Alla vigilia di una probabile quarta ondata della pandemia di Covid-19, l’Iran continua a pagare un prezzo altissimo in termini di contagi e vittime. La crisi sanitaria si somma a quella economica, mentre l’amministrazione Rouhani, in carica ancora per sei mesi, sembra ormai sempre più oscurata dai falchi vicini ai militari. Se con l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca gli Usa affermano di voler mettere fine alla politica di “massima pressione” avviata da Trump, il ritorno all’accordo sul nucleare (Jcpoa) del 2015 potrebbe non essere così semplice.
Quadro interno
Con quasi 1,4 milioni di casi confermati al 28 gennaio 2021, l’Iran è il paese della regione MENA più colpito dalla pandemia di Covid-19, dopo la Turchia. A oggi, il paese è stato colpito da tre ondate di coronavirus, di potenza crescente, che hanno causato più di 57.000 vittime. Secondo il capo della task force anti-coronavirus di Teheran Alireza Zali, una quarta ondata sarebbe alle porte: se il trend attuale di infezioni e ricoveri dovesse continuare, la quarta ondata colpirebbe il paese a nella prima metà di febbraio, esattamente un anno dopo la prima. Data la ritrosia ad attuare lockdown totali – che penalizzerebbero ulteriormente l’economia – e le difficoltà nell’implementare misure quali distanziamento sociale e obbligo di mascherina su tutto il territorio nazionale, l’arma più attesa è il vaccino. La Guida suprema Ali Khamenei ha però escluso che Teheran possa acquistare il vaccino da paesi occidentali: le dichiarazioni di Khamenei sono il frutto, oltre che di una tradizionale diffidenza nei confronti dell’Occidente propria dell’ayatollah, di questi anni di radicalizzazione della retorica e delle posizioni in seguito all’abbandono da parte di Washington dell’accordo sul nucleare. Secondo il capo di gabinetto del presidente Rouhani, Mahmoud Vaezi, l’Iran sarebbe in trattative per acquistare il vaccino da “paesi amici” quali Russia, Cina e India, mentre secondo il ministro della Salute Saeed Namaki il paese si starebbe avvalendo della cooperazione di Cuba per arrivare alla produzione di massa, in primavera, di un vaccino nazionale, attualmente nella terza fase di sperimentazione.
Oltre all’impatto sulla salute pubblica e sul sistema sanitario, la pandemia e il rallentamento delle attività economiche a essa conseguenti ha avuto un impatto anche sul quadro economico del paese, già di per sé critico. Gli effetti economici della pandemia si sono infatti sommati al crollo dei prezzi del petrolio e alle sanzioni, dando origine a un “triplo shock” che nel corso del 2020 ha contribuito a peggiorare l’outlook economico del paese. Il 2020 ha infatti segnato la terza recessione consecutiva, con una contrazione del Pil pari al 6,8%.[1] A trascinare il dato verso il basso sono stati gli effetti delle sanzioni Usa, in particolare le misure restrittive alle importazioni di petrolio da Teheran, e il crollo del mercato petrolifero registrato nella prima metà dell’anno in seguito al diffondersi della pandemia da coronavirus. Il crollo del Pil derivante dal petrolio è stato infatti del 38,7%.
Nel budget 2020-21 (l’anno fiscale iraniano va da marzo a marzo), le previsioni iraniane circa le esportazioni di petrolio erano di 1 milione di barili al giorno, a un prezzo di 50$ al barile, per un totale di circa 18$ miliardi.[2] A pochi giorni dall’inizio dell’anno fiscale, nel mese di marzo, la pandemia da coronavirus ha fatto crollare i prezzi del petrolio, che fino al mese di dicembre si sono mantenuti su una media di 39$ al barile, contro i 64$ del 2019 (valore medio del Brent). Il greggio iraniano viene però venduto a prezzo più basso rispetto al benchmark internazionale, con l’applicazione poi di ulteriori sconti al fine di convincere gli acquirenti ad assumersi il rischio derivante dalla violazione delle sanzioni Usa. Sulla base di ciò, è possibile concludere che il prezzo al barile praticato da Teheran sia stato ampiamente inferiore ai 50$ messi a budget. La quantità di petrolio esportato, pur nell’assenza di dati ufficiali, viene stimata tra i 500.000[3] e i 700.000[4] barili al giorno, per un ricavo annuo totale di meno di 5$ miliardi.[5] Se si confronta questa cifra con il dato del 2017, quando in assenza di sanzioni la rendita petrolifera annua era stata di 53$ miliardi,[6] è possibile comprendere l’entità della crisi.
Tra aprile e novembre 2020, l’aumento dell’inflazione e l’incertezza geopolitica legata al confronto con gli Usa hanno causato una svalutazione del rial rispetto al dollaro pari al 43%. L’isolamento finanziario di Teheran imposto dagli Stati Uniti è inoltre causa di difficoltà di accesso ai ricavi derivanti dalle esportazioni, che fa presagire un’imminente crisi di liquidità. Ma la svalutazione della moneta ha colpito anche e soprattutto i consumatori, dal momento che tanto i prezzi delle merci importate quanto quelli di quelle prodotte internamente hanno subito un consistente rialzo. L’indice dei prezzi al consumo nel periodo aprile-novembre 2020 è aumentato del 30,6% su base annua, raggiungendo il +46,4% nel mese di novembre (rispetto al novembre 2019). Ad aumentare in misura maggiore sono stati i prezzi di materie prime alimentari e immobili, con evidenti implicazioni sulle componenti della popolazione a più basso reddito.
A fronte di un consistente calo delle entrate, il governo iraniano ha provveduto al finanziamento della spesa pubblica tramite emissione di debito, vendita di asset sul mercato azionario e attingendo al fondo sovrano riservato alle spese emergenziali. Il rapporto tra deficit e Pil è dunque raddoppiato nel periodo 2019-20 fino a raggiungere il 3,7%.
In un contesto ancora gravemente segnato dalla pandemia, il governo iraniano si trova alle prese con la necessità di compensare la popolazione per i danni economici subiti. In particolare, la pandemia ha colpito in modo significativo il settore non petrolifero (agricoltura, manifatturiero, servizi), ovvero il settore che ha trainato l’economia iraniana da quando le sanzioni Usa hanno imposto lo stop al comparto dell’energia. Secondo la Banca mondiale, al mese di giugno 2020, 1,5 milioni di persone avevano perso il loro lavoro.[7] La capacità di garantire trasferimenti di denaro alle fasce più svantaggiate della popolazione emerge dunque come cruciale per la tenuta socio-economica, e la conseguente stabilità politica, del paese.
Esistono evidenti elementi di continuità tra il contesto economico e politico attuale e quello che nel 2005 portò alla vittoria elettorale di Mahmoud Ahmadinejad. La crisi economica e il deterioramento della già complessa relazione con gli Stati Uniti rischiano pertanto di avere una forte influenza sul risultato delle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo 18 giugno. Sebbene per il momento non esistano certezze riguardo ai nomi dei candidati o agli schieramenti politici che li sosterranno, lo scenario che si delinea all’orizzonte è quello della vittoria di un ultraconservatore sostenuto dagli ambienti militari, come lo fu a suo tempo Ahmadinejad. La variabile che può potenzialmente modificare questo scenario è quella di una ripresa del dialogo con gli Usa e di un conseguente allentamento delle sanzioni. Le difficoltà relative all’effettiva realizzazione di questo scenario verranno analizzate di seguito.
Relazioni esterne
Presentato dal neo-insediato presidente americano Joe Biden come una priorità della propria politica estera, il ritorno all’accordo sul nucleare negoziato nel 2015 (Jcpoa) potrebbe però non essere così semplice o immediato. Durante la seduta di conferma della sua nomina a segretario di Stato, Anthony Blinken ha ribadito l’obiettivo dell’amministrazione Biden di tornare al Jcpoa, aggiungendo però che questo avverrà dopo che Teheran avrà fatto il primo passo tornando ad adempiere pienamente ai termini dell’accordo. Blinken ha anche confermato l’intenzione di lavorare insieme agli alleati per negoziare un accordo di maggiore durata e portata, che potrebbe dunque comprendere anche il programma missilistico e la politica iraniana di sostegno ai propri alleati nella regione (Hezbollah in Libano, le milizie filo-Assad in Siria, gli Houthi in Yemen, le Forze di mobilitazione popolare in Iraq).
Da parte iraniana, è stato l’ambasciatore presso le Nazioni Unite, Majid Takht-Ravanchi, a esplicitare la posizione di Teheran al riguardo; in interviste sui media americani così come in un editoriale sul New York Times,[8] l’ambasciatore Ravanchi ha confermato la piena reversibilità delle azioni intraprese da Teheran in violazione del Jcpoa, ponendo però come pre-condizione il pieno ritorno degli Stati Uniti all’accordo tramite la rimozione delle sanzioni che erano in vigore prima del 2015, reintrodotte poi da Trump, così come la rimozione delle ulteriori nuove sanzioni imposte dall’ex presidente Usa durante il suo mandato. La logica seguita da Teheran nell’argomentare la propria posizione è dunque che, essendo stati gli Usa i primi a violare i termini dell’accordo, e avendo Teheran in un primo momento continuato ad adempiere nonostante la reimposizione delle sanzioni, è proprio Washington a dover fare il primo passo, correggendo la propria inadempienza e restituendo dunque integrità all’accordo.
Questa diversità di vedute su chi debba fare il primo passo appare imputabile a un tentativo di posizionamento pre-negoziale, dal momento che per entrambe le parti la ricomposizione delle ostilità recenti e il ritorno all’accordo rappresenta una priorità. Per Washington esso è la chiave per scongiurare il pericolo di proliferazione nucleare e per ridurre il livello d’instabilità nella regione, decisamente aumentato in seguito alla risposta iraniana di “massima resistenza” alla “massima pressione” di Trump; per Teheran esso è essenziale per l’eliminazione delle sanzioni che hanno inflitto pesanti danni all’economia, con potenziali ricadute sulla tenuta sociale e politica del paese.
È indubbio però che esistano elementi di complicazione che potrebbero ostacolare l’incontro di questi interessi e il raggiungimento di un compromesso. Se è vero che la priorità americana rimane quella summenzionata, è altrettanto vero che sarà politicamente complicato per Biden giustificare la rimozione delle sanzioni, e dunque una maggiore disponibilità finanziaria per l’Iran, a fronte di una politica iraniana diventata sempre più aggressiva nella regione. Il presidente Usa potrebbe giustificare tale aspetto solo a fronte di maggiori restrizioni che in qualche modo imbriglino il comportamento di Teheran nella regione, ma ciò significherebbe negoziare un accordo diverso, e sicuramente più complesso, rispetto al Jcpoa, che l’Iran – che in questi mesi ha accumulato una indiscutibile leva negoziale – difficilmente accetterebbe a meno che non ponga limitazioni anche ad altri paesi della regione, come Israele e paesi del Golfo. Proprio questi due gruppi di paesi, recentemente uniti dal trend delle normalizzazioni lanciate dall’amministrazione Trump, rappresentano un potenziale ostacolo alla ripresa della diplomazia tra Iran e Stati Uniti. Se le monarchie del Golfo che hanno recentemente sanato, almeno nei suoi aspetti esteriori, la frattura in seno al Consiglio di cooperazione del Golfo tra Qatar e Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, potrebbero in linea di principio essere coinvolti in un dialogo sulla sicurezza regionale che comprenda l’Iran e che offra solide garanzie a tutti i paesi della regione, Israele rimane invece fermamente ostile a qualunque iniziativa diplomatica che possa coinvolgere Teheran. La notizia del prossimo dispiegamento nel Golfo del sistema di difesa israeliano Iron Dome sembra tuttavia allontanare ulteriormente qualsiasi ipotesi di lavoro verso una forma di cooperazione di sicurezza che coinvolga tutti i paesi della regione, inclusa Teheran.
Ulteriore elemento di complicazione è l’imminente transizione alla presidenza della Repubblica in Iran, con il sempre più probabile insediamento di una figura più vicina ai falchi e meno incline al pragmatismo e alla diplomazia. Se è vero che il decisore ultimo della politica iraniana non è il presidente della Repubblica ma la Guida suprema, è vero anche che quest’ultimo nel prendere le sue decisioni tiene conto del clima politico in essere. Alla luce di tutti questi elementi, i prossimi mesi appaiono cruciali per la ripresa della diplomazia e il raggiungimento di una qualche forma di compromesso.
Nel frattempo, il confronto tra Iran e Israele continua a dispiegarsi in Siria, dove i bombardamenti israeliani sulle postazioni dell’Islamic Revolutionary Guard Corps (Ircg) e delle milizie a loro alleate sono all’ordine del giorno. Per sfuggire ai sempre più frequenti bombardamenti israeliani attorno a Damasco e nel sud della Siria, nel mese di gennaio le truppe iraniane hanno eretto a nuova roccaforte l’area attorno a Deir-ez-Zor e lungo il confine con l’Iraq, dove però sono state nuovamente raggiunte da attacchi aerei israeliani. Questo conflitto a bassa intensità è destinato a continuare nei prossimi mesi, in parallelo agli sforzi israeliani di ridurre l’influenza iraniana nella regione e di ostacolare il raggiungimento di un nuovo accordo tra Teheran e Washington.
[1] World Bank, Iran Economic Monitor. Weathering the Triple-Shock, autunno 2020.
[2] H. Rome, Iran’s Economy In 2020, The Iran Primer, United States Institute of Peace, 16 dicembre 2020.
[3] S. Vakhshouri, Iran Under Sanctions, The Sais Initiative for Research on Contemporary Iran, Johns Hopkins University.
[4] P. Hafezi e B. Sharafedin, “Iran Says It Exports 700,000 Bpd of Oil, Later Denies”, Reuters, 12 novembre 2020.
[5] “Iran’s Oil Revenue Will Not Exceed $5 Billion in 2020”, Radio Farda, 6 ottobre 2020.
[6] Opec, https://asb.opec.org/asb_charts.html?chapter=1
[7] World Bank, Iran’s Economic Update, ottobre 2020.
[8] M. Takht-Ravanchi, “Biden Wants to Return to the Iran Deal. He Can Start Here”, The New York Times, 27 gennaio 2021.