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Commentary

Lo scontento trasversale di un’America divisa

Paolo Mastrolilli
19 luglio 2016

Un’America divisa, insoddisfatta, impaurita e anche insanguinata, sta vivendo la campagna presidenziale con un misto di scetticismo e di speranza che il voto di novembre possa portare una svolta. Così le due Convention, quella repubblicana a Cleveland, e quella democratica a Philadelphia, si presentano come due mondi contrapposti e distanti.
I temi sul tavolo dei due congressi sono simili ed evidenti: la sicurezza, con le violenze a sfondo razziale e terroristico, che sono il sintomo di un malessere più profondo; la disuguaglianza economica, con poche persone in cima alla scala sociale che stanno benissimo, e il resto del paese che fatica ad arrivare alla fine del mese; il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, che a molti osservatori sembra indebolito, e sta contribuendo ad aprire vuoti che vengono occupati dall’Isis in Medio Oriente, dalla Russia in Europa orientale, o dalla Cina nell’Estremo oriente.
La caratteristica delle primarie è stata la manifestazione di questo disagio. I milioni di voti raccolti da Trump fra i repubblicani, e da Sanders fra i democratici, testimoniano la stessa cosa, e cioé una insoddisfazione diffusa a destra e a sinistra. Forse le esplosioni di violenza che abbiamo visto a San Bernardino, Orlando, Dallas e Baton Rouge sono riconducibili a persone instabili, che hanno sfruttato la propaganda dell’Isis o le denunce del movimento Black Lives Matter per dare sfogo a problemi personali. Non c’è dubbio però che le ragioni profonde dello scontento, dalle difficoltà economiche alle tensioni razziali, sono autentiche e il paese è diviso. Il presidente Obama cerca di mitigare questa sensazione, perché ne va della sua eredità storica. Il disagio però esiste, anche se la responsabilità non può essere attribuita interamente a lui. I repubblicani, per ammissione dello stesso leader del Senato Mitch McConnell, hanno fatto tutto il possibile per boicottarlo e farlo fallire, impedendo la realizzazione di qualunque compromesso ragionevole che avrebbe fatto il bene del paese. Così siamo arrivati alle due Convention, e in prospettiva al voto di novembre, col muro contro muro.
La candidatura insurrezionale di Trump ha avuto la meglio fra i repubblicani, e nonostante il risentimento dell’establishment, personificato dall’assenza a Cleveland di personaggi come i Bush, Romney e McCain, Donald promette di andare avanti sulla strada seguita durante le primarie per battere Hillary. Lui attribuisce tutti i problemi dell’America alla mancanza di leadership da parte di Obama, che influenza le crisi internazionali e domestiche. Clinton sarebbe una continuazione di queste politiche fallimentari e quindi va fermata. La sua base sono i bianchi della classe media e bassa, che si sentono sconfitti dalla globalizzazione, ma per vincere ha bisogno di allargarla ai moderati di centro e agli astensionisti, attirando almeno una parte di quel 50% di elettori americani che non va alle urne. Sulla sicurezza, oltre al muro da costruire lungo il confine col Messico per tenere fuori gli immigrati illegali, sta con la polizia attraverso lo slogan "law and order". Vuole bandire dagli Stati Uniti i musulmani che vengono dai paesi a rischio terrorismo, o quanto meno scrutinarli con maggiore attenzione. Contro l’Isis promette il pugno di ferro, senza scendere troppo nei dettagli, mentre è convinto di poter dialogare con Putin e ristabilire il prestigio internazionale degli Usa. Anche sull’economia non ha dato troppe indicazioni precise, invitando gli americani a fidarsi della sua esperienza come uomo d’affari per rilanciare la crescita. Una cosa che vuole fare, però, è denunciare i trattati per il commercio internazionale che secondo lui penalizzano i lavoratori Usa.
I democratici, invece, hanno deciso di puntare su Hillary, bocciando il loro candidato insurrezionale Sanders. In questo modo lei rischia di diventare la paladina dell’establishment, in una stagione politica che dalla "Brexit" alle elezioni comunali in Italia sembra dominata dal vento opposto. Clinton risponde a queste critiche sostenendo che lei è la candidata della ragionevolezza e delle riforme possibili, per curare tanto i mali della disuguaglianza economica, quanto le incertezze della leadership mondiale americana. Quindi aumento del salario minimo, università gratuita per gli studenti meno abbienti, allargamento della sanità per tutti, ma anche revisione di alcuni trattati commerciali. Philadelphia poi darà spazio alle madri dei neri vittime delle violenze della polizia, perché le minoranze sono la base della coalizione dei democratici, che pensano di vincere a novembre proprio perché sul piano demografico i bianchi non saranno abbastanza per dare la Casa Bianca a Trump. In politica estera Donald dipinge Hillary come il segretario di Stato responsabile dei molti errori commessi da Obama. Lei non può dirlo, per non urtare Barack di cui avrà bisogno in campagna elettorale per mobilitare le minoranze, ma in realtà su molti temi, a partire dalla Siria, avrebbe preso posizioni più nette del presidente.
Sullo sfondo di questo scontro fra visioni così diverse, c’è un fenomeno segnalato dal filosofo Michael Walzer, che forse aiuta a capire la complessità del momento sul piano interno. Walzer ritiene che l’America stia vivendo una svolta demografica epocale, perché le minoranze nera, ispanica, asiatica, stanno diventando la maggioranza. I bianchi, soprattutto quelli delle classi più basse, hanno la sensazione di perdere il controllo del paese e reagiscono. Se questa analisi è vera, la transizione sarà lunga, difficile, e i problemi da risolvere potrebbero andare oltre le forze di un presidente.        

 

Paolo Mastrolilli, giornalista La Stampa


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Elezioni presidenziali Usa 2016 Convention Hillary Clinton Donald Trump
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