La procedura per disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia è stata proposta dalla Commissione nell’ottobre del 2009. Si era trattata di una decisione obbligata e di una diretta conseguenza della crisi importata dagli Usa. Una crisi che aveva colpito indiscriminatamente tutti i paesi europei al punto che le procedure di disavanzo avevano coinvolto ben 24 dei 27 paesi dell’Ue (salvando soltanto Lussemburgo, Estonia e Svezia). Ma la “omogenea” diffusione di queste procedure è venuta meno negli ultimi due anni. Alcuni paesi ne sono infatti usciti (Germania, Bulgaria, Finlandia e Malta) mentre altri, Italia inclusa, vi sono rimasti ancora impigliati. Un risultato scontato dato che la crisi di oggi non è più quella “made in Usa” e non è soltanto il frutto delle debolezze intrinseche dell’Ue e del suo maggiore conseguimento, l’Euro. E’ anche la cartina di tornasole di politiche economiche nazionali per molti anni inadeguate che si sono tradotte in andamenti divergenti della produttività del lavoro e del livello dei prezzi, ovvero in saldi delle partite correnti spesso con segni opposti (dal +164 miliardi di euro della Germania al -113 della Spagna nel 2012).
La crisi degli ultimi anni ha enfatizzato le differenze all’interno dell’Ue, come l’andamento degli spread ci ha costantemente ricordato. E’ quindi un dato molto rilevante il fatto che l’Italia possa essere il quinto paese ad uscire dalla procedura per disavanzo eccessivo mentre, ad esempio, Spagna e Francia hanno ottenuto di posticipare la correzione di due anni. In questo caso l’Italia si è contraddistinta, e in positivo.
In cosa si tradurrà concretamente tutto ciò per il nostro paese? In realtà poca cosa per il 2013, ovvero soprattutto la possibilità di cofinanziare progetti nell’ambito dei fondi strutturali per circa 2 miliardi di euro. Più consistente dovrebbe invece essere l’impatto per il 2014. Infatti secondo le ultime stime della Commissione (inizio maggio), l’Italia dovrebbe registrare un rapporto deficit/Pil pari al 2,9% quest’anno, mentre il prossimo anno dovrebbe raggiungere il 2,5% (1,8% secondo invece le più ottimistiche stime del governo italiano). Si avrebbe quindi spazio per un ulteriore 0,5% circa che si tradurrebbe in 7-8 miliardi di euro di possibili spese. A completare il quadro si potrebbe prospettare una ulteriore riduzione degli spread con un conseguente risparmio in termini di spesa per interessi fino a 2 circa miliardi.
Ma qui purtroppo si fermano le buone notizie per l’Italia. Anzi a veder bene la situazione appare tutt’altro che rosea, almeno per due ordini di motivi. Il primo, e più ovvio, riguarda le prospettive di crescita. La Commissione ha infatti appena ritoccato ulteriormente al ribasso le stime sull’andamento dell’economia italiana nel 2013 (dal -1% al -1,3%), con una ripresa nell’ultimo trimestre del 2013 che appare tutt’altro che scontata. Anche per il 2014 le previsioni sono state ritoccate al ribasso dal +0.8% al +0,7%; uno scarto certamente minimo ma che segnala la difficoltà del nostro paese a ritornare su un solido sentiero di crescita. A rendere le cose peggiori ci si mette anche il debito pubblico che quest’anno supererà il 130% del Pil e il prossimo anno dovrebbe raggiungere l’impressionante 132%. Di fronte a questi dati i 10 miliardi - o poco più - potenzialmente ottenibili dall’uscita dalla procedura di disavanzo rappresentano certamente un toccasana, ma non una vera cura. Tanto più che il modo in cui queste risorse ‘extra’ verranno spese conta molto. Ad esempio, in vari paesi del mondo la tendenza attuale è quella di aumentare la tassazione sui consumi e sulle attività finanziarie (o immobiliari) delle famiglie per ridurre notevolmente quella sul lavoro, sia dal lato delle imprese che dei lavoratori. Invece la discussione in Italia sul peso specifico da dare all’abolizione/rimodulazione dell’IMU, all’aumento dell’IVA, al rifinanziamento della cassa integrazione in deroga piuttosto che al cuneo fiscale sembra andare in direzione almeno parzialmente diversa.
Il secondo ordine di motivi riguarda l’orizzonte temporale del Governo in termini di negoziazione con l’Ue. Mentre infatti si cerca di ottenere qualche miliardo in più da spendere entro la fine del 2014, non si deve correre il rischio di perdere di vista ciò che potrebbe accadere a partire dall’anno immediatamente successivo. A partire dal 2015 infatti il Fiscal Compact imporrebbe di ridurre di un ventesimo all’anno la differenza tra il rapporto debito/Pil di ciascun paese e il 60%, preso come valore di riferimento. Con le magre prospettive di crescita previste per l’Italia, questo potrebbe tradursi in tagli per 40 miliardi o più all’anno. Un dato che rischia di far sembrare la pesante austerity sofferta dagli italiani negli ultimi due anni un morbido ritocco al margine. E, soprattutto, un dato palesemente insostenibile e insensato.
L’auspicio è dunque che l’Italia interpreti l’uscita dalla procedura per disavanzo eccessivo non solo e non tanto come l’occasione per poter spendere qualche miliardo in più a debito in un arco temporale che coincida, più o meno, con la durata dell’attuale governo. L’interpretazione più opportuna sarebbe invece quella di uno stabile riacquisto di credibilità da capitalizzare nella rinegoziazione del Fiscal Compact. Una rinegoziazione che però non può rappresentare l’alibi per sottrarre l’Italia ai suoi doveri, a partire dalla riduzione dell’enorme debito pubblico - pena una nuova crisi di credibilità - quanto piuttosto l’occasione per rilanciare da protagonisti l’integrazione europea, riconoscendo le specificità dell’Eurogruppo e richiedendo al suo interno maggiore solidarietà accanto all’ulteriore, inevitabile integrazione politica ed economica.
* Antonio Villafranca é ISPI Senior Research Fellow