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Commentary

L’Italia e il grande gioco libico

20 gennaio 2012

Quella libica non è stata una guerra per il petrolio attuale, ma per gli idrocarburi del futuro. Nell’agosto scorso Teheran ha ospitato la cerimonia per il cinquantesimo anniversario di fondazione dell’Opec, con il ministro del petrolio iraniano, Masoud Mirkazemi, che ha affermato, per le orecchie che vogliono intendere, che «il mercato petrolifero non va politicizzato» e che l’Organizzazione con sede a Vienna vuole espandere il proprio ruolo nella sicurezza degli approvvigionamenti energetici e delle linee di trasporto. Ovvero, l’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries), con il suo 40% del petrolio mondiale gestito, intende trasferire al Medio Oriente quello che potremmo chiamare il “modello Shangai Cooperation”, la struttura, nata nel giugno 2001, che unisce sul piano strategico e militare, oltre che geopolitico, Russia, Cina, Kazakhistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, oltre ad avere come “osservatori” India, Iran Mongolia e Pakistan. Tra poco l’Afghanistan. La “Nato dell’Est”, come la chiamano i cinesi, ma potremmo anche dire l’Ue dell’Oriente. Quindi, una parte dei paesi produttori, anche se in crisi sul piano tecnologico ed estrattivo, proprio come l’Iran, tenta di giocare la carta degli idrocarburi dell’Asia Centrale contro il Vecchio Medio Oriente e i suoi amici euroamericani. Ad agosto 2011, nella prospettiva di una lunga battaglia tra ribelli e regime gheddafiano ci si stava orientando a una divisone di ruoli: i ribelli avrebbero venduto una quota del petrolio dell’area tra Ras lanuf, Defa, Amal, mentre la rete gheddafiana a Tripoli si sarebbe occupata degli idrocarburi di Al Amara, Elephant, NC 101, con un’oscillazione tra i due contendenti, stavolta finanziaria, che riguarderà le aree di estrazione di Masruk, al Sidra, Mabruk. Ovvero, chi avesse gestito rapporti con entrambi i contendenti, debitamente resi inoffensivi sul mercato mondiale, avrebbe fatto il prezzo degli idrocarburi libici gestendo relazioni asimmetriche tra l’area dei ribelli e quella gheddafiana debitamente “riformata”. I depositi detenuti da libici all’estero, secondo un rapporto della Banca dei Regolamenti Internazionali, a settembre 2011, erano pari a oltre 62 miliardi di dollari Usa, che fanno della Libia la terza nazione più ricca, finanziariamente parlando, del Medio Oriente, dopo l’Arabia Saudita con $156mld detenuti all’estero, e gli Emirati Arabi Uniti con 75. Tra la corsa all’oro nero, vi è anche la corsa all’oro propriamente detto, visto che il congelamento dei depositi del governo libico, della famiglia Gheddafi, dei più stretti collaboratori del Raìs li rende passibili di operazioni, costose e politicamente rilevanti, di riciclaggio. Insomma, sul piano strategico, le operazioni hanno un obiettivo ben chiaro: permettere alla Francia e alla Gran Bretagna di testare sul terreno la loro alleanza bilaterale sostanzialmente alternativa alla Nato, anche se interna all’Alleanza Atlantica, mandare fuori l’Italia dai suoi asset primari nel Maghreb, Tunisia e Libia e inoltre controllare la trasformazione democratica dell’Egitto ed evitare che, all’interno del nuovo Medio Oriente, si facciano avanti nuovi competitori sconosciuti e forse pericolosi: le reti del jihad permanente, gruppi legati ad Al Qaida, sistemi tribali impermeabili alle trattative internazionali. Insomma, si fa strada un contrasto nuovo, quello tra popolazione democratica e sostenitori degli antichi regimi, che non hanno più molti soldi per pagare i loro sostenitori. Una serie di tensioni antiche, quelle tra Francia gollista e Stati Uniti e quelle che vedremo esplodere in breve tempo tra i membri dell’Opec che intendono pagare la bolletta della rivolta libica, per tenersi buoni i compratori europei e gli altri membri dell’Organizzazione di Vienna che vogliono giocare la carta del petrolio e del gas centro-asiatico, con il sostegno della Russia e della Cina (non a caso entrambe si sono astenute sulla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che decideva l’intervento in Libia). Ma questa è la storia del futuro.

L’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, è apparso agli occhi di tutti (servizi di intelligence stranieri compresi) il più attivo capoazienda italiano sul fronte libico. Lo era fino al marzo scorso come partner della Noc (National Oil Corporation) libica e come ufficiale pagatore dell’accordo di amicizia e cooperazione del 2008 tra Italia e Libia (sarebbe meglio dire tra Berlusconi e Gheddafi) con un assegno di 250 milioni di dollari l’anno per venti anni. Lo è stato durante i mesi del duro scontro tra gli insorti del Consiglio nazionale di transizione e i lealisti volando a Bengasi per stringere rapporti con la nuova leadership ma lo è stato soprattutto dopo la morte del “leader” il 20 ottobre del 2011 per favorire una rapida ripresa delle produzioni di greggio. Con una sana dose di pragmatismo lo Scaroni che faceva pazientemente anticamera davanti alla tenda del colonnello è lo stesso che ha definito “una pagliacciata” il carosello dei cavalli berberi nella caserma romana dei carabinieri a Tor di Quinto in occasione del secondo anniversario dell’accordo di amicizia e cooperazione. Ma nel suo sforzo di avvicinamento alla nuova leadership libica l’Eni proprietaria del 75% di Greenstream, il gasdotto che arriva a Gela, ha trovato spesso il suo cammino in terra di Libia sbarrato dall’attivismo delle aziende francesi.

Sarà bene, allora, fare un passo indietro. Gli accordi economici siglati da Muammar Gheddafi con Sarkozy, durante la visita del colonnello a Parigi del 2007, pari a 10 miliardi di dollari, non sono mai stati onorati dallo Stato libico. È un fatto acclarato che il 13 aprile del 2011 il presidente francese ha ricevuto segretamente il generale del Cnt, Fattah Younis, poi ucciso in circostanze oscure a Bengazi nella prima settimana di agosto del 2011, proprio in coincidenza con la prima crisi governativa e politica all’interno del Cnt. Semplici fatti ma sui quali sarà bene riflettere per avere un’idea riguardo a come si è andata sviluppando l’azione francese.

È lecito immaginare che Sarkozy e Younis abbiano parlato di petrolio, di garanzie per le future commesse forse anche in cambio delle “forniture speciali” ossia armamenti come erano quelli promessi a Gheddafi in cambio della grazia alle infermiere bulgare condannate a morte dal regime libico con l’accusa di avere contaminato bambini libici con sangue infetto da Aids. Il prezzo attuale del greggio libico è, a parte il benchmarking giornaliero, di 111,42 dollari al barile, il terzo prezzo più elevato dopo quelli di Nigeria e Algeria che riflette sia il costo dell’intermediazione del Qatar, ancora in gran parte attiva, che le evidenti difficoltà di estrazione in loco. Si può ipotizzare, appena la stabilità geopolitica lo permetterà, un’invasione di petrolio libico a prezzo comparativamente più basso dei concorrenti regionali. La Francia, tramite il Cnt, voleva probabilmente operare con il petrolio libico nello stesso modo in cui gli Usa hanno operato, fin dalla fine della guerra dello Yom Kippur, con il petrolio saudita: lo utilizzeranno, con canali finanziari specifici e riservati, per acquisire liquidità sul mercato finanziario di Parigi.

La prima ditta alla quale il Cnt ha venduto petrolio libico è stata, comunque, con un contratto siglato il 9 giugno, la statunitense Tesoro per 1,2 milioni di barili.

Non ci sono prove fotografiche ma nella “guerra geoeconomica” di Parigi contro l’Eni sarebbero stati utilizzati perfino alcuni agenti “operativi” francesi presenti nell’area di partenza libica del gasdotto Greenstream. Non si sa con quale “mission” reale e per realizzare quali obiettivi.

Intanto qualche numero: l’interscambio Italia-Libia alla fine del 2010 era di 14,57 milioni di euro, con un saldo negativo per l’Italia di 9,2 milioni di euro. Nello stesso periodo, immediatamente precedente all’inizio della rivolta, l’interscambio tra Libia e Francia mostrava un saldo negativo per Parigi di soli 3,7 milioni di euro.

Paribas ha acquisito, sempre alla fine del 2010, il 19% della Sahara Bank libica, con un aumento del capitale della filiale francese BNP-Paribas in Libia pari al 146% dei precedenti fondi a disposizione e a garanzia delle operazioni.

I Paesi Nato detengono 120 miliardi di dollari dei 150/200 che si stima essere la disponibilità totale di fondi libici all’estero nell’ultima fase del regime gheddafiano. Per quel che riguarda il grosso degli investimenti congelati all’estero dalla Libia gheddafiana, dal 26 ottobre 2011 è possibile mettere a disposizione delle imprese statali della Nuova Libia gli averi e gli altri valori patrimoniali. Rimangono congelati gli averi di quelle aziende libiche già congelati fino al 16 settembre 2011. Le aziende temporaneamente ricapitalizzate, sia pure in parte, sono la Central Bank of Libya, la Libyan Investment Authority, con vaste e note partecipazioni anche in Italia, (Eni, Finmeccanica e Unicredit) la Libyan Foreign Bank e il Libyan African Investment Portfolio. Con una sua risoluzione il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva stralciato dalla lista delle imprese libiche colpite da embargo anche la National Oil Corporation e la Zueitina Oil Company. La Svizzera ha intanto già liberato 385 milioni di franchi, mentre altri 265 milioni rimangono ancora bloccati nelle banche svizzere. Si tratta di vedere se la mancanza di trasparenza nel Cnt sarà pari ai livelli di quella presente nella Libia gheddafiana, e ci sono molti indizi, soprattutto nella gestione degli aiuti umanitari a Bengazi e a Misurata, che ci fanno pensare che questa costante della politica libica rimarrà invariata.

Durante le ostilità la Francia deteneva 7,6 miliardi di euro nella disponibilità del regime e della famiglia del colonnello della Sirte, mentre in Usa sono stati congelati (ma le normative statunitensi e internazionali rendono giuridicamente contorta la successiva attribuzione al Cnt delle risorse finanziarie all’estero) $30mld, e in Gran Bretagna il congelamento dei fondi libici ha portato alla chiusura delle operazioni su $13,587mld. In tre mesi dall’inizio della rivolta di Bengazi sono “spariti” dalle banche francesi 2,1 miliardi di euro, circa il 25% dei petroeuro custoditi nelle istituzioni finanziarie di Parigi. In Italia le disponibilità libiche ammontano a circa 7 miliardi di euro,3,5 inpartecipazioni finanziarie (Unicredit, Eni e Finmeccanica) e gli altri 3,5 miliardi in depositi presso istituti italiani (un miliardo circa solo nel gruppo Uncredit).

Ma, mentre per lo sblocco dei beni congelati occorrerà attendere le decisioni Ue e Onu, è sul terreno e intorno alla riattivazione della produzione di greggio che si sta giocando la partita tra compagnie e Paesi occidentali. La questione torna dunque a essere l’Eni. Il primo gruppo a “rientrare” in Libia, a ostilità non ancora concluse, è stata la francese Total, seguita proprio dall’Eni. Il primo sito rimesso in funzione è stato quello off-shore di Al Jurf, posseduto al 37,5% da Total e dalla Noc libica, con un 12,5% da parte della tedesca Wintershall. L’Eni all’inizio della rivolta ha perduto immediatamente il 15% della sua produzione totale. La corporation italiana ha fino a oggi rimesso in attività 15 punti di estrazione, per 31.900 barili/giorno. Essa ha annunciato agli investitori, nell’ultimo report finanziario disponibile, che l’utile netto adjusted (ovvero senza calcolare le spese “speciali” e una tantum) è di -14%, l’utile netto semplice è caduto del 31%, il che renderebbe possibile, in un non lontano futuro, un hostile takeover di alcune corporations petrolifere globali nei confronti proprio dell’Eni.

Il Cnt, fino alla progettata ripresa della piena estrazione petrolifera libica (1,7 milioni di barili/giorno, ma non certo prima di tutto il 2013) non ha liquidità per pagare i fornitori. Il che implica che le aziende più forti sul nuovo mercato post-gheddafiano saranno quelle che, in proporzione, hanno maggiore liquidità libica proveniente dal Colonnello e non direttamente investita nelle proprie aziende nazionali. La Turchia (Erdogan ha dichiarato che “coprirà” i costi di avvio e finanziari delle Pmi turche che andranno a operare nella Libia del Cnt) e quindi sarà un concorrente primario per le Pmi italiane che ritorneranno in Libia, e che dovrebbero valutare i danni inferti dalla guerra alle loro risorse e attrezzature, che stimiamo oggi, sia pure in modo induttivo, pari a circa 123 milioni di euro per tutte le Pmi operanti nella Libia di Gheddafi e che, ricordiamo, il Cnt ha ufficialmente negato validità a tutti i contratti siglati dal vecchio regime. Sarà un evidente tiro alla fune tra il Cnt che accetterà i nuovi contratti sulla base di un finanziamento completo da parte dei governi esteri per le loro Pmi e della disponibilità dei vari governi a liquidizzare e a sostenere le finanze del Consiglio nazionale di transizione. Il governo italiano ha finora dichiarato di sostenere alcune grandi aziende italiane già operanti nella Libia gheddafiana ma, al di là di qualche generica dichiarazione d’intenti, ritiene di poter operare a sostegno delle Pmi nazionali attraverso i classici strumenti Sace e Simest, che operano, come è noto, ex post e non ex ante.

Intanto, la britannica Heritage ha acquisito il controllo della Sahara Oil Service, azienda di idrocarburi con sede, guarda caso, a Bengazi, per $19,5mln, parte dei quali sono andati a finanziare il governo Cnt cha ha discretamente favorito la transazione. Ovvero, la bolla inflazionistica generata dagli Usa sulle materie prime che ha, appunto, “facilitato” l’uscita dell’economia Usa dalla crisi iniziata nel 2008, va intanto a danneggiare, d’ora in poi, l’interscambio economico degli stessi Stati Uniti, ma permette comunque la penetrazione delle economie forti dell’Area euro nella nuova Libia e nel Maghreb delle “rivoluzioni arabe”. Con il petrolio libico e con le materie prime che arriveranno dal Sahara e dalle aree subsahariane i Paesi europei faranno quello che gli Usa hanno fatto con i maggiori produttori Opec del Golfo. Una “traslatio imperii” da Washington verso Londra e Parigi, visto che l’America di Obama è la meno interessata al mantenimento dell’asse transatlantico così come era stato ereditato dalla guerra fredda.

Per il regime del colonnello, Misurata è essenziale, dato che ospita i terminali per gli oltre 40 pozzi dell’area di Marsa Brega, Ras Lanuf, fino alle aree interne di Defa e al-Farg. Gheddafi sa bene che a Tobruk è arrivato il primo tanker di petrolio che trasporterà attraverso la Qatar Petroleum oltre un milione di barili di petrolio verso l’Europa. D’altra parte, l’embargo dell’Europa Unita si applica solo alla National Oil Petroleum, la compagnia più legata alla famiglia Gheddafi, mentre per le altre società si tratta di business as usual. Non è escluso che i contratti petroliferi che si riferiscono alle aree ancora in mano ai ribelli siano utilizzati come swaps, come garanzie correlate, per l’acquisto di armi. Una “guerra dei poveri”, ma in questo caso i veri poveri sono gli occidentali, che non hanno molti soldi per sostenere i ribelli libici. Il 20 aprile il ministro delle finanze del governo di transizione libico di Bengazi, Ali Tarhouni, ha trattato con alcune majors petrolifere, tramite alcuni intermediari occidentali, affermando che non ci sarà posto per il capo della Noc gheddafiana, Shokri Ghanem, mentre il governo di transizione terrà buon conto degli amici e dei nemici che si sono rivelati nella fase attuale.

Ci sono voluti otto mesi di raid della Nato e un buon numero di “operativi” occidentali sul terreno per coordinare gli “insorti” e piegare le forze fedeli a Gheddafi. Quella che potrebbe essere considerata solo una coda delle primavere arabe spalleggiata dalla più potente alleanza militare del mondo potrebbe però rivelarsi, tra qualche anno, l’ennesimo intervento neocolonialista in terra d’Africa. Sarà la storia a dirci se l’Occidente era interessato davvero alla democrazia del popolo libico o solo al suo petrolio. Si è giocata comunque sul “regime change” libico una partita che ha diviso l’Occidente sulla necessità dell’intervento e ha contrapposto i Paesi più determinati come la Francia e i più cauti come l’Italia, che hanno atteso fino all’ultimo per schierarsi a fianco del Cnt. La road map che dovrà condurre il Paese a libere elezioni e a una democrazia compiuta (molti auspicano un modello “turco” ossia laico e non islamista) è ancora troppo incerta per fare previsioni di sorta ma la nuova leadership libica saprà fare le opportune distinzioni tra chi c’era da subito a fianco degli insorti e chi stava alla finestra a guardare. Tutte le assicurazioni fornite finora dai leader del Cnt ai rappresentanti del governo italiano sul futuro dei rapporti economici lasciano il tempo che trovano. Petrolio ed economia mai come ora faranno da corollario a partnership politiche forti dove sarà molto probabilmente lo spazio dell’Occidente nel suo complesso, quindi anche della Francia, a essere limitato a vantaggio di relazioni privilegiate con la Turchia, il Qatar e gli Emirati, ossia coloro che, nel momento del vero bisogno, hanno fatto sentire in termini di aiuti economici il loro sostegno.

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