica oasi del Sahara è sempre stata base dei gruppi ribelli indipendentisti, oggi raggruppati sotto la sigla del Mnla. I capi del Mnla sono in maggioranza combattenti tuareg tornati dalla Libia armati e con velleità di riscossa dopo la morte del loro paladino Muhammar Gheddafi (che aveva perfino aperto un consolato libico a Kidal). Dopo aver facilmente occupato manu militari nell’aprile dell’anno scorso le tre regioni del nord e aver dichiarato l’indipendenza dell’Azawad (letteralmente “terra del pascolo” in tifinagh, ossia la regione settentrionale del Mali), i tuareg hanno aperto le porte del paese agli alleati jihadisti che però, in poco tempo, li hanno a loro volta scacciati, installandosi nella regione di Gao e Timbuctu. Una parte dei ribelli tuareg guidati da Iyad Ag Ghali ha raggiunto le fila della “guerra santa”, creando il gruppo Ansar Addin (i “difensori della religione”) divisione maliana di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Altri più fedeli alla natura laica del movimento si sono rifugiati nelle remote zone desertiche della regione di Kidal, cercando di smarcarsi politicamente dai fratelli “terroristi”. 

Dall’inizio della guerra il Mnla ha mantenuto un atteggiamento ambiguo offrendosi alla Francia (storicamente vicina alle istanze di autodeterminazione del popolo tuareg) come alleato in chiave “anti-qaedista”, ma dimostrandosi recalcitrante a un ritorno nei ranghi nazionali e a un dialogo politico con il governo centrale di Bamako. Con l’avanzare dell’intervento francese, il Mnla si è smembrato in diverse sigle – come il Maa, Movimento arabo dell’Azawad, il Mia, Movimento islamico dell’Azawad – dimostrando camaleontismo, litigiosità interna e disperata volontà di essere considerato nei negoziati di pace. Quando la Francia, dopo aver liberato a fine gennaio Timbuctu e Gao, ha marciato su Kidal prendendone l’aeroporto è scesa a patti con il Mnla, garantendogli però che l’esercito maliano non avrebbe messo piede in città. Da quell’ormai lontano inizio febbraio l’intera città è ancora in mano alle milizie tuareg che hanno fino a oggi rifiutato di consegnare le armi. Fonti locali raccontano di razzie di bestiame e violenze perpetrate dai sedicenti “signori di Kidal”, che recentemente hanno nominato un governatore (prontamente disconosciuto da Bamako), obbligato i cittadini a dotarsi di documenti della “Repubblica dell’Azawad” ed espulso violentemente dalla città decine di famiglie nere originarie del sud. In tutta la regione settentrionale il Mnla ha approfittato dell’indebolimento dei gruppi jihadisti e della tacita accettazione francese, presentandosi come unico potere legittimo e vanificando fino a oggi il ritorno dell’amministrazione centrale. 

Proprio perché affronta il nodo gordiano della questione settentrionale e del conflitto in Mali (Kidal)  questo accordo, definito “storico” dalla comunità internazionale, se verrà rispettato da ambo le parti potrebbe gettare le basi per un processo di ricostruzione sociale e di riconciliazione nazionale necessario al nuovo Mali. Primo critico passaggio di tale percorso di rinascita saranno le tanto attese elezioni presidenziali del prossimo 28 luglio.

Andrea de Georgio, giornalista, collabora con Limes e Il Foglio, è corrispondente dal Mali.

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