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Focus Mediterraneo allargato n.14
L’Iran alla prova della “massima pressione”
Annalisa Perteghella
23 settembre 2020

Primo paese della regione Mena a divenire epicentro della pandemia da Covid-19, l’Iran si trova tuttora in una fase di emergenza sanitaria, accompagnata da una fase altrettanto grave di crisi economica. Nel paese, infatti, gli effetti economici della pandemia si sommano a quelli delle sanzioni. Per questo motivo, Teheran guarda con particolare attenzione alle elezioni presidenziali Usa del prossimo novembre. Nell’attesa di conoscere il nome del prossimo inquilino della Casa Bianca, e dunque di sapere se la politica Usa verso l’Iran si collocherà in continuità o in discontinuità rispetto a quella attuata negli ultimi quattro anni, tanto l’Iran quanto i paesi dell’Unione europea (Ue) cercano di mantenere in essere ciò che rimane del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo sul nucleare firmato nel 2015 e messo gravemente in crisi proprio dal ritiro Usa.

 

Quadro interno

Alla vigilia dell’inizio del nuovo anno scolastico, l’Iran si trova alle prese con una probabile terza ondata della pandemia da Covid-19. Nel paese, in realtà, il virus non ha mai cessato di circolare. Dopo il picco di marzo, la curva epidemiologica ha registrato un deciso abbassamento nel mese di aprile, effetto del lockdown parziale imposto dalle autorità, ma già nel mese di maggio, con l’allentamento delle misure restrittive, la curva ha rapidamente ripreso a salire fino a raggiungere nel mese di giugno un numero di casi maggiore rispetto a marzo. All’inizio di settembre, i casi totali registrati sono 390.000, mentre le vittime superano le 22.000.

Oltre alla dimensione sanitaria, a incidere pesantemente sul paese è l’effetto economico della pandemia, che si somma a quello delle sanzioni. A complicare ulteriormente il quadro è stato anche il deciso crollo del prezzo del petrolio negli scorsi mesi. Le restrizioni al commercio internazionale hanno inoltre ridotto le importazioni di materie prime e limitato le capacità iraniane di esportazione di prodotti non petroliferi. Lo stop ai voli da e per l’Iran e la chiusura dei confini terrestri, sempre in conseguenza della pandemia, hanno inflitto ulteriori costi. Anche il settore turistico, che offre tradizionalmente una boccata di ossigeno all’economia del paese, registra quest’anno drastiche perdite. In considerazione di questi fattori, il Fondo Monetario Internazionale stima una contrazione del prodotto interno lordo iraniano del 6% nel 2020, mentre nel 2021 l’economia dovrebbe riprendere a crescere a un tasso del 3%.

La variabile decisiva, in grado di determinare significative variazioni di crescita, è però rappresentata dalle sanzioni, in modo particolare quelle sul settore petrolifero. Anche per questo motivo l’Iran guarda con interesse alle elezioni presidenziali americane del prossimo novembre, dalle quali dipende la sopravvivenza di ciò che rimane del Jcpoa, l’accordo sul nucleare siglato nel 2015. Anche se gli Stati Uniti non sono più parte dell’accordo dal 2018, la politica di “massima pressione” implementata dall’amministrazione Trump per mezzo di pesanti sanzioni su pressoché ogni settore dell’economia iraniana ha severamente limitato le possibilità per gli altri paesi, in particolar modo europei, di dare corretta implementazione all’accordo.

In conseguenza di ciò, l’Iran ha intrapreso a partire dal maggio dello scorso anno una politica di graduale riduzione della compliance rispetto ad alcuni punti del Jcpoa, che ha ridotto il tempo di breakout, ovvero il tempo necessario per arricchire uranio sufficiente a produrre una bomba atomica.  Se prima del Jcpoa il tempo di breakout era stimato in 2-3 mesi, le limitazioni al programma nucleare imposte dall’accordo avevano allungato questo tempo a 12 mesi. Da quando però Teheran, nel maggio 2019, ha cominciato a ridurre gradualmente la propria compliance nei confronti dell’accordo, il tempo di breakout si sarebbe nuovamente ridotto, secondo stime dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), a 3-6 mesi. Al giugno 2020, si stima che l’Iran sia tornato ad arricchire uranio al 4,5% utilizzando più di 6100 centrifughe IR-1, accumulando scorte di uranio arricchito oltre quanto consentito dal Jcpoa, e che in particolare il paese disponga di 1.088 kg di uranio arricchito tra il 2 e il 4,5%. L’Iran, tuttavia, ha chiarito in diverse occasioni che la decisione di non rispettare più parte delle limitazioni al proprio programma nucleare non è irreversibile, e che è anzi pronto a tornare integralmente all’accordo se anche le altre parti dovessero riprendere a dare compimento ai propri obblighi, in particolare per quanto riguarda il venire meno delle sanzioni. Il fatto che Teheran abbia regolarmente aggiornato l’Aiea circa le proprie azioni di violazione di alcuni parametri dell’accordo, così come l’effettiva reversibilità delle azioni intraprese finora, sembrano suffragare la posizione iraniana.

Ma la politica trumpiana di massima pressione non ha avuto conseguenze solamente sulla questione del programma nucleare: le azioni degli Usa in questi mesi hanno infatti inciso significativamente sugli equilibri politici interni all’Iran, contribuendo a un indebolimento delle formazioni politiche più pragmatiche e moderate e al rafforzamento di quelle più radicali e intransigenti. Come già certificato dai risultati delle elezioni parlamentari dello scorso febbraio, i moderati e i riformisti, che rappresentano la base di supporto dell’attuale presidente Hassan Rouhani, hanno decisamente ceduto il passo ai cosiddetti principalisti, sostenitori di una politica militarista in opposizione all’Occidente. Se questa traiettoria non viene interrotta – per esempio tornando alla piena implementazione del Jcpoa attraverso la rimozione delle sanzioni – lo scenario più probabile è quello di una definitiva presa del potere da parte dei principalisti in occasione delle elezioni presidenziali del giugno 2021. Ma soprattutto, la fazione politica che sarà in grado di imporsi nel futuro prossimo avrà la possibilità di incidere sul processo di selezione della prossima Guida suprema, vero ago della bilancia della politica interna e internazionale del paese.

 

Relazioni esterne

Nel mese di agosto il Jcpoa è stato al centro di un’intensa battaglia diplomatica interna al Consiglio di sicurezza Onu. La risoluzione introdotta dagli Usa per estendere l’embargo internazionale sulla vendita/acquisto di armi all’Iran, che scadrà il prossimo 18 ottobre, ha registrato il solo voto a favore di Washington e della Repubblica Dominicana, mentre tutti gli altri membri del Consiglio (inclusi gli europei) hanno optato per l’astensione, a eccezione di Russia e Cina che hanno invece espresso il loro veto. Anche le minacce statunitensi di ricorrere allo snapback delle sanzioni (ovvero la totale reimposizione di tutte le sanzioni internazionali che erano state sollevate contestualmente all’entrata in vigore del Jcpoa), hanno riscontrato una ferma opposizione da parte della comunità internazionale. Il portavoce dell’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera Josep Borrell, così come i tre paesi membri del gruppo Eu3 (Francia, Germania, Regno Unito), ma anche la Cina e la Russia, hanno respinto la presa di posizione statunitense affermando che dal momento che Washington ha dichiarato il proprio ritiro dall’accordo nel maggio 2018, non dispone più della possibilità di innescare lo snapback delle sanzioni, riservata ai soli partecipanti all’accordo. Nel frattempo, il parlamento iraniano ha approvato una mozione di emergenza che obbligherebbe il governo Rouhani a ritirarsi definitivamente dall’accordo nel caso in cui lo snapback venisse effettivamente dichiarato.

Per il momento, dunque, il Jcpoa rimane in vigore, seppur ridotto nelle sue potenzialità dai molteplici attacchi subiti e dalla ridotta compliance da parte iraniana. Non sono però da escludere ulteriori tentativi da parte dell’amministrazione Trump di portare l’accordo al naufragio definitivo prima delle elezioni di novembre, principalmente allo scopo di strappare a Teheran un altro compromesso, al fine di aggiungere un ulteriore risultato in politica estera da presentare in campagna elettorale. La principale eredità di politica estera di Trump, per quanto riguarda il Medio Oriente, è per ora il ritorno all’isolamento dell’Iran, accompagnato dal rafforzamento della tradizionale alleanza della Casa Bianca con Israele e i paesi del Golfo. Specchio e in parte risultato di questa politica è stato proprio, ad agosto, l’accordo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e Emirati Arabi Uniti, seguito da poi da quello tra Israele e Bahrain. Per Teheran, che ha reagito condannando duramente l’accordo e definendolo “un grosso errore”, esso si traduce in un aumento del proprio senso di insicurezza e “solitudine strategica”. È proprio questo senso di accerchiamento, le cui origini risalgono alla rivoluzione e alla guerra Iran-Iraq negli anni ’80, a spingere Teheran a sostenere un’ampia rete di milizie e attori politici in paesi chiave quali Libano, Iraq, Siria, allo scopo di aumentare la propria profondità strategica (è la cosiddetta politica della “difesa avanzata”). In risposta all’ufficializzazione dell’allineamento tra Israele e Golfo, Teheran potrebbe dunque percepire un rinnovato senso di minaccia e insicurezza, e di conseguenza aumentare il sostegno ai propri proxies nella regione.

In linea con questo aumento della retorica offensiva, durante la giornata nazionale dell’industria della difesa, lo scorso 20 agosto, Teheran ha presentato pubblicamente due nuovi missili che secondo il presidente Rouhani andranno ad arricchire l’arsenale missilistico del paese a scopi di difesa. Non è una casualità che ai due missili siano stati dati i nomi di Qassem Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis, rispettivamente il comandante delle brigate al Quds e il comandante della milizia irachena Kataib Hezbollah, assassinati dagli Usa nel gennaio di quest’anno in un attacco alle porte di Baghdad. Al di là delle dimostrazioni di forza, però, il calcolo strategico iraniano rimane orientato alla prudenza, perlomeno fino alle elezioni presidenziali Usa di novembre. La priorità di Teheran è infatti la rimozione delle sanzioni, che potrebbe essere all’orizzonte nel caso di una vittoria di Joe Biden.

Nel frattempo, la Repubblica islamica cerca di differenziare le proprie opzioni proseguendo nella “Look East policy”, ovvero la ricerca e l’ampliamento delle relazioni con l’Asia, in particolar modo la Cina. Nel mese di luglio Teheran e Pechino hanno firmato un documento di “Sino-Iranian Comprehensive Strategic Partnership”, risultato di colloqui iniziati nel 2016, e dalla durata attesa di 25 anni. Il documento delinea una cooperazione tra Iran e Cina in diversi settori, dall’energia al petrolchimico, dalle infrastrutture alla finanza, dal turismo alla scienza, dalla tecnologia agli affari militari. Una delle componenti principali è la cooperazione in ambito infrastrutturale, sia fisica sia digitale. Oltre a delineare l’intenzione di sviluppare un corridoio sud-nord (da Chabahar all’Asia centrale), un corridoio sud-ovest (Chabahar-Bandar Abbas-Turchia-Azerbaijan), e la ferrovia Pakistan-Iran-Iraq-Siria, si esprime l’intenzione di sviluppare l’infrastruttura delle telecomunicazioni, con la creazione di una “Via della seta digitale” grazie alla tecnologia 5G. La cooperazione in ambito tecnologico/digitale potrebbe spingersi fino a permettere all’Iran di creare una rete internet nazionale, isolata dalla rete globale, simile al Grande Firewall cinese.

Sull’approfondimento della partnership tra Pechino e Teheran incombe però lo spettro delle sanzioni Usa, tanto da spingere molti osservatori a ridimensionare la reale portata dell’accordo. Negli ultimi due anni, infatti, diverse aziende cinesi impegnate in progetti di diverso genere in Iran sono state spinte dalle sanzioni Usa a ritirarsi dal paese, esattamente come avvenuto per le aziende europee. Questo elemento, insieme al fatto che la Cina ha siglato partnership di questo genere con diversi altri paesi nella regione, porta al ridimensionamento della portata dell’accordo sul breve periodo. Esso, per il momento, sembra più una dichiarazione di intenti e uno strumento per acquisire leverage nei confronti degli Stati Uniti, tanto da parte cinese quanto da parte iraniana. Non è infatti la prima volta che Pechino gioca la “carta iraniana” nelle sue difficili trattative con Washington; allo stesso modo, l’Iran in quanto junior partner di Pechino potrebbe utilizzare l’accordo come strumento per mettere in guardia l’Occidente, e in questo caso soprattutto gli europei, rispetto alle potenzialità di cooperazione multi-settoriale che questi stanno cedendo alla Cina a causa delle sanzioni imposte da Washington.

 

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